Primo aprile 2018. Pasqua. Nel tranquillo borgo di Trafoi tutto tace. Si sente solo il rimbombo dei passi degli scarponi sull’asfalto. Un rumore sordo, che risuona tra le case e le vie deserte di questo quieto villaggio altoatesino. Sono cinque rintocchi, uno dietro l’altro, regolari. Sono cinque scialpinisti, quattro uomini e una donna. Arrivano da lontano e sono diretti lontano. Vogliono salire allo Stelvio e hanno 80 chilometri di camminata con gli sci e gli zaini in spalla nelle gambe. Trovano un albergo, il Bellavista. Entrano per chiedere informazioni. Un signore sui 70 anni sta mangiando insieme alla famiglia e ai nipoti. È il proprietario dell’hotel ma, come se niente fosse, interrompe il pranzo pasquale, esce e si dilunga a spiegare la strada a questa insolita comitiva di scialpinisti. Quel signore all’anagrafe fa Gustav Thoeni ed è proprio lui, il campionissimo della Valanga Azzurra. I cinque scialpinisti non sono degli skialper qualunque. Si chiamano Philipp Reiter, Mark e Janelle Smiley, Bernard Hug e David Wallmann. Sono i cinque superstiti dei sette partiti il 17 marzo alle porte di Vienna alla volta di Nizza per la grande traversata delle Alpi, un’impresa riuscita solo nel 1971 a quattro austriaci. E l’obiettivo è proprio quello di arrivare almeno in quattro a Vienna e battere il tempo di Robert Kittl, Klaus Hoi, Hansjörg Farbmacher e Hans Mariacher. La traversata più mediatica della storia dello skialp, non a caso con la regia di Red Bull. Un’impresa della quale si è parlato molto. E non sono mancate le polemiche.

Il modo migliore per capire che cosa è stata Der Lange Weg e che cosa lascerà è di guardarla con gli occhi dei protagonisti, di quei quattro uomini e quella donna che hanno macinato 1.721 chilometri e 89.644 metri di dislivello in 37 giorni (contro i 41 degli austriaci nel 1971) ovvero 375,08 ore in movimento. Per esempio quelli di Philipp Reiter, scialpinista e trail runner tedesco classe 1991. Il modo migliore per capire che cosa significhino queste spaventose cifre è di farlo a ritroso, a rebours, visto che il nostro viaggio parte da Nizza, dove Philipp si è tuffato nel mare con sci e scarponi.

«Sono passate tre settimane ormai dall’arrivo e lo stomaco si è allargato, ho sempre tanta fame ma, a differenza di quando eravamo in moto 15 ore al giorno, ora il peso aumenta. Per qualche giorno mi sembrava di essere un elefante quando mi muovevo, ero gonfio perché il corpo tratteneva troppi liquidi. Sto andando in bici e corrocchiando, non posso dire di non avere le gambe, ma manca la velocità. Dopo un’impresa del genere si pensa al recupero fisico, ma c’è un recupero mentale che è altrettanto importante. Per un inverno ti sei concentrato su quell’obiettivo. Poi per quasi quaranta giorni hai fatto sempre e solo quello: alzarti alle due di mattina, da tre a quattromila metri di dislivello al giorno, decine di chilometri. La giornata scorre nella routine della fatica, resa ogni giorno diversa da tanti imprevisti. Ma non hai altri pensieri, altre occupazioni. E ora? Bisogna tornare a pensare a se stessi, al lavoro, agli amici, cambiano completamente le prospettive e tutto quello per cui hai lavorato finisce in un secondo».

Philipp parla ansimando, mentre ha lo smartphone all’orecchio sta tracciando il percorso di un trail, tanto per continuare a muoversi. Ma non gli manca la lucidità per andare nelle profondità di Der Lange Weg, oltre i titoli dei media e i video promo di Red Bull.

«Nessuno di noi, quando siamo partiti, aveva realmente idea di che cosa avremmo dovuto affrontare, del fatto che andare da Vienna a Nizza in così poco tempo significa essere in moto anche quindici ore al giorno, percorrere fino a 4.500 metri di dislivello positivo con qualsiasi condizione meteo. E prendersi dei rischi. Perché il ragionamento non è quale percorso fare e come adattarsi alle condizioni meteo, ma in certe situazioni puoi solo decidere se prenderti quei rischi vale la pena. Se devi passare da una valle all’altra e c’è solo quel valico non hai molte alternative. La prima settimana è stata la più difficile. Ci siamo allenati solo un giorno insieme, a gennaio. Io conoscevo solo un paio di compagni. Abbiamo affrontato condizioni meteo molto difficili e in quei momenti viene fuori il nostro io più profondo, nelle situazioni estreme si vede chi sei veramente e non è sempre un fatto positivo. Poi però dopo i primi dieci giorni possiamo dire di essere diventati un vero team. E abbiamo dato il giusto valore all’impresa di Klaus Hoi e compagni. Quando ti trovi nel white out con il vento a cento chilometri all’ora capisci che chi ha vissuto queste stesse situazioni quasi cinquanta anni fa lo ha fatto senza GPS, attrezzatura e abbigliamento hi-tech».

