Hai mai usato sci più larghi, pesanti e con più struttura?
«In Norvegia, dove c’è molta neve fresca e poca gente a fare le tracce, uso anche i miei 95; in salita è molto più facile aprire la traccia nella neve profonda e poi scendere galleggiando, ma in condizioni normali preferisco gli 88 o i 79, perché si possono ancora fare buone uscite con 4.000 metri di dislivello senza dover rallentare e nella neve dura non è importante il fatto che siano sci stretti. Posso scendere a qualche compromesso sul peso dello sci (l’88 è 1.000 grammi, contro i 700 dell’attrezzo da gara) ma uso gli stessi attacchi e scarponi perché non vedo una grande differenza. Ho provato scarponi e attacchi pesanti senza alcun vantaggio rispetto a quello che invece perdevo».
In alcuni video ti abbiamo visto sciare con due piccozze, è così vantaggioso o è solo sicurezza in apparenza?
«È vantaggioso in certe condizioni, su un pendio ghiacciato dove è necessario scendere lentamente o in tratti dove si passa costantemente dallo sci alla discesa su ghiaccio con gli sci e per non prendere e lasciare le picche si scia qualche metro tenendole tra le mani. Quando il tratto da sciare diventa lungo, non è più sicuro che con i bastoncini».
Ho letto un tuo post in cui parlavi di esposizione, rischio e difficoltà. Personalmente non trovo tutto questo minimizzabile, forse anche la percezione del rischio è influenzata dalla tua stessa confidenza o dalla preparazione, però il rischio rimane.
«Sì, i pericoli sono oggettivi, naturalmente, è con le tue capacità e in funzione delle condizioni che decidi se la probabilità di sbagliare è grande o no».
Che cos’è la velocità? È relativa?
«È la conseguenza dell’andare leggeri. E mi permette di fare di più, quindi quando non hai molto tempo è fantastica».
Da sciatore ricordo le gesta di Stéphane Brosse in alcune discese, una sorta di precursore che ha portato la preparazione atletica della gara sull’impegnativo terreno dello sci ripido. Chi era per te e quale rapporto avevi con lui?
«Quando ho iniziato a fare scialpinismo, Stéphane vinceva tutto, avevo una sua foto sulla mia bacheca e tutti lo guardavamo come un modello da seguire. Quando ha smesso di gareggiare ha iniziato a fare discese davvero interessanti. Il Nant Blanc con Tardivel senza calata in doppia è stato un capolavoro e un’altra fonte d’ispirazione. Abbiamo abitato nella stessa zona e nel 2011 abbiamo iniziato a sciare insieme. È stato lui che mi ha iniziato allo sci ripido negli Aravis, poi sul Monte Bianco con la Face NNE des Courtes e il couloir Barbey. Per me è stato un vero e proprio mentore su come muoversi in montagna, su come portare il know-how delle gare nelle lunghe traversate e nei progetti in montagna. È stato prima un idolo, poi è diventato un mentore e un amico».
Recentemente abbiamo intervistato anche François Cazzanelli. Visto che avete percorso insieme la cresta delle Grandes Murailles in estate, come valuti il suo exploit invernale su quelle creste?
«François è un grande alpinista, è bravo in tutto, è completo. La traversata Cervino-Murailles in estate non è difficile, ma è lunga, con roccia non così solida, per questo in inverno le difficoltà sono molte di più, quello che ha fatto è un’impresa eccezionale!».
Veniamo allo sci: anche in questo campo sei un fautore dell’attrezzatura leggera. Con quali vantaggi e limiti?
«Beh, nelle lunghe traversate è bene andare con gli sci leggeri perché comunque nelle discese l’obiettivo non è andare a tutta, ma risparmiare energia. Nello sci ripido uso sci un po’ più larghi (Salomon S/Lab X-Alp 79 o MTN 88) così ho una maggiore altezza tra scarpone e neve e posso concedermi qualche errore in più, ma sempre scarponi e attacchi leggeri. È quello che sono abituato a usare e mi dà un enorme vantaggio in salita, perché nello sci ripido (se si esclude l’Aiguille du Midi) bisogna prima salire e le giornate diventano lunghe. Per curvare sul ripido, mi sento più sicuro con una combinazione leggera che con un’attrezzatura pesante. Gli scarponi Gignoux sono molto rigidi, il che significa anche precisi e solidi per sciare forte».
Parliamo ancora di fast & light e attrezzatura, quali sono le tue priorità?
«Tre tipi di attrezzatura. Prima di tutto per la progressione, cioè quella necessaria per completare l’itinerario. Poi in caso di, quella che si usa per proteggersi, per calarsi, quando si va in riserva o si rompe qualcosa. Infine c’è il lusso che può essere un buon sacco a pelo, cibo non gelatinoso o un libro da leggere durante una spedizione. La prima è irrinunciabile e lavoro con i miei sponsor per cercare di sviluppare l’attrezzatura che ci permetta di seguire questo stile. Deve essere leggera, ma allo stesso tempo soddisfare le esigenze di base. Gli scarponi per l’Himalaya hanno un obiettivo specifico: evitare il congelamento delle dita dei piedi. Sono composti da tre strati che possono adattarsi ai diversi terreni. Sulla seconda si può giocare un po’, ma non sono scelte senza conseguenze. Ti faccio un paio di esempi: posso non prendere un bivy-bag e non fermarmi, ma… oppure non portare una corda e disarrampicare, però sarebbe utile se devo salire in vetta e calarmi dall’altro versante. Il lusso rimane a casa (ride)».
