Questo pomeriggio alle 17 sul nostro account Instagram saremo in diretta con François Cazzanelli. Per ripassare l’argomento, ecco l’intervista pubblicata lo scorso agosto su Skialper. Ma da allora François non si è fermato…

Mentre camminiamo ai piedi del Cervino, su quei prati e quelle pietraie che in inverno vedono sfrecciare centinaia di migliaia di sciatori, François si ferma e si china. Raccoglie un pezzo di carta, poi uno di plastica, poi ancora il tappo di una bottiglia di vino. «Fai una fotografia alla mano con questi rifiuti? Ogni volta che salgo in montagna raccolgo quello che trovo e a fine stagione voglio fare un post con tutte le foto: si parla tanto di rifiuti e di inquinamento, ma se ognuno di noi iniziasse a raccogliere quello che trova, la montagna sarebbe più pulita». François Cazzanelli, classe 1990, è in quel momento della sua carriera alpinistica in cui succedono tante cose. L’ultimo anno è stato un susseguirsi di colpi di scena. Prima il record delle quattro creste del Cervino, a settembre, con Andreas Steindl: 16 ore e 4 minuti per polverizzare il tempo di 23 ore di Kammerlander – Wellig del 1992. Poi, un paio di settimane dopo, la nuova via Diretta allo Scudo sulla parete Sud del Cervino, aperta con Emrik Favre e Francesco Ratti. Un sogno iniziato dal padre, anche lui Guida alpina, e sul quale François metteva gli occhi dal 2012, alla ricerca di una soluzione nella parte più ripida. Poi a fine maggio la doppia ascesa sulla vetta del Denali, in Alaska, in una settimana, con la terza ripetizione italiana della difficile Cresta Cassin, in velocità: 26 ore e 45 minuti dal campo 4, 18 ore e 58 dalla terminale. Una linea che di solito viene chiusa in diversi giorni. In mezzo altre imprese che non fanno record, ma curriculum: il Mount Vinson, in Antartide, a gennaio; la traversata integrale estiva delle Grandes Murailles con Kilian Jornet in 11 ore; il tentativo di traversata invernale delle creste della Valtournenche, dal Theodulo alle Petites Murailles, passando per il Cervino. Ce n’è per gonfiarsi il petto, invece la ricetta Cazzanelli parte dal basso, dal rispetto e dall’umiltà.

 

IL CERVINO CI GUARDA, CHE COSA RAPPRESENTA PER FRANÇOIS CAZZANELLI?

«È la mia scuola di vita, la mia fonte d’ispirazione, mi ha formato: quello che ho imparato qui mi ha permesso di raggiungere le vette di tutto il mondo».

È UN SIMBOLO, UN PO’ COME L’EVEREST, DOVE SEI SALITO L’ANNO SCORSO. E, IN SCALA DIVERSA, PRESENTA GLI STESSI PROBLEMI DI AFFOLLAMENTO.

«Guarda, devo essere sincero, io questi problemi di affollamento e di sporcizia di cui si parla tutti i giorni, come pure le storie di morti appesi alle corde da anni, le ho trovate un po’ esagerate. Per quanto riguarda le file va però detto che l’anno scorso la finestra di tempo era stata più ampia. In vetta sono arrivato con l’astronauta Maurizio Cheli, con l’ossigeno perché dovevo garantire la sicurezza del cliente, poi qualche giorno dopo il Lhotse, con Marco Camandona, l’abbiamo raggiunto senza bombole e in stile alpino. Credo che non sia giusto criticare i nepalesi per il business dell’Everest. Sull’Everest per ogni cliente lavorano tre nepalesi, ciò significa permettere a tre famiglie di mangiare. Anche sul Cervino, fin dall’inizio, già nei sogni di Carrel, l’obiettivo era quello di aprire una via dove poter accompagnare i clienti, portando così ricchezza alla propria valle. Anche qui stiamo razionalizzando l’accesso, abbiamo ridotto i posti letto alla Capanna Carrel per migliorare la sicurezza e mantenere pulita e in ordine la nostra montagna. A differenza del Monte Bianco, nulla è vietato. Ripulendola ho trovato perfino un assorbente sotto i materassi che era lì da chissà quanto tempo. Se vogliamo criticare il sistema Everest, allora per essere coerenti dobbiamo togliere le corde fisse dal Cervino».

QUANTE VOLTE SEI STATO IN VETTA AL CERVINO?

«L’ultima ieri, e fanno 68. Una media di 11-13 a stagione, l’anno scorso 18 volte grazie al concatenamento delle quattro creste. Il numero è un valore relativo, quello che mi piace sottolineare è che ci sono salito da 15 vie diverse».

DAL CERVINO AL DENALI, L’ULTIMA STELLA SULLA TUA GIACCA. RACCONTACI COME È ANDATA E PERCHÉ SIETE SALITI DUE VOLTE IN VETTA.

