All’inizio di marzo del 2001 una marea umana di uomini senza diritti partiti dal Chiapas entra a Città del Messico dopo avere attraversato 12 stati e percorso oltre 3.000 chilometri. È la grande marcia del subcomandante Marcos «per reclamare infine i diritti degli indios, umiliati per cinque secoli e violentati dal liberismo selvaggio che ha strappato loro l’ultima manciata di mais» come scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 26 febbraio 2001. Le centinaia di migliaia di persone avanzano lentamente, al ritmo della musica sparata a palla da un camion. Su quel camion ci sono i 99 Posse, band napoletana, ed Eric Girardini, venticinquenne di Lentiai, in provincia di Belluno. Festeggia gli anni proprio in quei giorni e fa partedelle oltre duecento tute bianche antiglobalizzazione italiane che assicurano il servizio d’ordine. «Ero l’unico ad avere dei cd e così mi sono ritrovato sul quel camion» dice oggi Eric seduto nella sua casa di Lamon, ai piedi del monte Coppolo, l’ultimo paese veneto prima di accedere alla valle del Primiero. Cosa ci faceva una Guida della Scuola delle Aquile di San Martino nel cuore della marcia zapatista a Città del Messico? La storia è un po’ lunga.

Lentiai, quota 261 metri sul livello del mare, alla fine degli anni Settanta è il paradigma dell’Italia pre-crisi e cambiamento climatico. Dietro casa ci sono le colline, d’inverno fa ancora freddo e la neve, oltre a cadere dal cielo, rimane a terra a lungo. I genitori di Eric gestiscono un piccolo supermercato e lavorano tutto il giorno. Così Eric e suo fratello Manuel stanno con Katia, la baby sitter. «Baby sitter, ma in realtà aveva qualche anno in più di noi ed era maestra dello sci club, in quegli anni si poteva, anche se non aveva il patentino» dice Eric. Le giornate invernali si trasformano in un piccolo paradiso. Il padre la mattina li accompagna in alto, al Pian di Coltura, dove c’era una rudimentale manovia, e loro sciano lì tutto il giorno. Il rientro fuoripista fino all’uscio di casa con gli sci, passando per il Colderù, dove abitava Massimo Braconi. «Massimo è di un’altra generazione, me lo ricordo, ma non ci siamo frequentati, lui era l’unico Maestro di sci con il patentino in paese». C’è anche lo sci club, il Lentiai, che durante le vacanze scolastiche riempie due corriere ogni giorno verso le piste di sci. E tra le case arrivava una gara di scialpinismo, proprio nella piazza centrale. «La neve c’era sempre, la portavano solo sugli ultimi metri, lungo la strada, ricordo che una volta vinse il mio Maestro del club, lo soprannominavamo cinghiale: non era fortissimo in salita, ma vinceva in discesa». Poi arriva la scuola,il liceo classico. Neanche il tempo di diventare maggiorenne e il temperamento ribelle di Eric lo porta lontanoda casa. «Sono scappato e sono andato a vivere con i ragazzi dei centri sociali, per un periodo avevamo due realtà autogestite in una cittadina piccola come Feltre. Dopo quel mese in Messico ho partecipato attivamente al G8 di Genova che è stato una batosta per tutti i movimenti, con una repressione mostruosa; così ho iniziato a riavvicinarmi ai miei genitori che avevano bisogno di aiuto in negozio e a ritornare in montagna per appagare quel bisogno di libertà così insito nella mia indole». L’approccio è abbastanza ribelle, d’altronde al DNA non si può mentire ma, come avviene a quei ragazzi che sbattono poco dopo aver preso la patente, distruggendo l’auto ma uscendone illesi, è proprio il suo trascorso ribelle ad averne fatto una delle Guide più affidabili tra la neve delle Dolomiti.

