La pandemia ha stravolto tutto. Anche il mio modo di vivere lo sci. Nella primavera scorsa, di ritorno dalle Antille dopo una traversata atlantica con la mia vecchia barca a vela, non vedevo l’ora di sciare. Dopo mesi di assoluta libertà sull’acqua sono piombato, impreparato, in pieno lockdown duro. Le montagne intorno a casa sembravano di panna montata e io non potevo che stare a guardarle. Non capivo bene perché potessi solo andare al supermercato, poi mi hanno spiegato che se mi fossi fatto male sciando, gli ospedali erano pieni. Ho pensato che con 74 anni di sci alle spalle, senza mai usare il casco, non mi ero mai rotto un osso e che forse era più facile che mi facessi male cadendo dalle scale. Ho anche pensato che sarebbe stato meglio che fossi rimasto a navigare oltreoceano, anziché rientrare in una Italia infetta. Confesso che, non avendo capito bene la gravità della situazione, la voglia di trasgredire si è fatta sentire, forte. Ho programmato fughe notturne con gli sci sulle spalle, un po’ come ai vecchi tempi, quando si partiva dalla città ancora addormentata, dopo una notte brava, per qualche gita demenziale. 

Un po’ come i miei amici di Livigno (non posso fare nomi) che sono riusciti in quei giorni a eludere i controlli, effettuando un perfetto raid in sci. Soffrendo non poco, ho aspettato la fine di aprile per iniziare la stagione scialpinistica. Le necessità di distanziamento, unita all’età e allo scarso allenamento, mi hanno portato a ripetere più volte in solitaria itinerari collaudati come la classica salita a Punta Rocca in Marmolada. Proprio io che non ho mai amato vivere lo scialpinismo da solo e ripetere gli stessi itinerari. Speravo di chiudere bene allo Stelvio a fine giugno con il Tuckett ma ho trovato una coda chilometrica di giovani atleti alla funivia e così ho dovuto accontentarmi dei bei pendii ripidi di Cima Nagler, dove un tempo ci si allenava a fare lo speciale con i pali rigidi. Bilancio di fine stagione tutto sommato positivo, come pretendere di più in questi mala tempora! Però niente raid di rifugio in rifugio, che sono la forma di sci che prediligo in primavera. Tutto rimandato a chissà quando. Lo sci, ai tempi della pandemia, perde purtroppo la dimensione di continua scoperta propria dei raid e il piacere del viaggio vissuto con gli amici, il che non è certo poco. O forse sono io che non sono capace di vivere altrimenti questa dimensione di plenitudine dello sci? La pandemia solleva in me questi dubbi profondi. 

Poi arrivò l’estate, e sembrò che il peggio fosse passato. Ho ordinato gli sci nuovi,
sci da ragazzetto, sognando il prossimo inverno. Ma, con l’autunno, apriti cielo! I contagi sono ripresi alla grande e finalmente ho capito la gravità della  situazione ed i rischi che, soprattutto alla mia età, stavo correndo. La paura del contagio è diventata una costante e la pratica dello sci nulla di più che un modo per evadere, almeno per qualche ora, dall’incubo. La fortuna ha voluto che la neve arrivasse copiosa già ad inizio dicembre a soli 950 metri di altitudine, dove abito. Nel timore, anzi nella certezza, che durasse poco ad una quota così bassa, ho sciato fino a notte fonda sul prato illuminato davanti a casa, risalendo il pendio con una manovia di una cinquantina di metri. Poche curve ma di alta qualità su di una bella polvere mi hanno proiettato nel mondo bianco della mia infanzia sciatoria. Quando instancabile andavo su e giù su di un prato simile a questo, a Sauze d’Oulx, allora perfetto paese di montagna, risalendo decine di volte il pendio a scaletta, senza l’aiuto di manovie, di skilift o degli orribili e diseducativi tapis roulant che infestano oggi i campi scuola. Quando prendevo orgoglioso, bardato da sciatore, il tram 22 con il mio papà e, attraversata tutta Torino, si arrivava al capolinea di Sassi.
Di qui si proseguiva con la cremagliera di Superga. Che discesa il vallone di Cartman dove adesso corre la strada del traforo del Pino! Un freeride per palati fini fra le vigne ed i muretti a secco. Su e giù più volte come dei matti, intervallate dalle code di sciatori alla biglietteria. 

Poi, come previsto, il caldo è ritornato e la neve davanti a casa si è sciolta quasi tutta. Per superare il senso di smarrimento dato dal rivedere l’erba verde del prato sono salito più in alto, sfidando il pericolo dei cani lasciati liberi nei masi sopra il mio, fino a raggiungere i bellissimi boschi esposti a nord della Panarotta, la piccola stazione in crisi non tanto per il lockdown quanto per una cronica mancanza di idee. Ho risalito con le pelli più volte le piste deserte, ho respirato a pieni polmoni l’aria pulita, ho ritrovato il profumo della neve e del lariceto. In fondo mi basta questo, ho pensato che la pandemia è servita a qualcosa, a farmi rivivere i piaceri delle brevi e semplici gite d’altri tempi, nell’incanto bianco di boschi vivi e silenziosi. 

Ho trovato assurdo che la seggiovia fosse ferma a causa dei divieti. Ma lo sci non è uno sport individuale all’aria libera? Capisco chiudere le cabinovie, i chiassosi ritrovi lungo le piste, le discoteche. Ma perché anche le seggiovie e gli skilift? Che male fanno? Ho provato addirittura un’istintiva solidarietà con i pistaioli chiusi in casa e con i gestori di questa vecchia seggiovia, ora ferma fino a chissà quando. Anche se a me tutto sommato va bene così, perché posso risalire quando voglio con le pelli la pista deserta. Arriva dunque, con il Natale, il regalo della nuova raffica di decreti governativi che vietano anche i più innocui spostamenti in auto. Ecco riaffacciarsi imperiosa la voglia di trasgredire. Una voglia che mi riporta ai miei anni migliori, quando godevo a salire e scendere alte montagne senza permessi. Con gli sci nuovi appesi alla prodigiosa e-bike e gli scarponi da telemark nello zaino risalgo da casa le forestali che raggiungono la neve. Ancora gli stessi pendii, gli stessi boschi, gli stessi dislivelli con le pelli, le stesse curve. Ormai mi è chiaro che la pandemia impone di godere delle stesse cose, dei microcosmi che la montagna sempre sa offrire. È come essere in un supercarcere dotato di un grande parco giochi. È come vivere in un mondo chiuso, in una bolla surreale che ha assunto le dimensioni di una artificiosa normalità. 

Potrò ancora partire, viaggiare, rivivere i grandi spazi, le grandi traversate con gli sci? Mi rimane poco tempo per farlo, alla mia età. I grandi spazi a cui continuo, imperterrito, ad anelare, oggi mi sembrano così distanti, così difficilmente raggiungibili, che non so rispondere. Nell’attesa che qualcosa cambi e di sentirmi nuovamente libero, ecco una bella notizia: la neve ha ripreso a cadere copiosa sul prato davanti a casa. Polvere sopraffina, un vero regalo. Posso riprendere senza indugio la ricerca di quella curva lenta che prolunga al massimo il piacere del fruscio dei fiocchi di neve sotto le solette degli sci. Una curva ideale che descrive tutto il bello dello sci, alla faccia della pandemia. È la ricerca della curva perfetta. 

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