«Le due salite in una settimana sono la ciliegina sulla torta, ma onestamente non ci contavo. Quando il 22 maggio siamo arrivati al campo 4, ci hanno comunicato che la finestra meteo favorevole sarebbe stata di sole 24 ore; a quel punto con Francesco Ratti abbiamo deciso di fare un giro di perlustrazione sulla West Rib per vedere l’attacco della Cassin. Poi, arrivati al colle, avevamo un mare di nubi sotto di noi e sopra il bel tempo, così siamo saliti fino in vetta, dopo 9 ore di scalata, alle otto di sera».

E LA CRESTA CASSIN?

«La salita vera e propria l’abbiamo fatta il 28 maggio, sempre con Francesco. Siamo partiti presto con Teto e Roger, poi loro hanno proseguito sulla West Rib. Siamo scesi per la Seattle Rump e in 4 ore e 20 minuti eravamo alla base della via. Dieci minuti per preparare il materiale e rifocillarci e poi via. Le condizioni al Japanese Couloir non erano delle migliori, c’era parecchio ghiaccio, ma siamo riusciti a cavarcela velocemente. La traccia delle due cordate davanti a noi ci ha aiutato parecchio e in poche ore siamo arrivati al ghiacciaio pensile. La prima rock band ci ha riservato un’arrampicata splendida, mai difficile e molto divertente. Arrivati in cima abbiamo superato le altre due cordate: una stretta di mano, un po’ di incoraggiamenti reciproci e poi su verso la seconda rock band. Abbiamo trovato agilmente il couloir nascosto e lo abbiamo superato. In cima a questo tratto, a circa 5.000 meri, ci siamo fermati a mangiare qualcosa. Il passaggio successivo era superare la terza rock band, ma è stato più difficile: per i successivi 400 metri avremmo dovuto tracciare la via con la neve alle ginocchia. La notte stava arrivando e abbiamo deciso di fermarci due ore a riposare e bere dentro la tendina monotelo. Alle due del mattino è venuta l’ora dell’attacco alla vetta. Faceva molto freddo, circa -36 con vento a 45 chilometri orari. Gli ultimi 700 metri sono stati difficilissimi. Stringendo i denti, finalmente alle 7 del mattino eravamo al sole e in vetta».

RIPENSANDO A QUEI GIORNI, QUAL È STATA LA CHIAVE DEL SUCCESSO?

«La strategia, la strategia di non rimanere per lunghi giorni nel gelo del campo 4, ma di attrezzarlo e poi tornare a valle, all’aeroporto, a quota 2.170 metri, dove la vita è più agevole e abbiamo potuto regalarci anche qualche comodità in più, dai grandi pannelli solari per alimentare l’attrezzatura alle pizze per festeggiare la prima salita in vetta».

LE PIZZE, CROCE E DELIZIA, SAPPIAMO CHE NE VAI GHIOTTO.

«È vero, in Alaska siamo diventati amici dei piloti e siamo riusciti a farcene portare quattro nei cartoni, poi le abbiamo scaldate su dei fogli di alluminio con il fornelletto, devo dire che non erano niente male».

COME AVETE DECISO LA STRATEGIA DI RIMANERE IL MENO POSSIBILE AL CAMPO 4?

«Me l’ha suggerita Andreas Steindl, compagno di avventura sulle quattro creste del Cervino, che era già stato al Denali. C’è una considerazione però che va oltre questa strategia: è stata possibile grazie alla nostra velocità. Mi spiego meglio: la prima volta, dall’aeroporto al campo 4, con pesanti zaini sulle spalle, ci abbiamo messo 8 ore e 45 minuti. Abbiamo dormito lì due notti e siamo rientrati a valle. Quando siamo saliti in vetta per la West Rib ci abbiamo impiegato 6 ore e 30 minuti e abbiamo dormito una sola notte al campo 4. Infine quando siamo saliti per la Cresta Cassin ci abbiamo impiegato solo 4 ore e 20 minuti. E sono 24 chilometri da 2.170 a 4.327 metri di quota».

LA VELOCITÀ È TUTTO?

«La velocità non è fine a se stessa, ma è una qualità. E in questo caso è stata una qualità vincente».

© Damiano Levati/Storyteller Labs

LA VELOCITÀ PRESUPPONE LA LEGGEREZZA, COSA AVETE USATO SULLA CRESTA CASSIN?

«Ramponi, piccozze, una corda da 35 metri, una serie di friend, una tenda monotelo, una bombola di gas, un fornello, due sacchi da bivacco, cibo e naturalmente abbigliamento imbottito in piuma».

PERCHÉ LA TUA CARRIERA ALPINISTICA È STRETTAMENTE LEGATA AL CONCETTO DI FAST & LIGHT?

«Forse perché arrivo dalle gare di scialpinismo. Così ho iniziato a fare delle gite e delle alpinistiche con gli amici e mi sarebbe piaciuto tornare da solo, in libertà, veloce e senza pensieri. È un alpinismo che mi appaga molto e mi fa sentire libero».

