Tante le gare della valdostana
Francesca Canepa è una delle protagoniste del mondo ultra. Una stagione ‘particolare’, quella del ‘dopo-Tor’, tra il ritiro all’UTMB e tanti piazzamenti importanti in giro per il mondo, oltre alla convocazione in azzurro per la rassegna iridata di corsa su strada della ultradistanza di 100 km che si è tenuta in Olanda a settembre. Ecco le impressioni della valdostana.
La stagione si sta concludendo: proviamo a fare un bilancio…
«Faccio sempre fatica perché sono del tutto sprovvista dell’obiettività necessaria. Diciamo però che indubbiamente ho avuto una stagione in salita, tanti ritiri e mai una reale buona condizione mentale. Solo all’UTMB sono veramente entrata in forma ma il ritiro anche lì è stato ‘pesante’ per il cervello. D’altra parte in quel caso specifico la situazione era delicatissima per via del mio impegno con la Nazionale dieci giorni dopo, così un’ipoglicemia, forse al limite anche gestibile, ha causato l’ultimo ritiro 2015. Poi il Mondiale è stato fantastico (dove ha chiuso al 18° posto), a prescindere dal piazzamento in sé, la mia soddisfazione più grande è stata onorare la fiducia ricevuta dalla FIDAL e da Maurizio Riccitelli. E da lì ho finalmente dato il giro, un po’ tardi chiaramente…».
Hai avuto risultati importanti sia su strada sia sulle montagne: come vedi questo binomio? Sinergie oppure no?
«Sono facile alla perdita d’interesse e quindi sicuramente misurarmi con nuove sfide e nuovi progetti è importante. Inoltre mi ha fatto piacere vedermi riconosciuta come una delle poche al mondo a poter essere competitiva ad alto livello sia su strada che sulle montagne. Sui trail di vera montagna, intendo, quelli con dislivelli importanti.
In effetti la cosa a volte stupisce anche me, specialmente quando mi sono scoperta sulle race preview del Mondiale come atleta da tenere d’occhio. In un primo momento mi ha fatto…ridere, ma poi ho preso fiducia, in effetti con più lavoro mirato l’asfalto potrebbe essermi amico. Credo inoltre che le due discipline possano essere funzionali quindi penso proprio che il binomio per me sia produttivo. Poi non so se lo possa essere per tutti, chi odia l’asfalto e peggio ancora i circuiti credo debba restare nel bosco. A me la strada non dispiace visto che almeno lì non prendo storte, non mi perdo e soprattutto non mi perde chi dovrebbe registrare i miei passaggi».
Se non sbaglio hai una laurea in psicologia: questo ti aiuta come atleta, come preparatore, come mamma?
«Avere dottoressa davanti al nome probabilmente mi aiuta nella ricerca continua di informazioni utili per gestire il mio corpo e la mia mente nello sport. Fortunatamente imparo in fretta e riesco ad adattare e personalizzare quanto apprendo, odio prendere per buono tutto senza farlo mio. Come mamma…beh i concetti base della psicologia forse aiutano a evitare errori proprio grossolani, ma il resto lo fanno il buon senso e la capacità di essere flessibili. I bambini sono persone e come tali vanno rispettati nelle loro inclinazioni e nei loro desideri, anche quando non è affatto facile e anche quando i nostri caratteri rispettivi conducono allo scontro. Ma mi piace questa avventura, noi tre siamo un team e in generale posso dire che funzioniamo alla grande, aiutati dai due bracchi italiani Ariella e Brina. Io ovviamente sono la team manager…».
Hai fatto gare molto dure e significative, ma un po’ fuori dal circuito dei grandi eventi, con ottimi risultati, una in Cappadocia, una in Istria (la 100 miles of Istria che nel 2016 entra nelle ‘Future’ dell’UTWT, dove ha vinto con il terzo posto assoluto) e in Marocco. Perché di questa scelta? Quale di queste ti ha lasciato i ricordi più belli?
«Diciamo che come per molte altre sfere della mia vita, spesso mi piace che siano le cose a scegliere me. In questi tre casi specifici sono appunto stata scelta. Quella dell’Istria è una bellissima 100 miglia, e quando sto bene in genere è una distanza che mi è indubbiamente favorevole. Il Marocco è un discorso a parte in quanto ho accettato l’invito senza informarmi specificamente sui dettagli base, cose tipo tecnicità del terreno, altitudine, logistica (camerata, pasti in tenda, freddo cane, zaino da 5 kg). Così ho preferito per una volta non entrare nemmeno in gara adottando un approccio conservativo che mi ha permesso di vivere un’esperienza unica (ristori seduta al tavolo a chiacchierare con chi conoscevo, ritmi da trekking). Un allenamento unico che diversamente non avrei mai potuto fare e una prova di adattamento che mai avrei creduto non solo di superare ma addirittura di rimpiangere. La Cappadocia ha chiuso la serie e pure questa è stata meravigliosa, luoghi incredibili, persone accoglienti, cibo favoloso: insomma, correre non è solo un’equazione spazio/tempo. Per me è molto altro».
