«Arrivo a Canazei alle dieci di sera di una sera qualunque di dicembre, le poche luci accese sono quelle delle insegne. Dopo l’uscita dall’autostrada avrò incontrato sì e no una decina di auto: più che nel cuore del Dolomiti Superski, sembra di essere in una di quelle valli un po’ decadute, frequentate solo da scialpinisti e scalatori. Il mio è uno dei pochi alberghi aperti, ci sono un paio di turisti e pochi altri ospiti che sono lì per lavoro. Una volpe attraversa la strada mentre scarico le valigie, fa freddo».
Comincia così l’articolo Gruppo Vacanze Sellaronda di Federico Ravassard, autore anche delle fotografie, su Skialper 134 di febbraio-marzo. Un racconto del Sellaronda desolatamente vuoto, di una delle massime espressioni del turismo invernale di massa trasformata in ritrovo per qualche scialpinista. «Nella sola Val di Fassa, ad esempio, tra alberghi, appartamenti e seconde case si contano oltre 56.000 posti letto disponibili, a fronte di una popolazione che non arriva ai 10.000 abitanti. Nella vicina Val Gardena le presenze annue superano il milione, distribuite in più di 700 strutture ricettive. Più di metà degli arrivi sono stranieri, un terzo del totale è di origine tedesca. Nella stagione invernale metà del fatturato viene prodotto nei mesi di gennaio e febbraio, il resto si sparpaglia, fra dicembre, marzo ed aprile. Questo significa avere un modello economico, quello del turismo invernale, basato sul fare grandissimi numeri ma in un periodo di tempo brevissimo, e a quel periodo dedicare – o sacrificare, dipende dai punti di vista – tutto il resto, dalle risorse naturali a quelle umane. È come se un negozio decidesse di aprire solo per un paio di mesi all’anno, vendendo pochissimi prodotti: certamente può funzionare, e la prova sono i pop-up store che vendono capi di moda in edizione limitatissima. Ma, proprio come nel mondo del fashion, basta poco perché un prodotto rimanga invenduto e per mandare tutto all’aria: questione di trend e di collezioni, oppure di pandemie».
Le 20 pagine di reportage che dedichiamo al Sellaronda, ma anche al fuoripista della Val Mezdì, non sono solo il racconto di un inverno diverso, ma la voce di chi di solito quell’inverno non ha tempo di viverlo, cioè di quei professionisti della montagna, Guide, Maestri, albergatori, che proprio nel periodo che amano di più si trova costretti a fare gli straordinari. E invece per un anno si sono goduti il loro parco giochi privato. Non senza leccarsi le ferite, perché quel parco giochi è anche la loro fonte di reddito. «Chiudere gli impianti da sci non significa levare un giochino del weekend a borghesi annoiati, ma di fatto tagliare alla base una catena che tiene in vita indirettamente una miriade di piccole attività e lavoratori stagionali, all’incirca 400.000 persone in tutta la penisola». Per fortuna rimane il fatto che «non è detto che sciare sia un’attività funzionale a risolvere qualsiasi tipo di problema, ma di sicuro ti pone nella condizioni di guardarlo in un modo più leggero».