Su Skialper di agosto-settembre ampia intervista all’alpinista valdostano
Si può andare in Himalaya, si può salire sull’Everest, sul K2 o sul Shisha Pangma, si può arrivare in vetta o no, ma conta molto come lo si fa. E quel come assume un significato pesante come una pietra, come uno scoglio. Come il più nobile scoglio d’Europa, quella Gran Becca (o Cervino…) dove sta scritta su ogni sasso la storia dei Barmasse, uomini di montagna, alpinisti, Guide alpine da diverse generazioni. Ma sarebbe banale, troppo banale, partire da qui per parlare di Hervé Barmasse. La scusa per un’intervista è stato lo Shisha Pangma (8.027 m), raggiunto da Barmasse e Göttler a fine maggio in 13 ore lungo la parete sud (volevano aprire una nuova via, ma la breve finestra di bel tempo li ha costretti a seguire la via Girona). Ne parliamo su Skalper di agosto-settembre.
IL PRIMO OTTOMILA – «Mi sono domandato dove erano i miei limiti, volevo provare a dimostrare che sono molto più in là. Ma non era facile perché ho sempre dovuto lottare con gli infortuni e la fragilità del mio corpo. Il ginocchio è stato operato sette volte, l’ultima in autunno. Poi, proprio dopo la dichiarazione di Messner, mi sono operato al rachide cervicale. Da anni avevo molto dolore, si pensava a un’ernia, ma fino a quando il dolore non è diventato insopportabile i medici erano prudenti a toccare i nervi. Poi si è scoperto che c’era una scheggia di vertebra rotta che pizzicava il nervo, a meno di due millimetri dal midollo. Avrei potuto rimanere paraplegico o tetraplegico. Allora, con il corpo martoriato dagli infortuni, ho pensato a come prepararmi per un ottomila; è stato un percorso non facile. E quel come è passato per la scelta di uno stile pulito (non lo definirei più alpino), senza corde fisse, portatori e ossigeno, ma è passato soprattutto per l’allenamento».
UELI STECK – «Ci siamo confrontati spesso, anche per progettare le nuove scarpe di Scarpa, ed è curioso come partissimo da due idee di alpinismo diverse, da storie diverse, ma alla fine, quando preparavamo una salita, ragionavamo in modo simile. Discutevamo sempre perché a lui, che arrivava dal mondo dell’arrampicata sportiva, piaceva cimentarsi con il cronometro. Io gli dicevo che non ero sicuro che si parlasse ancora di alpinismo, che per me era esplorazione, ricerca del nuovo. E lui ribatteva chiedendomi se, quando scalavo o mi allenavo, non guardavo l’orologio. E infatti sì, i tempi li controllo, non con l’obiettivo di un record ma della prestazione e dell’allenamento. Mi diceva che la gente lo conosceva per quello che ha fatto sull’Eiger e non sull’Annapurna».