Una volta – che poi sarebbe solo qualche anno fa – gli sciatori frequentavano forum e siti su cui postare le proprie uscite e confrontarsi su temi più o meno seri nascosti sotto nickname improbabili tipo Powder_Boy o Marietto82. Poi il mostro di Zuckerberg ha fagocitato anche loro e tutti, o quasi, hanno cominciato a utilizzare Facebook anche per sapere chi avesse sciato cosa, quando, su che neve. Ai ragazzi di Effetto Albedo ci sono arrivato così, vedendo amici o amici di amici che venivano taggati nelle loro uscite. Non nascondo di averli guardati all’inizio con un certo scetticismo, sembravano l’ennesimo gruppo di amatori presi bene, tutti powder e GoPro. Poi le cose si sono fatte più chiare: questa è gente che scia un sacco e scia pure bene. Per sciare bene intendo dire la capacità di sapere scegliere le linee, andando a posare i propri sci e le proprie split in montagne poco o per nulla frequentate e su neve spesso più bella di quella che trovano gli altri. Insomma, ho dovuto ammettere a me stesso che la mia disistima altro non era che una malcelata forma di invidia e ammirazione. Probabilmente perché in montagna viene più facile storcere il naso che battere le mani. Nel frattempo loro continuavano a martellare una linea dopo l’altra, spesso su cime dai nomi sconosciuti e tuttavia dietro l’angolo, situate tra l’alto Piemonte e la Val d’Aosta: postacci in cui solo chi aveva voglia di fare fatica andava a infilarsi. E già questo spezzava una lancia a loro favore, perché se nel variopinto mondo dei social network ci sono quelli che parlano e quelli che camminano, con le loro uscite esplorative stavano dimostrando di appartenere alla seconda categoria.

L’occasione per conoscerci di persona è arrivata quest’anno, durante un ciclo snervante di alta pressione che ha colpito pressoché tutto l’arco alpino. Quei periodi in cui chi può si dedica ad altro, va ad arrampicare o a pedalare. O, come nel caso di Effetto Albedo, si continua imperterriti a cercare linee, magari spostandosi sui versanti sud alla ricerca di neve primaverile nonostante il calendario indichi che siamo a metà gennaio. L’appuntamento è anche lui disallineato con la stagione: ore 4.30 al parcheggio di Ivrea. Mi incontro con Flavio e Paolo, più tardi ci raggiungeranno Francesco e Stefano, rinvigoriti da ben mezz’ora di sonno in più. La direzione è la Valpelline, la meta è stata scelta con lo stesso criterio delle precedenti, che grossomodo può essere riassunto con un abbiamo visto un bel canale di cui non si sa nulla sul versante Sud del Monte Berrio. Mi fanno vedere le foto, bello sembra bello. È quello che lo precede che mi preoccupa un po’. Due numeri: quota di partenza, 1.342 metri; vetta, 3.077 metri; quota neve, 1.900 metri circa sui pendii a Sud, chiaramente quelli su cui dobbiamo salire oggi. Cercando di non farmi notare al parcheggio tiro fuori dal bagagliaio sci e scarponi leggeri mentre faccio qualche battutina sulla splitboard di Flavio. Iniziamo a camminare nel bosco, la luna piena ci illumina nelle poche radure che incontriamo. È ripido, il sentiero è poco più che una traccia e ne avremo per ancora un bel po’. Portage asburgico, lo chiamano. Dopo un’ora sento prudere la schiena: la maglia termica è piena di aghi di larice. Chiacchieriamo, iniziamo a conoscerci. Il gruppo si è formato perché qualcuno cercava soci con cui assistere al Mezzalama e ha pensato di utilizzare la chat di Gulliver. Probabilmente è una prima anche questa, non pensavo che qualcuno utilizzasse davvero quella sezione del sito. Qualcuno lavora, qualcun altro studia ancora. Flavio quest’anno è il più attivo, complice anche il fatto che in questo momento ha l’occupazione più ambita dagli scialpinisti: ha cambiato lavoro e deve stare a casa per qualche mese.