Sei uno skyrunner e uno scialpinista che ha portato la velocità sui quattromila o in Himalaya, poi ci sono Ueli Steck e Andreas Steindl, per fare solo due nomi, che sono partiti dall’alpinismo e lo hanno velocizzato. Qual è la differenza tra i due stili?
«Probabilmente la differenza sta nelle capacità tecniche e fisiche all’inizio più che nella visione, io devo concentrarmi sulla tecnica e loro lavorano sul fisico. Penso che gli stili siano molto simili, è solo il nostro background a essere diverso».
Qualche volta sei andato in montagna con Ueli, che cosa avete fatto?
«Abbiamo scalato insieme in Nepal, intorno a Chukkung. Abbiamo parlato molto di allenamento, approccio alpinistico alle grandi vette, acclimatamento, alimentazione. Un giorno ero a casa e, parlando, mi ha chiesto se avessi mai scalato l’Eiger. Io ho risposto di no, così mi ha detto di andare a trovarlo il giorno dopo a Interlaken, ho preso l’auto e la mattina siamo andati a Grindelwald. Abbiamo parcheggiato, una corsa fino alla parete, poi siamo saliti in simul-climbing, ma non così velocemente, solo godendocela e scattando foto. Dalla macchina alla macchina ci abbiamo messo dieci ore. Il suo è stato un approccio molto interessante, si è allenato tanto, ha curato ogni dettaglio ed è sempre stato aperto a provare il nuovo e a evolvere. Ogni uscita con lui è stata ricca di insegnamenti!».
Sei co-autore di Allenarsi per gli sport di montagna: hai cambiato il mondo di allenarti per l’alpinismo e l’alta quota?
«Per l’allenamento in alta quota non tanto, più che altro mi sono concentrato sull’acclimatamento, per trovare il giusto equilibrio tra l’allenamento in altitudine e il riposo, rimanere in forma e ben acclimatato mantenendo alta la motivazione nelle lunghe spedizioni».
Mente o corpo? Steve House ha scritto che l’alpinismo è per l’80% mentale e per il 20% fisico. Sei d’accordo?
«È davvero una combinazione di entrambi. Il corpo pone a tutti dei limiti. Puoi pensare di correre una maratona in poco più di due ore, ma se non hai le doti fisiche di Kipchoge, la testa da sola non ti farà correre così veloce. Oppure puoi pretendere di fare freesolo a El Cap, ma se sei in grado di superare massimo il 6a legato, non è la forza mentale che ti permetterà di farlo da solo e slegato. Però la mente gioca un ruolo chiave per superare le barriere e avvicinarsi ai limiti fisici del proprio corpo. Per esempio, quanti possono salire l’8a senza cadere? Molti. Ma quanti possono metterci la forza mentale per farlo da soli su El Cap? Pochi. Quanti possono salire in solitaria un WI5 o M5? Tanti. Quanti lo farebbero in alta quota in Pakistan? Nell’alpinismo spesso scaliamo al di sotto dei nostri limiti fisici e tecnici, ma in condizioni di estremo disagio e accettando un rischio e un ingaggio elevati. L’energia mentale è necessaria per continuare a salire quando tutte le ragioni ti dicono di scendere».
Hai usato le tende ipossiche per acclimatarti prima di andare in Himalaya, credi che siano una soluzione valida?
«Servono per ridurre un po’ il tempo di acclimatamento in Himalaya, diciamo una settimana, come se si restasse in un rifugio sulle Alpi per un po’ di tempo, ma non si tratta di dove si passano le ore in quota, ma di quante se ne fanno. Il corpo ha bisogno di 400 ore per essere pronto, quindi le puoi fare in una tenda o in un rifugio o nei villaggi in Nepal, ma bisogna comunque farle quelle ore. Questo per arrivare a 6.000 metri, volendo anche fino a 7.000 o 7.500, poi probabilmente una volta a 8.000 metri per i grandi esperti di Ottomila. Il problema non è acclimatarsi. Fino a 6.000-7.500 metri non è un problema, puoi stare in quota e sentirti in forma, è oltre, è la fatica che l’acclimatamento richiede. Dormire a 7.500 o 8.000 metri ti prende molte energie e dopo ti senti stanco a lungo. Credo che la cosa migliore, se sei preparato a superare 2.000 metri di dislivello in un giorno e muoverti velocemente, sia di non dormire mai oltre i 6.300 metri, salire fino a 8.000-8.300 e tornate in basso a dormire. Così stressi il fisico a sufficienza per attivare i meccanismi di acclimatamento, ma non abbastanza per stancarti troppo. Il vantaggio è che puoi fare più attività perché sei meno provato, il problema che hai bisogno di muoverti sempre, dato che non sei così acclimatato come se passassi una notte a 8.000 metri, ma più fresco».
Come è cambiato il tuo approccio al rischio ora che sei diventato padre?
«Non avevo idea di come avrebbe potuto cambiare e, sorprendentemente, il mio modo di affrontare i rischi in montagna non è cambiato. Forse perché ho sempre pensato molto prima di prendere le decisioni e analizzato le situazioni. Invece è cambiato tanto per altri aspetti della vita, come guidare l’auto con più attenzione, mangiare meglio, pensare all’inquinamento e ai rischi ambientali».
2/fine
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