Raccontaci della Cappadocia (la North Face Cappadocia Ultra Trail del 24 ottobre entrata nel 2016 nelle ‘Future’ dell’UTWT, dove ha chiuso al quarto posto assoluto, prima nella graduatoria rosa).
«Nel dettaglio, si corre su un terreno globalmente morbidissimo e assolutamente vario. Vai dalle gole in non si sa quale pietra ai sentierini tortuosissimi, dagli altipiani pietrosi alle salite su zolle di erba secca e dura. Il paesaggio è semplicemente incredibile, fatato direi. E poi si mangia roba favolosa, io adoro anche questo aspetto, mi piace andare in una nazione straniera e immergermi nei loro usi, anche alimentari. Qui c’era verdura in ogni forma e poi delle piadine fritte da sballo».
E del Marocco (alla Utat, la Ultra Trail Atlas Toubkal di 195 km e 6.500 m D+ vinta dalla svizzera Andrea Huser, con terzo posto della Canepa).
«Il Marocco che ho visto io è solo montagna. Alta montagna senza neve, aria sottile che inizialmente non ti aiuta. Una povertà assoluta ma apparentemente non percepita come tale, forse semplicemente un modo di fare con quello che si ha. In gara attraversi villaggi in cui è difficile capire come qualcuno possa vivere, e figuriamoci in inverno, però ci vivono e quelli che corrono, corrono decisamente più forte di noi. Meditiamo. Forse meno tecnologia, meno scuse e più coraggio».
Hai tempi di recupero eccezionali: dopo una settimana dalla UTAT (100 km abbondanti con molte pietre in Marocco) hai fatto il tuo personal best su una 100 su strada: qual è il tuo segreto?
«Non so, come ultimamente piace dire a Renato, forse il punto non è tanto la velocità di recupero quanto il fatto che non mi tiro mai il collo. In verità non posso negare una certa radicata tendenza all’auto conservazione che mi permette di non arrivare mai al limite, restandone anzi spesso ben lontana. Il personale sulla 100 secondo me è venuto anche grazie al soggiorno in quota, i 5 giorni in Marocco hanno fatto il loro dovere, ma le avvisaglie di poter scendere nel crono le avevamo già avute al Mondiale. Però è chiaro, a questo dovrei proprio lavorarci, gestire il ritmo non è scontato. Per il resto sono convinta che la chiave vincente per un buon recupero sia un attento ascolto del corpo, rispettandone i tempi e decifrandone i segnali, senza farsi inghiottire dalla furia di macinare subito altri km».
Non hai mai pensato che puntando a meno gare potresti ottenere risultati ancora migliori?
«Assolutamente sì, è esattamente la direzione a cui stiamo puntando con Renato. Fino ad ora ho fatto la scelta di privilegiare le gare perché non avevo ancora addomesticato l’idea dell’allenamento strutturato e quindi i km li accumulavo in gara. Ora ne farò meno, di gare, anche perché comunque mettersi in gioco spesso e dappertutto ha costi psicologici non indifferenti».
Quest’anno pur migliorando il tuo tempo di 20 minuti all’Eiger 101, sei passata dal gradino più alto a quello più basso del podio: come vedi l’evoluzione del trail femminile?
«Il terzo posto è stato il risultato di una gara conservativa dove ho scelto di non rischiare mai in discesa visti i tre ritiri precedenti. Arrivare era prioritario. Comunque penso che le donne siano assolutamente di grande livello e soprattutto estremamente determinate. Le vere atlete, quelle che si mettono in gioco e non cercano scuse, si battono come tigri in gara e si uccidono in allenamento. Io devo ancora fare mia la seconda parte, in effetti…».
Vivi a Courmayeur, hai un passato importante di agonismo su snowboard, non hai mai pensato di darti allo sci alpinismo competitivo? Molti atleti corrono in entrambe le specialità.
«Ecco no, lo sci alpinismo competitivo mi è precluso per la mia comprovata inettitudine a gestire il materiale. Come aneddoto posso dirti che ho fatto almeno tre uscite al mio ‘debutto’ con le pelli attaccate al contrario, senza mai il minimo sospetto nonostante la fatica insensata che facevo per salire ugualmente. Capisci bene che la cosa non si può fare. E poi ho sempre odiato per principio tutte quelle discipline estremamente materiale-dipendenti. Preferisco farmi i miei monotoni giretti tranquilli senza preoccuparmi se aggroviglio le pellicce o mi si stacca un piede in un momento dato».
