«Prendi la strada da Bourg St. Maurice verso Les Arcs, mi trovi». Sarà. Ma se conosci Rancho non ti puoi sbagliare quando vedi la Matra Simca beige posteggiata davanti a casa. Sei arrivato. In realtà Rancho è Enak Gavaggio, uno che sugli sci ci sa andare. Medagliato agli X-Games, quinto a Vancouver nella finale olimpica di ski-cross, vincitore anche nel World Tour di freeride. 

© Federico Ravassard

Inevitabile la prima domanda, come è nato Rancho?

«Da piccolo mio padre mi ha insegnato a sciare. Ero molto inquadrato, ma a me piaceva anche fare snowboard. Solo che quando andavo a sciare ero malvisto perché vestivo da snowborder, mentre quando surfavo mi consideravano un ‘alpino’. A me tutte queste classificazioni, questi scomparti chiusi, non sono mai piaciuti: la neve è la stessa per tutti. Così quando mi hanno chiesto di realizzare un webshow sono partito da lì: provare tutte le discipline sulla neve. Volevamo fare qualcosa di nuovo rispetto alle altre produzioni, l’idea è piaciuta e siamo partiti. Dovevamo allora creare un personaggio che fosse alla moda e vintage; abbiamo cercato su Google qual è stato il primo suv ed è uscita la Matra Simca Rancho (in Italia si chiamava Ranch, ndr). Voilà, il nome l’abbiamo trovato. I baffi alla Corto Maltese sono il massimo della classe e l’abbigliamento doveva essere all’altezza. Anche se il cappello che tutti mi chiedono dove si possa trovare in realtà è quello che avevo da ragazzo».

Così sei arrivato anche alla Pierra Menta?

«Sì, in ogni episodio mi cimento con uno sport sulla neve ad alto livello, partecipando alle più famose gare. Di sicuro lo ski-alp è stato il più duro fisicamente di tutti. Lo ammetto, ho fatto solo una tappa, insieme a Caroline Freslon, tutte e quattro era impossibile, ma mi è bastata: la cosa più impegnativa che abbia mai fatto».

© Rossignol/Dom Daher

Come realizzi la trama?

«Butto sul tavolo le mie idee, poi Dino Raffault, un amico da trent’anni, cerca di metterle in ordine e insieme realizziamo la trama. Ma lavoriamo solo nel pomeriggio… E con Thibault Gachet realizziamo le riprese sul campo. Però non è così facile come sembra, soprattutto per i diritti televisivi o per convincere gli organizzatori. In Francia è un po’ più semplice perché ormai mi conoscono, ma quando, per esempio, sono andato a fare la tappa di biathlon a Ostersund, in Svezia, solo qualche ora prima del via mi hanno dato l’ok. Alla fine il presidente della federazione internazionale era entusiasta, ma prima mi hanno fatto penare». 

Hai qualche modello?

«No, nessuno in particolare. Guardo molti film: ho visto tante volte Big Fish, quello sì».

Quanto Rancho è entrato nella tua vita?

«Tutte le volte che mi invitano chiedo sempre: volete Enak o Rancho? Rancho è un personaggio, io tutti i giorni sono Enak».

E allora parliamo di Enak. Lo sci, o meglio la neve, quanto fa parte della tuo quotidianità?

«Se devo fare una classifica, direi al secondo posto la montagna, prima c’è mia figlia. Ma non c’è solo lo sci: pratico surf, base jump, parapendio. E poi colleziono gnomi, quando sono in giro compro quadri naif, ascolto musica, ma non prima di una discesa, vado in moto, però piano, non sono un grande pilota».

Dovrai comunque allenarti, no?

«La verità? Poco o nulla. Lavoro molto con la testa. O meglio mi alleno facendo sport, direi giocando: a tennis o a squash, spesso a golf. Di corsa o in bici, qualche volta esco ancora, ma non con gli stessi ritmi che avevo quando ero atleta. E poi mi piace la birra…».

Ricordi olimpici?

«I Giochi di Rio li ho visti, ma ormai trovo che non ci sia più lo spirito olimpico. Quando leggo che hanno trovato positivi anche atleti paralimpici, allora c’è qualcosa che non va». 

La neve più bella?

«In Alaska e in Canada è fantastica e sicura, però dove mi sono divertito di più è stato in Giappone. In Italia ho visto fantastici couloir nelle Dolomiti, nella zona del Cristallo. I posti ideali però sono quelli con le montagne e le onde, come i Pirenei baschi: sulla neve al mattino e a surfare nel pomeriggio. Oggi, comunque, sono cambiato: da giovane sono caduto in un crepaccio, mi sono fracassato tutto agli X-Games, adesso, forse perché c’è mia figlia, non esagero più, non voglio prendere nuovi rischi. I rischi si prendono quando si vuole vincere. E non esco più da solo sulla neve: deve essere un vero piacere e con gli amici è meglio. La montagna è una ‘cosa’ seria: ammiro gli alpinisti, come così come i velisti transoceanici, quello è sport estremo».

Il tuo futuro sarà sempre Rancho?

«Proseguirò ancora, poi vedrò cosa fare. Magari verrà fuori un film: è sempre una questione di budget». 

Potresti essere un buon allenatore?

«Dopo la finale olimpica di ski-cross ho detto stop. E subito la federazione francese mi ha chiesto di entrare nello staff tecnico, ma ho detto no. Credo che se passi subito dall’altra parte, da atleta a allenatore, non hai il giusto approccio. Sono convinto che bisogna guardarsi attorno per un paio d’anni prima di allenare, per avere un metodo nuovo e portare qualcosa da altri settori. Adesso non saprei: fare l’allenatore significa ritornare alla stessa vita dell’atleta, sempre in giro. Forse con i giovani sarebbe meglio».

 

Enak Gavaggio nato il 4 maggio 1976 ad Ambilly, con nonno di origine valdostana. Nazionale francese di sci alpino, ha fatto parte della squadra di Coppa Europa di discesa («Andavo bene nel ripido, ma ero troppo lento sui piani e ho lasciato perdere») si è dedicato al freeride e allo ski-cross. Ha vinto sette medaglie agli X-Games, una medaglia d’argento alla prima edizione dei Mondiali del 2001 a Squaw Valley e una di bronzo a quelli del 2007 a Madonna di Campiglio. Nella finale olimpica di Vancouver nel 2010 ha chiuso al quinto posto, dopo un lungo periodo di stop per un brutto infortunio («è stata una gara solo di testa, avevo male dappertutto e fino a pochi giorni prima quasi non riuscivo a camminare»). Nel freeride è arrivato quarto ai Mondiali di Tignes. 

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© Federico Ravassard