© Red Bull Content Pool

Prendersi dei rischi. Quelli che non ha voluto prendersi la trail runner catalana Nùria Picas, che pure passa per una dura e ha lasciato il gruppo dopo 550 chilometri e 32.000 metri di dislivello positivo. «Ovunque andiamo ci sono grandi carichi di neve, è un anno meravigliosamente eccezionale, ma non sono disposta ad assumermi rischi maggiori di quelli che abbiamo già corso in questa settimana appena passata – ha scritto in un post su Facebook -. A casa ad aspettarmi ho i miei figli, la mia famiglia e gli amici e molte avventure che spero di condividere con tutti voi. Lo faccio perché penso che la vita sia uno sport meraviglioso!».

Trentasette giorni ad alzarsi alle due del mattino per evitare la neve molle e il rischio di distacchi, poi giù veloci al camper per mangiare e dormire qualche ora. Una vita con ritmi militareschi. Cosa rimane nella mente di chi a Nizza ci è arrivato?

«Due insegnamenti. Non bisogna fermarsi mai, fino al traguardo, nonostante i tanti imprevisti. Bisogna continuare a muoversi e guardare avanti. Non bisogna essere soli, è impossibile. È un’impresa che puoi fare in compagnia, perché oggi capita la mia giornata no e domani la tua e ci si aiuta. C’è un altro pensiero che mi ha accompagnato a lungo: se sia possibile immaginare una Der Lange Weg a piedi, in velocità. E sono arrivato alla conclusione che sarebbe molto più difficile. Perché con gli sci guadagni tempo in discesa e solleciti meno le articolazioni. E perché quando fai scialpinismo lo stomaco non è così delicato come quando corri. Non potrei mai mangiare una salsiccia prima di un trail, durante una scialpinistica sì». E se lo dice uno che ha portato a termine due volte la Gore-Tex Transalpine Run, andando anche sul podio, bisogna credergli.

Ci sono curiosità che vanno oltre le vette raggiunte e i metri di dislivello. E sono sulla vita di tutti i giorni alla Der Lange Weg. Quello, insomma, che non sta scritto nei comunicati stampa. «A parte tre notti in hotel, una in rifugio e una nel locale invernale di un rifugio, abbiamo sempre dormito nei camper. Eravamo in sette e dormivamo in tre diversi camper. La maggiore difficoltà è stata quella di doversi alzare sempre nel cuore della notte, alle due. Anche se sei stanco non riesci ad andare a letto tanto presto e poi non sei in una casa dove puoi oscurare bene le finestre. Lo spazio a disposizione in camper non è tanto e soprattutto i vestiti non ritornano perfettamente asciutti, rimane sempre un po’ di umidità».

Kilian Jornet ama gratificarsi con gli orsetti gommosi della Haribo nei momenti più difficili di una gara ultra-trail. E di momenti difficili in 1.721 chilometri ce ne sono stati tanti. L’orsetto di gomma (o la coperta di Linus…) di Philipp è una parola composta da cinque lettere, che si scrive uguale in tutto il mondo: pizza. E c’è una vecchia conoscenza di Skialper nel ruolo di pizzaiolo: «Avevamo proprio voglia di una pizza perché eravamo entrati in Italia, ma non potevamo permetterci di passare a casa di Manfred a mangiarla, così lui l’ha impastata e cotta a casa sua e ce l’ha portata il giorno dopo in quota». Lui è Manfred Reichegger, il senatore della nazionale italiana di scialpinismo da poco ritiratosi, che ha fatto da guida al gruppo nella sua valle Aurina, aiutando Philipp e compagni non poco nella nebbia».

Già, il cibo, croce e delizia in ogni gruppo che si rispetti. «Avevamo un cuoco, un ex tagliatore di legna che cucinava grasso, molto grasso. Ma andava bene perché bruciavamo tanto. Il suo compito era difficilissimo perché doveva preparare il cibo all’aperto, per una ventina di persone, inclusi autisti, operatori cinematografici, persone di servizio e, soprattutto, non sapeva mai quando arrivavamo perché era difficile calcolare i tempi con precisione. E quando arrivavamo avevamo fame, molta fame. Così i barattoli di Nutella e le noccioline sono andati a ruba. E durante le gite non ho mai mangiato tanti sandwich come in quei giorni».

© Red Bull Content Pool

Un lungo viaggio è fatto di tanti ricordi che la mente elabora meglio a distanza di qualche settimana o mese. Ce ne sono di belli e di brutti.