«Un giorno mi sono presentato in ufficio da Diego Dalla Rosa e gli ho detto che avrei voluto sciare con lui: mi ha risposto di fare il corso del CAI e l’ho fatto, presentandomi con un paio di Rossignol Bandit, tra i primissimi sci larghi: gli istruttori giustamente mi frenavano sempre in discesa!». Dopo le prime discese in solitaria (tra cui una in notturna del Monte Pavione terminata con tre ore di autostop a Imer alle tre di mattina con sci alla mano e scarponi ai piedi perché Arnaldo detto Napoli aveva rotto la coppa dell’olio della Citroen per accompagnarlo su per il Vallon de Aune ed era rimasto bloccato lassù e senza telefono) Diego accoglie Eric nel suo gruppo. Diego Dalla Rosa, classe 1952, da quelle parti (e non solo) è un’istituzione. Va forte sulla roccia e in discesasulla neve. Con Roberto De Bortoli, Aldo Bortolot e Maurizio Manolo Zanolla dà vita alle Formiche Rosse, arrampicatori funamboli contro il sistema. Ma è in discesa che Diego lascia tracce indelebili. Negli anni d’oro dei Valeruz e Vallençant è uno dei precursori del ripido tra le sue montagne, le Vette Feltrine e le Pale di San Martino, sua la prima e unica discesa in sci dalla vertiginosa parete Sud del Sass de Mur. «Diego ha fatto decine di prime discese, ma si sapoco, perché le ha fatte per lui, non per la gloria. Le Formiche Rosse venivano dal movimento studentesco degli anni ‘70, hanno rotto gli schemi dell’alpinismo, facevano parte di quella generazione ribelle dei Berhault ed Edlinger. Anche il nostro modo di andare in montagna era un po’ dissacratorio, almeno a me sembrava così; oltre a Diego ed altri c’era anche Hermann Crepaz, ancora oggi il mio socio preferito per le uscite in montagna, con un curriculum invidiabile di prime discese non ripetute, dalle Pale alle Vette Feltine. Eravamo tra i primi a usare gli sci larghi dalle nostre parti, ci guardavano come degli astronauti». Hermann è anche tra i fondatori del King of Dolomites e il sodalizio con Diego, Eric e gli altri amici ha una marcia in più nello stare insieme. «Siamo sempre stati così, nessuno di noi era un superfenomeno, ma come gruppo ci siamo fatti notare e poi, dopo le gite, nelle feste al bar aumentava l’ego di tutti. È il bello dello sci, quello stare insieme che in cordata non provi, perché ti muovi sempre da solo anche se sei legato a un’altra persona».

© Alice Russolo

Le gite scorrono veloci, le pendenze aumentano, ma scorre anche la vita, con i suoi eventi. Un giorno, durante un’escursione facile di fine stagione, una valanga travolge un compagno di avventura di Eric, Luca, sepolto appena fino allo zaino, ma ucciso dal peso della neve. Qualche tempo dopo tocca a Eric finire sotto la neve. «Ero sulla Marmolada, la neve mi ha trascinato per 700 metri, facendomi fare un salto di 50 metri: sono vivo per miracolo perché due scialpinisti – uno si chiama Salvatore di nome e di fatto, l’altro Ivan, non potrò mai scordarmelo – hanno visto i miei sci affiorare. Da quel giorno mi sono detto che avrei voluto diventare Guida alpina per acquisire maggior consapevolezza nel mio muovermi in montagna». Eric è testardo e quando si mette in testa una cosa la ottiene. Così passa subito il corso Aspiranti e ora quel ragazzo che si è trovato nel cuore della marcia zapatista è una Guida di San Martino.

Raccontato così sembra un romanzo, ma non è stata una passeggiata. «Ho deciso di vendere l’attività di famiglia, anche se me lo sconsigliavano tutti e i primi anni non sono stati facili, ho dovuto spingere, e poi venivo da un paese di collina dove le Guide non sapevano neanche cosa fossero e sono andato in una valle; ancora oggi c’è qualcuno che mi guarda con diffidenza perché sono forestiero, un ‘Talian. D’altronde San Martino di Castrozza e il Primiero hanno una lunga tradizione di isolamento. «La prima strada d’accesso dal Feltrino è stata costruita nel 1875, prima c’erano solo sentieri o mulattiere impervie, perché nel 1500 Feltre è stata distrutta dall’invasione austro-ungarica scesa dal Primiero e volutamente l’accesso alla valle è stato mantenuto così, per frenare eventuali truppe». Però San Martino è anche uno dei posti più incredibili per chi ama lo sci e la montagna. E le Pale, che hanno stregato anche una mente profondamente illuminata comequella di Dino Buzzati, sono montagne uniche al mondo. «Sono stupende per arrampicare e sciare, le amo particolarmente d’inverno anche se per il mio lavoro sono meno redditizie di altre località iper frequentate delle Dolomiti, ma mi piacciono proprio per questo… Amo anche il Lagorai, ma non ha la stessa verticalità che provi nelle Pale, per me la montagna è roccia e neve, soprattutto canali: ho sempre cercato l’estetica e tra le Pale mi sento appagato, mi piace pensare all’estate, quando arranco su quelle pietraie che ora solco veloce. Lo sci è il motivo per cui sono diventato Guida, prima scalavo di più, soprattutto in falesia, ma con il passare degli anni è sempre più dura portare avanti difficoltà se hai poco tempo». Il curriculum di Eric è di tutto rispetto, anche se non è un tipo che ama stare lì a snocciolarti le sue prime, non gli interessa. Forse perché, come Diego Dalla Rosa, lo fa per se stesso. «E poi da noi è difficile nello sci dire se è veramente la prima discesa, anche se sono sicuro che con Hermann e Diego ne abbiamo fatte molte, comunque possiamo dire di avere sciato belle linee con il nuove tra virgolette. Ai Vani Alti c’è forse il canale più estetico, simile all’Holzer, incassato e chiuso, esposto a Nord. Poi ricordo la Cima di Ramezza, sulle Vette Feltrine, la parete Nord del Colbricon italiano. Ah, dimenticavo, la Nord del Piz de Sagron, nelle Vette Feltrine, è stata forse il nostro apice. Probabilmente è una prima, ci sono solo notizie vaghe di una discesa di Mauro Rumez, ma non si sa con precisione se abbia sciato quella parete». C’è un aneddoto che fa capire che cosa rappresentano la salita e la discesa per Eric. Qualche anno fa, quando non era ancora Guida, ha sciato la Nord del Lyskamm con scarponi da discesa noleggiati ad Alagna, penso che il negoziante si ricordi ancora, non ci credeva e quando li ha riportati non ha voluto nulla, diciamo che è stato contento di rivederli. «Vado forte in salita, ho anche fatto qualche garetta dicorsa, però non m’interessa, meglio qualche etto di attrezzatura in più, ma l’obiettivo è la discesa». E va forte anche in discesa…