È UNA DOMANDA BANALE, MA IL CONCETTO DI VELOCITÀ È STRETTAMENTE LEGATO A QUELLO DI TEMPO. CHE COSA È PER FRANÇOIS CAZZANELLI IL TEMPO?

«Nonostante le polemiche sui record e la loro omologazione, credo che rimanga comunque un fattore immediatamente tangibile, anche nell’alpinismo dove ci sono altri aspetti da tenere in considerazione».

E IL RISCHIO?

«Il rischio c’è, in montagna come nella vita, ma credo che sia relativo. Relativo alla propria esperienza, allo stato di forma, alla tecnica, a tanti fattori».

LA VELOCITÀ È UN FATTORE DETERMINANTE, MA ANCHE L’ALLENAMENTO. IN UN POST HAI SCRITTO CHE LA CRESTA CASSIN È STATA POSSIBILE PERCHÉ VI SIETE PREPARATI METICOLOSAMENTE TUTTO L’INVERNO. COME TI ALLENI?

«Mi alleno semplicemente andando in montagna, in estate con roccia, corsa e mountain bike, in inverno con ghiaccio, alpinismo e soprattutto lo scialpinismo. Con mio cugino Stefano Stradelli mettiamo sempre in programma quattro-cinque gare, poi magari ne aggiungiamo altre se riusciamo. Quest’anno abbiamo fatto, tra le altre, la Pierra Menta e il Mezzalama. Però non ho un preparatore atletico e non ho fatto qualcosa di particolare questo inverno rispetto agli altri, vado molto a sensazione. Quello che volevo dire con quel post è che nulla arriva per caso. Dietro alle imprese c’è tanto studio della via, tanta preparazione fisica ma anche tanta attesa della finestra giusta. Come atleti e alpinisti abbiamo una grande responsabilità, i nostri exploit vanno spiegati, altrimenti in tanti, per imitazione, metteranno le scarpe da trail per andare in vetta al Cervino. Facendo la Guida vedo troppa improvvisazione, troppe persone impreparate per quello che stanno affrontando».

DOPO IL TANDEM CON MARCO CAMANDONA, IL TUO TALENT SCOUT NELLO SCIALPINISMO, SI È FORMATO QUELLO CON FRANCESCO RATTI…

«Con Francesco mi trovo molto bene in montagna abbiamo la stessa maniera di valutare i rischi e pericoli. Il tentativo di traversata delle creste della Valtournenche di questo inverno lo dimostra. Con Camandona ho un rapporto speciale, per me è come un secondo papà e mi ha insegnato molto. Con lui siamo stati al Churen Himal, al Kangchenjunga, all’Everest e al Lhotse e a settembre ripartirò per l’Himalaya».

RACCONTACI DI PIÙ DELLA TRAVERSATA INVERNALE DELLE CRESTE.

«A febbraio siamo partiti dal Theodulo con l’idea di attraversare il Furggen, il Cervino (salendo la via degli Strapiombi di Furggen), salire la Dent D’Hérens, le Grandes Murailles e le Petites Murailles. Sulle creste delle Murailles l’esposizione cambia continuamente e non c’erano le condizioni, diventava pericoloso e la stanchezza aumentava, abbiamo deciso di rinunciare: quelle montagne le abbiamo qui sopra casa e sarebbe stato stupido proseguire, bisogna anche sapere rinunciare».

E QUELLA ESTIVA CON KILIAN? COME È NATA?

«Mi ha chiamato lui, era in Valle d’Aosta. Ci conosciamo dai tempi delle gare e siamo entrambi amici di Mathéo Jaquemoud, lo siamo stati anche nei momenti difficili, quando Mathéo era in crisi e non andava. Sulle difficoltà alpinistiche andavamo bene, sulla corsa, soprattutto in discesa, qualche volta mi ha staccato. Alla fine però, quando avevo una gran sete, ho visto che anche lui iniziava a essere stanco e appena ha trovato una fontana si è messo a bere e a rinfrescarsi. Ci siamo trovati bene, mi piacerebbe fare ancora qualcosa questa estate».

COME È NATA L’IDEA DELLE QUATTRO CRESTE DEL CERVINO?

«In vetta, con Andreas ci incontriamo spesso alla croce del Cervino, così abbiamo unito i nostri progetti».

L’HIMALAYA, COME PER LO SCI RIPIDO, È LA PROSSIMA FRONTIERA DEL FAST & LIGHT?

«Credo che la storia dell’alpinismo sia fatta di corsi e ricorsi storici. Ci sono state le fasi di scoperta e poi le ripetizioni più veloci delle vie. È chiaro però che oggi il mix di preparazione ed evoluzione dei materiali consenta nuovi exploit e credo che in Himalaya ci siano tante possibilità».

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© Achille Mauri