© Federico Ravassard

Mi spiegano l’origine del nome: l’albedo è, in soldoni, il potere riflettente di una superficie nei confronti della luce. E, guarda caso, nella neve l’albedo massima è quella che caratterizza la polvere, la stessa che tutti gli sciatori – specialmente loro – vanno bramando. Ad accomunarli è anche altro. La provenienza, ad esempio: fatte un paio di eccezioni, il grosso del gruppo vive nel Canavese, sparsi intorno a Ivrea e a montagne che se a qualcuno non dicono un granché, ad altri fanno scintillare gli occhi, come il Mombarone e la catena della Bella Dormiente, con le punte Quinzeina e Verzel. Quest’ultima è impossibile non notarla, parandosi di fronte a chiunque entri in Val d’Aosta dalla Pianura Padana.

Sbuchiamo dal bosco mentre il sole fa capolino dalle cime di fronte a noi. Abbiamo messo gli sci da un po’ ma tra rami e crosta non stiamo mantenendo una media particolarmente veloce. Le uniche tracce presenti oltre a quelle dei camosci sono quelle che hanno lasciato loro stessi tre settimane prima: fa sorridere pensare che nessuno sia passato di qua, eppure non siamo così in fondo al mondo. Lo si potrebbe chiamare scialpinismo esplorativo della porta accanto, e in Valpelline, così come nelle Prealpi, è un giochino che riesce bene. L’idea che smuove questi ragazzi non ha a che fare con l’ansia da primati e gradi impossibili: piuttosto, amano andare a infilarsi in posti di cui si sa poco o nulla, su discese che attraggono prima di tutto per la loro estetica. Se poi ci scappa una prima discesa – che loro ci tengono sempre a specificare come probabile – tanto meglio. In ogni caso una birra la si stappa comunque. Con le dovute proporzioni, sulle Alpi si può fare un paragone con i 6.000 dell’Himalaya: mentre a quote inferiori si affollano i turisti e sulle cime più alte le poche linee non ancora salite rimangono appannaggio di pochissimi e fortissimi, nel mezzo esiste un mare di possibilità per continuare a sognare.

Tra una chiacchiera e l’altra ci alziamo di quota mentre qualche centinaio di metri sotto di noi spuntano due puntini, anche loro in splitboard: Francesco e Stefano. Aspettandoli ne approfittiamo per una pausa; fa insolitamente caldo per il periodo e crogiolarsi al sole, per quanto strano, è piacevole. Siamo nella conca che separa il Berrio dalla Punta Gorret, dove poco fa hanno firmato una probabile prima. Le tracce sono ancora visibili a distanza di settimane, sono le curve larghe e regolari di chi si è divertito su bella neve.

© Federico Ravassard

Parecchie – cinque, forse sei, forse di più – ore dopo essere partiti arriviamo al colle che ci separa di pochi metri dalla cima del Berrio. Probabilmente siamo i primi a passare di qua da parecchio tempo, la Valpelline è ben lontana dall’iperfrequentazione di altre valli. Qualcuno (pochi, a dire il vero) si avventura nelle altre stagioni nella traversata della Catena del Morion, la vetta di fianco alla nostra: un itinerario alpinistico selvaggio, di cui si sa poco o nulla, e che dall’anno scorso si può tentare appoggiandosi al nuovo, spettacolare, bivacco Pasqualetti, appollaiato su una cengia nel mezzo del nulla. La vista dalla cima del Berrio, a dispetto della sua quota modesta, è incredibile, grazie al fatto di affacciarsi quasi direttamente sopra la Val d’Aosta. I più vicini sono il Mont Vélan e il Grand Combin, conosciuti da qualsiasi amante del ripido degno di questo nome. Di fronte a noi ci sono le vette del Gran Paradiso e gli impianti di Pila, in lontananza svetta il Monte Bianco, alla sua destra la mole della parete Est delle Grandes Jorasses fa ancora più impressione che da sotto. Sotto un palo che fa le veci della croce di vetta si snoda il nostro canale.

