Le informazioni che arrivano attraverso i mass media parlano di climate change e di aumenti medi delle temperature annue. Guardando nello specifico alla neve e all’innevamento, qual è la fotografia della situazione attuale rispetto al passato?

«Il manto nevoso è estremamente sensibile ai cambiamenti climatici. Quando le temperature aumentano, la neve cade più frequentemente sotto forma di pioggia oppure quella già caduta fonde con maggiore frequenza e rapidità. Tutto questo può causare variazioni a livello di estensione, spessore e densità del manto nevoso. Per poter quantificare questi cambiamenti e classificare correttamente i singoli inverni con poca o tanta neve, è importante disporre di serie pluriennali di misure. Ad esempio uno studio dell’ARPA Piemonte pubblicato nel 2013 ha evidenziato nelle Alpi Piemontesi nel periodo 1961-2010 una generale riduzione delle precipitazioni nevose, particolarmente accentuata alle quote inferiori ai 2.000 metri. Sempre nello stesso periodo lo studio ha evidenziato una diminuzione dello spessore medio stagionale del manto nevoso, più accentuato nelle ultime decadi. Anche la durata della copertura nevosa ha mostrato trend negativi in tutte le stazioni analizzate, più accentuati nelle stazioni alle quote prossime ai 1.500 metri».

E in altri continenti la situazione è simile?

«Uno studio recente di Beniston e colleghi, pubblicato sulla rivista internazionale The Cryosphere, ha evidenziato come la riduzione dello spessore del manto nevoso e della sua permanenza al suolo sia un fenomeno che sta interessando in maniera generalizzata tutte le Alpi europee, in particolare sotto i 2.000 metri di quota. Anche in questo caso le cause sono riconducibili alla prevalenza di eventi piovosi rispetto a quelli nevosi, così come all’incremento della velocità di fusione del manto nevoso, entrambi i fenomeni causati dall’aumento delle temperature nel corso dell’inverno e della primavera».

Fatta la fotografia della situazione attuale, quali sono le proiezioni per il futuro?

«Lo stesso articolo pubblicato da Beniston e colleghi nel 2018 riporta come numerosi studi scientifici siano concordi nel prevedere sulle Alpi a quote intorno ai 1.500 metri una riduzione dell’equivalente in acqua del manto nevoso (un parametro che dipende dallo spessore e dalla densità della neve) compreso fra l’80 e il 90% entro la fine di questo secolo. Le stesse simulazioni indicano un ritardo nell’accumulo del manto nevoso di due-quattro settimane e un anticipo della fusione primaverile di cinque-dieci settimane rispetto alla media registrata nel periodo 1992-2012, sempre a 1.500 metri di quota. Per le quote al di sopra dei 3.000 metri è invece attesa una riduzione dell’equivalente in acqua del manto nevoso di circa il 10%, anche nel caso di scenari che prevedano un incremento delle precipitazioni nel corso dell’inverno. Questi scenari climatici implicano anche l’assenza di un manto nevoso permanente alle quote più elevate nelle Alpi, con importanti ripercussioni sulla dinamica dei ghiacciai».

Si parla di aumenti medi della temperatura annua, un valore spesso incomprensibile ai più. Quanto questi dati sono direttamente collegabili all’innevamento? Esistono studi e tabelle specifiche?

«Uno studio di Valt e colleghi pubblicato nel 2008 sulla rivista Neve e Valanghe afferma che il limite della neve sicura per le attività sciistiche (criterio dei 100 giorni con più di 30 cm di neve al suolo) è confinato in Italia ad una quota prossima ai 1.500 metri. In un sistema climatico in riscaldamento, è stato stimato che la linea della neve sicura sia destinata ad aumentare di 150 m di quota ogni grado di aumento della temperatura media e sulla base di questa analisi vengono effettuate le valutazioni sulle stazioni sciistiche che saranno a rischio nel futuro, sia per la minor presenza di neve naturale che per la difficoltà di produrre neve programmata. Uno studio di Abegg e colleghi pubblicato nel 2007 all’interno di una ricerca dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) sul turismo invernale, ha evidenziato come con un aumento di 1°C di temperatura nel 2050 in Italia il numero di comprensori sciistici in grado di garantire il limite della neve sicura si ridurrebbe del 12%, mentre con un aumento di temperatura di 2°C la percentuale salirebbe al 27%».

