«È un quadrilatero che ha come estremi Bad Haring, in Tirolo, Graz, in Stiria, il Monte Bianco e la Valtellina. Non c’è dubbio però che il caso abbia voluto che il Monte Bianco, il luogo che apparentemente centra meno con questa storia, sia stato determinante. Siamo agli inizi degli anni Ottanta. Uno studente di ingegneria di ritorno da una vacanza con un amico per arrampicare nelle Calanques passa da Chamonix. Guarda il Monte Bianco e, con quell’incoscienza tipica dei ventenni, non ci pensa due volte: perché non proviamo ad arrivare in vetta? I due scelgono di traversare dall’Aiguille du Midi, poi Tacul e Mont Maudit. Alla fine in vetta ci arrivano, ma devono battere traccia e quell’attrezzatura pesante – sci da due metri e attacchi da skialp con telaio – li distrugge più dell’intera vacanza nelle Calanques».

Inizia così l’articolo di Skialper 129 di aprile-maggio, in distribuzione a partire da questi giorni, che ripercorre la storia dell’attacchino. Un incredibile incrocio di coincidenze e incontri che ha portato un visionario come Fritz Barthel a creare un oggetto rivoluzionario ma poco compreso agli inizi. L’attacco che è diventato lo standard e ha in parte spinto lo skialp verso il boom è nato dall’intuizione e dalla testardaggine di uno studente di ingegneria, ma si è sviluppato grazie all’incontro con il mondo dello skialp race italiano, Fabio Meraldi e Adriano Greco in primis, e al rapporto, fin dagli inizi, prima che il marchio del leopardo delle nevi acquisisse i diritti esclusivi, con Dynafit. Parlando con i protagonisti di questa piccola rivoluzione abbiamo ricostruito tutti i passaggi, gli aneddoti, le variabili.

«Credo che i pin resisteranno ancora, ma la storia dice che i sistemi vengono sostituiti da altri sistemi migliori e dubito che sarò io a fare il prossimo passo, non è giusto che lo faccia un vecchio testardo: giovani, fatevi avanti!». Se c’è qualcuno pronto a raccoglierla, è bene che si legga prima di tutta la storia.

Un’immagine d’epoca di Fritz Barthel