Non è estremo, ma non siamo qui per quello. Probabilmente nessuno però ci ha ancora sciato dentro, e questo ci rende entusiasti e curiosi, anche perché non l’abbiamo risalito. Panino, abbracci, Flavio fa partire un drone mentre Stefano si allaccia la tavola ed entra per primo, seguito a ruota dagli altri. Io aspetto Flavio, vedo gli altri giù in fondo divertirsi parecchio. La discesa è bella, la neve pure, e lo sarà per più di 600 metri, dopodiché iniziamo a traversare per riportarci verso i boschi dai quali siamo spuntati questa mattina. Beh, se aveste tempo e voglia di leggere potrei scrivere pagine sulla battaglia che abbiamo poi condotto in mezzo ai larici. Di sicuro è stata una delle peggiori sciate boschive che io abbia mai fatto, prevalentemente su crosta non portante tendente a sfondare su una base di sassi e radici. Ma anche questo, in fondo, fa parte del gioco: effettivamente se nessuno passa mai di qua un motivo ci sarà. Quando mancano 400 metri di dislivello ci arrendiamo definitivamente: è ora di togliere gli sci e finire il giro come era iniziato, camminando. Alle auto ci arriviamo un po’ più di dieci ore dopo averle lasciate, mentre sopra di noi le montagne si tingono con i colori del tramonto. Per tutta l’ultima ora Paolo e Francesco hanno sbavato osservando un altro canale sul versante opposto, cercando di capire come e quando andare a curiosarci. Gli riconosco un entusiasmo e una voglia di mettersi in gioco che spesso alla maggior parte degli altri sciatori manca, sostituite dalla confortante sicurezza di seguire la massa in base a relazioni online e resoconti del weekend sui social network. Non che sia tutto rose e fiori, anzi: già più di una volta si è dovuti tornare a casa a bocca asciutta o con le mutande piene per aver sbagliato nel valutare un itinerario o le condizioni del manto nevoso, ma anche quello, fino a un certo punto, fa parte del gioco.

Qualche sera dopo ci rivediamo a Torino, al Monte dei Cappuccini, dove sono ospiti per una serata nella sede del CAI. Stanno per presentare The Backyard, un video autoprodotto nelle passate stagioni e in cui raccontano la propria visione dell’andare in montagna tra amici. Il pubblico è variopinto, ci sono i vecchietti caiani e giovani splitboarder, ammassati dentro una sala che trasuda l’austerità e la storia di certi ambienti. Il fatto stesso di essere tutti qui, a parlare di ripido e di polvere (sacrilegio!) però è la dimostrazione che in fondo tutte queste chiusure mentali di cui si parla forse esistono solo nella nostra mente. The Backyard è un piccolo inno all’essere degli amatori, in tutte le sfaccettature del termine: chi ama e prova trasposto verso una determinata azione; chi pratica uno sport non per professione, ma per piacere proprio. Alla platea raccontano – un po’ imbarazzati e cercando di stare defilati rispetto al palco – di come passino le serate tra webcam, dati delle centraline meteo e scrollate infinite su Google Earth e in parecchi ci si ritrova a sorridere, perché si capisce che alla fine siamo tutti parte di qualcosa. La differenza fra loro e noi è che a loro, appunto, viene voglia di raccontare delle loro uscite, della loro passione, senza fare i preziosi o le prime donne. Tornando a casa penso che forse al nostro mondo più momenti così non potrebbero che fare del gran bene, e per momenti così intendo dare il proprio contributo a sviluppare una cultura di massa che nel mondo dello scialpinismo ancora latitata; spesso perché si è troppo gelosi della propria attività (o semplicemente spocchiosi) per essere interessati a condividerla con altri, come se fosse una cosa importante, ma che in fondo conta solo per coccolare il nostro ego e sentirci in qualche modo speciali senza esserlo veramente. I ragazzi di Effetto Albedo invece hanno capito che di speciale non c’è tanto quello che si fa, ma soprattutto il cuore che ci si mette, e in quello sono amatori da dieci e lode. Uè, grazie, e alla prossima, che nelle nostre montagne sfigate c’è ancora un sacco di roba da fare.

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© Federico Ravassard