Sei un’atleta con una notevole esperienza e con un grande palmares: come pensi di essere cambiata negli anni? Quali insegnamenti hai tratto?
«In generale credo di non essere cambiata molto. La coerenza del mio pensiero, da quando ricordo di avere articolato il primo, a volte mi sorprende. Ragiono come quando avevo 12 anni e mi battevo per arrivare alla finale nazionale dei giochi della gioventù di pattinaggio artistico. Lavoro nello stesso modo, cercando soluzioni mie ai problemi che mi si presentano. Esattamente come allora, mi è impossibile superare o almeno accettare ingiustizie, come quando hanno disatteso il regolamento FISI, lasciandomi a casa alle Olimpiadi di Nagano e Salt Lake, e non voglio né riuscirci né accettarle. Infatti non accetto e non perdono quello che mi hanno fatto a Tor. E tuttavia sono ancora qui. Non sono cambiata, ma forse ho capito meglio di quanto capissi in passato, che ogni cosa che faccio interessa solo a me, è per me che continuo e se continuo è solo perché mi piace quello che faccio. A prescindere dal risultato e dall’opinione altrui. L’insegnamento che mi hanno dato i tanti ostacoli è che alla fine la sola opinione che davvero conta è la mia. E che dato che non voglio essere rinchiusa da vincoli, regole arbitrarie e limiti imposti, sono consapevole che a volte può esserci un prezzo, ma va bene così. Forse posso sintetizzare gli anni vissuti finora con un unico imperativo: scegliere e non subire, costi quel che costi».
Il trail sta diventando uno sport olimpico. Ci sono stati dibattiti soprattutto in Francia, prese di posizioni nette sui mondiali di Annecy. Tu che cosa ne pensi?
«Non mi piace disquisire su queste faccende pseudo politiche dove tutto si ingarbuglia e nel giro di un istante inizia la fiera dell’ipocrisia. Credo sicuramente che nel nostro sport servano delle regole pensate attentamente affinché non si ritorcano contro tutti in tempo zero, dato che nel trail a causa dell’elevato numero di variabili non controllabili le eccezioni rischiano di far crollare l’impalcatura che avrebbe dovuto regolamentare il caos, ma soprattutto credo che servano persone realmente capaci ed esperte di questa realtà per gestire a livello globale l’evoluzione di questo sport. Con questi presupposti si potrebbe forse anche arrivare ad una maggiore tutela degli atleti di ogni livello.
Cosa ne pensi dell’ITRA?
«Credo che sia un work in progress, un’idea che ha il suo senso ma che necessita ancora di migliorie, sicuramente è appunto il primo reale tentativo di inserire una logica in un’attività che per sua stessa natura intrinseca sembrava essere nata proprio per non averne».
Hai partecipato a molte gare: quali caratteristiche cerchi in un’organizzazione?
«Semplice: organizzazione. Che tradotto significa regolamenti chiari e non interpretabili, balisage affidabile, percorso sensato e non semplicemente un rincaro ai km e al D+».
Non hai mai pensato di metterti ad organizzare manifestazioni importanti?
«Mi piacerebbe creare un circuito per bambini, per insegnare loro a combattere divertendosi e soprattutto imparando il rispetto per l’avversario. Credo che bambini che potessero avere l’opportunità di misurarsi con i propri limiti fin da subito diventerebbero con ogni probabilità adulti migliori e consapevoli. Per il resto non mi piace l’idea di dare consigli, preferisco un augurio. Che è quello di poter sempre essere fiera e soddisfatta di ogni prova perché in ognuna avrà fatto di tutto per dare il suo meglio. E qui mi torna in mente la mia frase iconica ‘chi rende onore a se stesso rende onore a tutti’»:
Quest’anno hai avuto diversi problemi di idratazione e di alimentazione in gara (Passatore, UTMB per citarne due): come li hai superati? Cosa consiglieresti?
«In effetti non li ho superati, infatti mi hanno portata al ritiro. Più che superare quindi, bisogna prevenire, ma il discorso è complesso perché occorre riuscire a determinare l’errore principale commesso ogni singola volta. Al Passatore tutto è stato abbastanza semplice, ho mangiato forse un po’ tardi e poi mi sono infilata nella griglia di partenza senza prevedere una bottiglia supplementare per aspettare lo start. Così ho intaccato quella che avrebbe dovuto portarmi al primo ristoro, e alle 3 del pomeriggio di un giorno caldo e umido è un errore che non perdona. Utmb è ancora diverso, lì per la prima volta, raccontando i fatti a mio papà a posteriori, mi sono resa conto di non bere mai in discesa. Non riesco a gestire la cosa, quindi tra ammazzarmi e non bere evidentemente ho sempre scelto ‘non bere’. Solo che anche questo col caldo, e soprattutto con i ritmi che bisogna tenere per andare sul podio, non passa. Quindi il consiglio ovvio è da un lato assicurarsi sempre un’assunzione costante di liquidi e cibo, dall’altro procedere a un’accurata analisi degli errori fatti, una volta che il disastro dovesse essersi presentato».