«Il mio terreno sono i canali, ma sono sempre stato più portato per la velocità che per le curve strette». Logico che anche l’attrezzatura che usa segua questo teorema. «Usavo Black Crows perché ho sciato qualche volta con Bruno Compagnet, da due anni sono passato ad Armada, grazie anche all’aiuto del mitico Macho di Prosport di Vicenza, un negoziante illuminato, uno che ci crede sempre e comunque, che mi ha dato una mano e sostiene diversi rider. Il mio set-up? Ne ho vari: lo sci da tutti i giorni è il Tracer 98, poi ho un 88 per le gite lunghe e la primavera, un ARV116 JJ e lo sci di Tof Henry, Declivity X. Son tutti belli, il 116 è sbananato e divertente nei boschi, il 98 va bene davvero dappertutto, il Declivity perfetto per il ripido ampio, diciamo più sul Monte Bianco o sulla Marmolada che dietro casa». Al piede mette Roxa, attacco Armada Shift o Ski Trab Tr2 e per l’abbigliamento c’è Salewa con cui ha sviluppato diversi progetti tra cui uno short film di 15 minuti sullo sci nelle Pale (youtube – salewaski -mountaineering). L’attrezzatura da sogno deve pur supportarli questi sogni.

«Quest’anno voglio andare in Francia a fare il Chourum des Olympiques, una discesa ripida che si infila in duegrotte, l’anno scorso mi sono preso una bella soddisfazione nel Vallon delle Scandole, di fianco alla Nord dell’Agner, 1.900 metri di discesa ripida ma non estrema, in condizioni super top, in una zona un po’ defilata delle Pale». E il futuro? «Nei primi anni di professione ho fatto molti viaggi e spedizioni, ora, con due figli e un terzo in arrivo, nel tempo che mi rimane in inverno mi obbligo ad andare a sciare con gli amici per riprendermi la mia passione, fuori stagione curo l’orto e i campi con mia moglie Daniela e mia suocera e cerco di rendermi autonomo dal punto di vista energetico». Tutto quello che coltiva, dai prelibati fagioli di Lamon agli ortaggi, basta per quasi un anno grazie al congelatore, la legna che raccoglie nei boschi scalda la casa. «È un impegno, richiede tempo, ma mi sono reso conto che più lavori, più spendi: per andare a lavorare spendi, se guadagni di più ti senti giustificato a spendere, così ti accorgi che rinunciando a qualcosa e dedicando più tempo a te stesso e alla famiglia, la qualità della vita aumenta, anche se non è un equilibrio facile da trovare. E poi lo faccio anche per i miei figli Pietro e Anna, perché si rendano conto dell’importanza della terra e della natura. Se stai in montagna e fai la stessa vita della città non ha senso». Già, la terra, quella stessa terra per la quale gli indios hanno percorso oltre 3.000 chilometri fino a Città del Messico. Tutto torna.

© Alice Russolo

Questo articolo è stato pubblicato su Skialper 128 di febbraio 2020. Info qui