Qual è l’aspetto più evidente dei cambiamenti in corso che uno studioso come Michele Freppaz osserva?

«La mia famiglia è originaria di Gaby, un paese valdostano situato a 1.000 metri di quota. Negli anni ’70 la neve era una presenza ricorrente nel periodo invernale, ricordo magnifiche giornate di sci nei prati dietro casa. Si saliva a scaletta e si scendeva lungo pendii accuratamente preparati da noi bambini, con tracciati a diversa difficoltà. Ricordo anche una manovia a offerta libera. Oggi ciò non è praticamente più possibile e anche la pista di fondo viene aperta decisamente di rado. Se devo fare un confronto con un passato ancora più lontano, mi piace spesso citare un episodio legato all’attività dell’illustre climatologo e glaciologo Umberto Monterin. Nel suo contributo al Manualetto di Istruzioni Scientifiche per Alpinisti del CAI, pubblicato nel 1934, lo studioso invitava i frequentatori della montagna a svolgere la raccolta di dati meteorologici, con una strategia che oggi definiremmo di citizen science. In particolare suggeriva che l’alpinista che avesse avuto occasione di osservare pioggia al di sopra dei 3.500 metri durante la stagione estiva avesse cura di prenderne nota e di darne comunicazione. Oggi probabilmente dovrebbe invitare gli alpinisti a segnalare episodi piovosi sopra i 4.000 metri di quota, in quanto alle quote inferiori questi fenomeni sono ormai molto frequenti».

Quali effetti avranno i cambiamenti climatici o stanno già avendo sulle valanghe? 

«Gli studi che hanno trattato la frequenza e le caratteristiche delle valanghe nel passato, tra i quali ad esempio quello di Pielmeier e colleghi, presentato all’ISSW di Grenoble nel 2013, hanno evidenziato come nel corso degli ultimi decenni la frequenza di valanghe di neve umida sia aumentata, anche in pieno inverno (dicembre-febbraio), con particolare riferimento alle valanghe di fondo per scivolamento (glide-snow avalanches). La tendenza all’aumento della frequenza di valanghe di neve umida dovrebbe continuare anche in futuro, in particolare alle quote più elevate e all’inizio della stagione invernale.

I vecchi dicevano che sotto la neve c’è il pane. Quale funzione ha la neve, a parte renderci tutti felici e darci l’occasione di scivolare a valle?

«Il manto nevoso che si deposita nel corso dell’inverno, se di sufficiente spessore e non troppo denso, è un ottimo isolante termico. Maggiore è il contenuto d’aria al suo interno, maggiore è la sua capacità di mantenere al caldo il suolo sottostante, indipendentemente dalla temperatura dell’aria. Nei pressi della stazione di ricerca dell’Istituto Scientifico Angelo Mosso, a una quota di 2.901 metri nel massiccio del Monte Rosa, nel corso dell’inverno se è presente uno strato di neve di almeno 80 centimetri, la temperatura del suolo rimane prossima agli 0° C, anche se quella dell’aria scende a -25° C. Se il manto nevoso non è di sufficiente spessore, il suolo non viene adeguatamente protetto e può andare incontro a fenomeni di congelamento, con effetti sul ciclo degli elementi nutritivi del suolo e sulla vitalità degli apparati delle radici. La neve è inoltre un ottimo sensore della qualità dell’ambiente, in grado di incorporare specie chimiche nel corso della precipitazione, ma anche una volta che si deposita al suolo. Ne corso della fusione primaverile il rilascio delle sostanze che sono state inglobate non avviene con gradualità ma nei primi giorni del disgelo arriva al suolo un’acqua di fusione estremamente concentrata, in base a un fenomeno conosciuto come ionic pulse. Evidentemente le specie vegetali hanno interesse a sfruttare questi nutrienti e per questo spesso iniziano la ripresa vegetativa quando ancora sono coperte dalla neve, in modo da poter sfruttare questa fertilizzazione naturale. I processi all’interfaccia suolo/neve sono fondamentali per capire l’ecologia delle aree montane, e solo un approccio interdisciplinare è in grado di comprenderne a fondo i fenomeni. Non è facile, ma solo l’unione di due discipline quali la nivologia (la scienza della neve) e la pedologia (la scienza del suolo) permette di indagare con successo i delicati equilibri che caratterizzano le aree stagionalmente coperte dal manto nevoso».

