Nel 2014 l’altoatesino è stato il primo a scendere sotto la barriera della mezz’ora

Fully, Vallese (Svizzera), sabato 25 ottobre 2014. Cielo coperto, temperatura 11,5 gradi, umidità 76%, vento quasi assente. I dodici rintocchi dei campanili hanno già segnato l’arrivo del mezzogiorno. Lungo il percorso di una vecchia funicolare immersa tra i vigneti e i boschi centinaia di persone si accalcano per fare il tifo. La partenza è a Belle-Usine de Fully, a 500 metri. L’arrivo a Garettes, esattamente mille metri più in alto. Se si potesse tendere un filo in orizzontale sarebbero 1.920 metri. La pendenza media è superiore al 50%. In questo angolo di Vallese c’è il chilometro verticale più corto e ripido del mondo, tanto che è obbligatorio indossare un casco. Senza bastoni è quasi impossibile salire. Si parte uno per volta, prima gli amatori, poi gli atleti élite. Il pettorale numero uno è quello del vincitore dell’anno precedente e parte per ultimo.

Castelrotto, Bolzano, venerdì 24 ottobre 2014. Cinquecentocinquantotto chilometri separano una fattoria sui pascoli ai piedi dell’Alpe di Siusi, da quella vecchia rotaia che corre su dritta per la montagna del Vallese con il sole che trasforma i binari in specchi.

Un’auto parte per la Svizzera. Salgono un uomo e una donna, Urban e Astrid. Lui si è appena tolto la tuta da lavoro. Si è alzato alle sei di mattina, è andato in stalla a controllare i vitelli. Poi si è messo gli abiti dell’idraulico e infine è tornato a casa ed è passato ancora per la stalla. Sopra casa ci sono prati e boschi ripidi, è tutto un vertical, basta decidere dove andare. E capire quanto tempo è rimasto prima che sia buio. Nonostante questo in estate fa qualcosa come 100.000 metri di dislivello tra bici e vertical.

Tra i vigneti di Fully la tensione sale, l’adrenalina dei concorrenti è alle stelle. Arriva il turno del pettorale numero uno. È proprio lui, Urban, contadino e idraulico, per hobby uomo verticale. All’anagrafe la sua nascita è stata registrata nel 1970, 44 anni fa. Ogni cento metri c’è un cartello a indicare il dislivello percorso. Lo sforzo è sovraumano, la fatica impossibile. Ogni metro il tifo si fa più forte. Salire per che cosa? Per fare la fine del toro nell’arena, con il pubblico impazzito come in un baccanale e il cuore a mille? No, 178, i battiti di soglia sono 178. Non perché Urban usi un cardiofrequenzimetro, ma perché alla visita medica per l’abilitazione sportiva il medico si è reso conto di avere tra le mani un motore da fuoriserie. Contano la testa e il cuore, quel cuore che pompa, quella testa che ogni tanto vorrebbe mollare. «Ci sono sempre quei momenti quando pensi che devi calare il ritmo, ma prima o poi vanno via e comunque ci vuole la testa dura, altrimenti non faresti mai questa fatica». Ci vuole un motore che ‘canta’, ma senza la caparbietà di Urban non funzionerebbe così bene. Strategia? «Partire subito a tutta». I minuti passano e ogni istante sembra eterno. Il tempo si ferma, come cristallizzato, tra le urla di incitamento del pubblico. Di prima mattina faceva fresco, ma ora, nel bel mezzo della giornata, fa caldo, forse troppo per una fatica da Ercole. 

Si dice che le imprese sportive negli sport di fatica siano favorite dal clima fresco. Quel calore e quell’umidità dell’aria e del tifo riportano invece la lancetta indietro di due anni, a un altro clima, quello dell’estate 2012. Faceva caldo anche allora, a fine giugno. Ma a un certo punto qualcosa è andato storto e improvvisamente Urban non ha più sentito una parte del corpo. Un ictus, o qualcosa di simile. Tanto spavento, un ricovero in ospedale, esami approfonditi. E la paura di non potere salire più veloce. Per uno che ha scoperto l’arena agonistica per caso, un po’ per rinforzare le ginocchia dopo un infortunio, un po’ dopo avere vinto una garetta goliardica organizzata dagli amici tanto per divertirsi, per uno che ha messo le scarpe da mountain running solo a 34 anni, scoprire che a 42 devi fermarti è una doccia gelata. Ma lui non sa stare fermo e non lo ha mai fatto. Ha continuato ad allenarsi dolcemente. E ora è qui su questa salita infinita. Quei momenti, quegli istanti in cui il suo corpo non lo sentiva più, gli passano davanti agli occhi mentre una goccia di sudore cola dal naso. Mancano cento metri. 

Cento metri verticali. Eppure le sensazioni non sono buone. Un paio di settimane fa, a Limone sul Garda, il vertical non è andato come sperava. Fa caldo. Le mani spingono a tutta sui bastoni. I passi si fanno un po’ più corti. Anche i suoi. Sì, perché Urban ha una tecnica tutta sua. Nel vertical non esiste, in realtà, una tecnica ‘ortodossa’, però la maggior parte degli atleti fanno passetti corti, altri continuano a corricchiare anche quando la pendenza sale. Lui no, lui non corre e fa i passi lunghi. Li ha fatti anche quando a Canazei è diventato campione del mondo e ha dovuto riacchiappare gli altri big che erano scappati via sul primo pratone dove si corre. Li ha fatti anche quando è diventato campione europeo.

Il tabellone del cronometro sul traguardo si ferma. Tutto si blocca, anche le bocche spalancate del pubblico che incita sembrano immobili, come in un fermo immagine. Il mondo si ferma. 29’42’’741. Per la prima volta un uomo ha percorso mille metri verticali in meno di mezz’ora. Quell’uomo si chiama Urban Zemmer, contadino e idraulico di Castelrotto, non Usain Bolt o Carl Lewis. Non è un atleta professionista, ma un working class hero. Non ha tabelle da seguire e gel nella tasca, ma la sua benzina sono le lasagne cucinate con amore dalla compagna Astrid. Non va al caldo ad allenarsi in inverno, la sua preoccupazione, quandolascia casa per una gara, sono i vitelli: chi li curerà? Mezz’ora vuol dire tutto e niente. È stato calcolato che l’uomo medio passa circa 54 minuti in viaggio per andare a lavorare, impiega 77 minuti per mangiare, trascorre 177 minuti davanti allo schermo dello smartphone e 168 davanti a quello della televisione. Tutti multipli del record di Urban.

«Sono venuto a Fully per vincere, non pensavo al record, in realtà non avevo nemmeno sensazioni così buone, a Limone un paio di settimane fa non è andata come volevo, il clima non era così fresco e poi quando non sai mai quanto tempo hai per allenarti e non puoi fare programmi non puoi neppure programmare un record» dice Urban. Sapeva che poteva andare sotto i 30 minuti, voleva andare sotto i trenta minuti, ma solo Dio può decidere quando.

(Il testo è tratto da La Sportiva 90, monografia realizzata da Mulatero Editore per il novantesimo anniversario del marchio)

 

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