«Non posso dire di avere fatte delle belle sciate. Più che altro ci siamo spostati con gli sci, in velocità. Però quando siamo arrivati in Valle Aurina, dopo una giornata lunghissima, ci siamo goduti una discesa al tramonto sulla neve polverosa arancione. A Zermatt una bellissima alba ci ha subito avvolti mentre salivamo verso il Cervino, poi sul ghiacciaio si respirava un’atmosfera strana, durante una gita non ho mai visto così pochi scialpinisti in giro, eravamo praticamente soli a battere traccia, in quota e con il vento contro. Il meteo è cambiato velocemente e ci siamo ritrovati nella nebbia con raffiche a cento chilometri all’ora che ci spostavano indietro di cinque metri. Piedi e vestiti erano fradici. Quando siamo riusciti ad arrivare al bivacco a 3.700 metri ci siamo resi conto di essere dei sopravvissuti. In quel momento, quando nel video che ho caricato sulla mia pagina Facebook si vede entrare dalla porta uno dei mie compagni, la sua espressione parla più di mille parole. Ce l’avevamo fatta ed era l’unica cosa importante, poi avremmo pensato a come tornare indietro».

Già, tornare indietro. Come al Monte Bianco. «Eravamo a cento metri di dislivello dalla vetta, immersi nel white out. I nasi e le guance di alcuni erano bianchi, in cresta non si vedeva nulla e per cercare la strada abbiamo fatto partire un lastrone, non aveva senso rischiare. Per salire sul Monte Bianco abbiamo preso una Guida: ce n’erano solo tre o quattro disposte a portarci in un solo giorno però volevano 1.500 euro e per noi era troppo. Allora l’organizzatore Helmut Putz ha deciso di pagare lui la Guida perché voleva che arrivassimo in vetta. È finita che abbiamo dovuto letteralmente tirarla perché non riusciva a tenere il nostro ritmo e aspettarla continuamente. Alla fine voleva 1.200 euro perché non eravamo arrivati in vetta, ma un collega l’ha convinta a non farsi pagare per il buon nome della categoria».

Quando vai sul Monte Bianco con un cliente normale sai che hai margine, quando vai con chi attraversa le Alpi in 37 giorni no. Ecco un’altra lezione di Der Lange Weg.

Der Lange Weg

La lunga strada. Come quella che nel 1971 gli austriaci Robert Kittl, Klaus Hoi, Hansjörg Farbmacher e Hans Mariacher hanno portato a termine, da Reichenau an der Rax, in Austria, vicino a Vienna, a Contes, una località vicino Nizza, in 41 giorni. A distanza di quasi 50 anni l’altoatesina Tamara Lunger, il tedesco Philipp Reiter, lo svizzero Bernard Hug, la catalana Nùria Picas, l’austriaco David Wallmann e gli statunitensi Janelle e Mike Smiley, marito e moglie, avevano l’obiettivo di arrivare almeno in quattro e in meno di 41 giorni. Non si può dire che le due imprese siano sovrapponibili e che il record sia stato battuto, anche se il tempo è nettamente inferiore: 41 giorni. Il percorso, che doveva essere uguale, tranne qualche tratto iniziale, è stato invece ridotto a 1.721 invece dei 1.917 previsti (con 85.000 metri D+, che sono diventati 89.644 nell’impresa odierna) a causa delle avverse condizioni meteo che hanno obbligato a tagliare alcuni tratti e saltare alcune vette (sono comunque stati raggiunti Grossglockner e Punta Dufour). Tamara Lunger ha abbandonato dopo la tappa 21 a causa di un infortunio, che l’aveva anche costretta a usufruire del bonus di 64 chilometri percorsi in auto, bonus pensato perché anche nel 1971 i protagonisti avevano percorso 64 km in auto. Non ha concluso il percorso anche Nùria Picas. La partenza è avvenuta il 17 marzo e l’arrivo il 22 aprile.

L’attrezzatura

Che cosa si usa per percorrere quasi 2.000 chilometri sulle Alpi? Philipp Reiter aveva due paia di sci, un Salomon Minim e un S/Lab X Alp. Il secondo, però, è rimasto nel camper. «Per il tipo di impresa conta più avere qualche grammo in meno da trascinare in salita che uno sci che faccia risparmiare energie in discesa» dice Philipp. Lo scarpone era uno Scarpa Alien, l’attacco ATK Trofeo e le pelli Geko con silicone. «Ne avevo anche una di scorta nello zaino, ma non l’ho mai usata, con la neve primaverile le Gecko sono ottime». Rotture? Zero, solo lo sci di Hug durante l’attraversamento di una valanga, ma niente di grave. E l’abbigliamento? Intimo in lana Merinos che ha doti antibatteriche naturali, strato termico e guscio.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 118. SE VUOI RICEVERE TUTTE LE PIÙ BELLE STORIE DI SKIALPER DIRETTAMENTE A CASA TUA, ABBONATI.

© Red Bull Content Pool