Ci sono evidenze di problematiche nel comportamento della fauna legate a quelli relative all’innevamento?

«Numerosi studi hanno evidenziato come cambiamenti nella durata e spessore del manto nevoso possano avere un significativo effetto sugli ecosistemi alpini. Negli ambienti di tundra alpina un ritardo nell’accumulo di neve in tardo autunno può determinare congelamenti del suolo in grado di alterare il ciclo degli elementi nutritivi anche nell’estate successiva. Una fusione anticipata del manto nevoso in primavera può indurre una ripresa vegetativa anticipata tale da alterare la sincronizzazione fra la disponibilità di foraggio e l’attività degli erbivori».

 

La ricerca in quota

La rete LTER Italia (www.lteritalia.it) è un insieme di siti di ricerca nei quali si conducono ricerche ecologiche su scala pluridecennale. In Italia sono ben 25 i siti e ci sono altre 26 reti nazionali a livello europeo con oltre 400 siti di ricerca, 40 quelle sui cinque continenti. Michele Freppaz è responsabile scientifico LTER Istituto Mosso, nel massiccio del Monte Rosa. Fulcro del sito di ricerca è lo storico Istituto Scientifico Angelo Mosso, a 2.901 metri di quota, al confine fra i comuni di Alagna Valsesia e Gressoney La Trinité. Di proprietà dell’Università di Torino, i laboratori scientifici al Col d’Olen furono inaugurati nel 1907, quando apparve ormai evidente che la capanna Regina Margherita, come centro di ricerca d’alta quota era diventato insufficiente alle sempre più numerose richieste di utilizzo da parte della comunità scientifica internazionale. L’Istituto Mosso, realizzato in soli tre anni, superava per grandiosità, per numero e disposizione di ambienti, per ricchezza di arredamento scientifico tutti quelli che al tempo sorgevano sulle Alpi e su altre catene montuose d’Europa e d’America. Era il primo laboratorio d’alta quota che provvedeva una sistemazione confortevole a studiosi di svariate discipline: medicina, biologia, botanica, geologia, glaciologia e meteorologia. L’attività di ricerca è attualmente condotta da differenti gruppi di ricerca con particolare interesse allo studio delle caratteristiche della neve e dei suoli e vegetazione d’alta quota.

 

I giorni della neve

«Da tempo mi chiedevo come fare per comunicare al meglio e al di fuori della cerchia degli studiosi o appassionati le mie ricerche: la neve, i suoli d’alta quota, i ghiacciai, i cambiamenti climatici, mi domandavo, potevano diventare una narrazione accessibile a tutti, magari avvincente e capace di coinvolgere anche persone che fin lì non si erano mai interessate a certi temi?». Nasce da questa esigenza I giorni della neve (192 pagine, Dea Planeta 13,60 euro), il romanzo scritto da Michele Freppaz con Francesco Casolo. «C’erano le atmosfere di certi luoghi e una serie di storie che potevano essere raccontate come quella di figure pionieristiche come Angelo Mosso e Umberto Monterin, le cui vite erano state di per sé stesse un romanzo – continua Freppaz -. Ci pensavo senza sapere bene da che parte girarmi; organizzavo conferenze e incontri con la sensazione di potere e dovere fare di più. Poi un giorno di un paio d’anni fa a Gressoney ho conosciuto uno scrittore, Francesco Casolo che già aveva lavorato su storie legate alla montagna e, fra una gita all’Istituto Mosso e una al ghiacciaio del Lys, abbiamo deciso di provarci. Cercando di unire il piacere del raccontare alla divulgazione scientifica, l’incanto di uno sguardo che va a posarsi su un ghiacciaio con il rigore dei dati che ne raccontano l’evoluzione».

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