Il ricordo di Enrico Marta
Sono certo che la notizia della morte di Walter Bonatti sia stata letta e riletta più volte per essere certi di aver letto giusto: soprattutto da parte degli ultrasessantenni che in Bonatti hanno visto il mito, la musa ispiratrice, che li ha spinti ad avvicinarsi all’alpinismo sin da ragazzi.
«Fortunati quegli uomini che per sentirsi tali non hanno bisogno di sottoporsi a queste prove…» Suonava più o meno così la frase contenuta in uno dei suoi libri dove si narra di quelle avventure incredibili in parete dalle quali Bonatti è sempre uscito indenne mentre altri forti alpinisti hanno perso la vita. Di qui si è rafforzata in tutti noi l’idea che lui fosse invincibile e, soprattutto, immortale. Un volto che trasmetteva un senso di forza, di essenzialità, che nonostante la grande fama non ha invaso i media lasciando che un’aura mitica lo avvolgesse. E così noi adolescenti nel sessanta ci siamo avvicinati all’alpinismo cercando di emularlo: lo zaino era blu come il suo, gli scarponi erano degli Alta Quota Bonatti – eravamo in piena era Vibram – i pantaloni al ginocchio avevano una foggia particolare, più snella rispetto ai modelli precedenti, l’autoassicurazione si faceva anche con il cordino del martello – lo aveva ammesso lui raccontando una delle memorabili imprese – cimentandoci su vie per noi severe e ormai superate dal miglioramento delle attrezzature e delle tecniche. E adesso il mito se ne è andato, così, all’improvviso, lasciando un vuoto incolmabile.