Si attende la finestra di bel tempo per attaccare la via
La spedizione di Simone Moro, David Göttler ed Emilio Previtali, è giunta al 56° giorno di permanenza sulle pendici del Nanga Parbat. In questi due mesi, abbiamo letto i racconti giornalieri dei tre alpinisti, impegnati tra la vita del campo base e le ripetute salite ai campi base avanzati. In gioco c’è la prima salita invernale al colosso pakistano ma le condizioni meteo particolarmente severe, unite alle dimensioni della montagna, non fanno altro che dimostrare quale sia motivo per il quale, fino ad oggi, nessun uomo sia ancora riuscito a realizzarla.
TEMPERATURE IMPROPONIBILI – Il 17 febbraio, è lo stesso Emilio Previtali che descrive molto bene quale sia la situazione meteo nella zona del Nanga Parbat: “Quello che impedisce in questo momento di effettuare un nuovo tentativo di salita alla montagna è l’insieme di vento + freddo, la combinazione delle due cose. Secondo i dati delle previsioni del tempo ora ci sono circa -60/70°C a 8000 metri. Impensabile muoversi sulla montagna con queste temperature. Qui al campo base non resta che attendere, fotografare, filmare, fare un po’ di pulizie, leggere, scrivere, copiare e ricopiare un po’ di files sui dischi fissi per fare in modo che se il gelo danneggia un hard drive ci sia sempre una copia con il lavoro che abbiamo fatto sin qui al sicuro”.
IN ATTESA DEL PUNTINO – Dal suo account Facebook, sabato Emilio Previtali ha lasciato intendere che il momento del tentativo finale di ascesa al Nanga Parbat potrebbe esserte questione di giorni. Fondamentalmente la spedizione confida in una finestra di bel tempo di almeno 36/48 ore, “il tempo necessario per percorrere in salita e discesa almeno un tratto della sezione più esposta all’alta quota, al vento e ai pericoli oggettivi, quello compreso tra 6100 metri e la cima a 8126 metri”. Il puntino sulla carta delle previsioni meteo, potrebbe arrivare presto: “Un puntino. La speranza è un puntino. Un puntino piccolo che vedi arrivare da lontano sulla carta delle previsioni del tempo. Abbiamo messo a fuoco e seguiamo un puntino sul grafico meteo come si osservano le stelle cadenti o gli uccelli nel cielo, le barche a vela in mezzo al mare. Non sai esattamente quando arrivano e dove andranno a finire quei puntini minuscoli, se prenderanno forma e se verranno verso di te ingrandendosi o se svaniranno nel nulla e andranno a finire da un altra parte. Li metti a fuoco, ne tieni d’occhio uno che si distingue dagli altri e cerchi di capire se cresce e prende forma e colore e contorno, e da puntino insignificante quella cosa diventa qualcosa di concreto, di più grande, di reale. Una finestra di bel tempo, ad esempio. Sulla timeline delle previsioni meteo abbiamo messo a fuoco una data. Una possibilità. E’ un piccolo punto, per ora. Un punto fatto di calcoli, di supposizioni, di dati incrociati, di combinazioni, di speranze, di voglia di dare un senso a questi due mesi spesi su questa montagna. E’ quasi niente. Una ipotesi. Una supposizione. Esiste ma è piccola e fragile e noi ci limitiamo a tenerla d’occhio. Controlliamo ogni qualche ora con il computer se questa possibilità, questo varco tra i passare delle nuvole cresce e se prende forma, spazio, consistenza, respiro. Speriamo che tra qualche giorno questo puntino abbia preso sulla timeline del nostro computer la forma di un periodo di bel tempo privo di vento e di neve. Tre giorni come servono a noi. Non chiediamo altro. In quel caso quel puntino prenderà la forma di un tentativo alla cima del Nanga Parbat. Altrimenti bisognerà metterne a fuoco un altro e sperare che il caso lo spinga dalla nostra parte”.
ACCETTARE DI DIVENTARE NIENTE – Quello che attenderà gli alpinisti nei prossimi giorni, salvo la finestra di bel tempo, è lo stesso Emilio Previtali che lo descrive perfettamente in un suo post del 15 febbraio: “E’ enorme, il Nanga Parbat. Credo che in qualche modo la dimensione e la storia di questa montagna abbia una grande influenza psicologica su chiunque provi a salirci sopra. Simone e David sono perfettamente consapevoli delle difficoltà e del fatto che da C3 inizia la parte più esposta e imponderabile della salita, qui non bastano da sole le previsioni del tempo e i calcoli, la strategia. Qui non è un su e giù dritti, come su altre montagne, come lo Shisha o il GII – senza togliere niente a quelle salite invernali – qui per cominciare c’è una salita di 2500 metri che è il prologo, poi c’è una cresta esposta al vento, ghiacciata e dura, a cui prestare sempre la massima attenzione; poi da C3 inizia la parte tecnicamente meno difficile forse, bisogna principalmente camminare, ma quella è una delle sezioni più critiche a livello psicologico. Aleatoria. Bisogna alzarsi di quota e traversare, senza nemmeno sapere bene in che direzione puntare, se in alto verso la cresta rocciosa o più in basso verso il Mazeno Pass. Poi una volta raggiunta la cresta bisogna valicare nel versante del Diamir e quello credo sia psicologicamente l’ostacolo più difficile da superare, perché si tratta di lasciarsi alle spalle un mondo conosciuto ed entrare in un luogo privo di riferimenti, di certezze, un mondo fatto di nulla. E’ difficile. Bisogna mettersi alle spalle tutto e accettare di diventare niente. Niente nel niente”.