Ti piace molto spingere forte in discesa e forse il tuo passato sulla tavola ti aiuta in questo: questo fatto è generalizzabile?Che consigli dai a chi è debole in discesa e quali a chi è relativamente forte in questa fase?
«No guarda, qui forse hai sbagliato la persona a cui volevi indirizzare la domanda… Questa va bene per Emelie!
No, io letteralmente odio spingere forte in discesa e a quanto pare il passato sulla tavola (come anche il piede pesante in macchina) non aiuta. Personalmente ho adottato la tecnica della falcata ridotta con appoggi rapidi per contenere i danni in caso di radici inattese o sassi mobili, e poi accessoriamente sono favorevole a un buon lavoro per migliorare la propriocezione sebbene sia noiosissimo. Credo che comunque ci sia un margine di miglioramento per tutti che val la pena provare a sfruttare, lavorando tanto su terreni più facili per acquisire sicurezza e soprattutto cercando di affrontare ogni discesa in maniera rilassata. Mi rendo conto che sono cose banali ma purtroppo difficilissime da mettere in pratica».
Con le discese troppo forti, non si rischia di avere le gambe distrutte per affrontare le successive salite o falsopiani?
«Ecco no, secondo me quando uno è ben preparato, quando invece che limitarsi a macinare km si è provveduto a rinforzare il corpo nella sua globalità, questo problema non si verifica. Certamente questo richiede un approccio alla corsa che non sia solo correre. Significa curare ogni distretto muscolare per poter contare su un corpo che funziona a livello globale d in cui ogni sforzo si ripartisce sul maggior numero di muscoli E distretti possibili. Insomma, un tipico esempio di responsabilità condivisa. Così le gambe non saranno costrette a fare da sole tutto il lavoro e conserveranno la freschezza necessaria per occuparsi di quanto segue.
Negli Stati Uniti si registrano prestazioni strepitose di ragazzi in mezza maratona e in maratona: come atleta e come mamma cosa ne pensi?
«Trovo che se l’idea di misurarsi in quelle gare sorge spontanea nei ragazzi allora è una fantastica cosa. Non vedo perché avversarla. I bambini sono in grado di avvertire le proprie inclinazioni, almeno nella mia esperienza con i miei è così, pertanto credo che vadano rispettate e incanalate un minimo, sta ai genitori proteggere il futuro atletico dei ragazzi. Proteggere, non imporre. Guidare, non stravolgere. Ma soprattutto supportare. In tutti i sensi del termine. Quanto appunto alle distanze, credo che siano assolutamente fattibili, ovviamente se i tempi realizzati vengono fuori spontaneamente e non successivamente ad allenamenti massacranti. I miei bambini non hanno nessun problema a fare 10 km senza allenamento quindi ritengo che chi invece è interessato nello specifico e si allena a quelli scopo, possa senza problemi gestire almeno una mezza. Ma col sorriso».
I teorici delle corse su strada dicono che i grandi record si fanno con il cosiddetto negative split (seconda parte più veloce della prima). Tu hai fatto il tuo personal best sulla 100 mettendo fieno in cascina nei primi 42 km. Puoi commentare?
«Ecco…fossi in grado di mettere in campo un negative probabilmente potrei tirar fuori un 7.40!! Purtroppo al momento faccio precisamente il contrario, e volendo essere generosi nell’interpretazione come sei tu, lo chiamiamo fieno in cascina.
Il negative è sicuramente la teoria. In pratica ho visto che va già bene riuscire a fare le due parti uguali, io sono ancora nella fase di contenere i danni nella seconda. Quello che è certo è che mi orienterò almeno su partenze più prudenti finché non avrò addomesticato il ritmo e le faccende metaboliche. Una prestazione ultra non è mai il frutto di un solo fattore».
Parlaci dei tuoi programmi 2016.
«Qui la cosa si complica. Posso dirti che l’intenzione di base è tornare a gareggiare nell’Ultra Trail World Tour e riportarmi nella sfida per il podio finale. Dopo un anno come questo so che non ripeterò gli stessi errori. Poi farò qualche gara nuova che capiterà lungo il percorso, quelle scelte d’istinto che piacciono a me. Chiaramente sarà tutto più facile nel momento in cui troverò un’azienda che creda in me e nel progetto, e spero che succeda».