Presentata l'Alta Via delle Dolomiti Bellunesi

Quando nel 1994 Teddy Soppelsa ideò il percorso della Transparco, che attraversava tutto il Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi, non immaginava probabilmente che quel percorso sarebbe diventato un’alta via alla stregua dei più famosi percorsi in quota dei Monti Pallidi. Sono passati 28 anni, in mezzo c’è stata anche l’interessante esperienza del trekking guidato organizzato nel 1996 da Mountain Wilderness («C’è gente che si è conosciuta in quella occasione e si frequenta ancora oggi» dicono gli uomini del Parco Nazionale), ma oggi quel sogno è diventato realtà: da Forno di Zoldo a Feltre, 108 km e 6.000 metri di dislivello. Ma soprattutto una settimana di cammino in luoghi così vicini alla città eppure così lontani e selvaggi. L’occasione per un piccolo assaggio di questa interessante realtà presentata in anteprima da Skialper con un ampio servizio sul numero 119 di agosto 2018, è stata la conferenza stampa di lancio del percorso, organizzata ieri al Rifugio Bruno Boz, a quota 1.700 metri, ai piedi delle suggestive Torri di Neva.

Il Sass de Mura

È SOLO L’INIZIO - Il progetto dell’Alta Via delle Dolomiti Bellunesi è appena partito e, oltre alla segnaletica (che unisce sentieri già esistenti e non ha previsto nuovi cartelli ma targhette da inserire su quelli già esistenti), ha visto la realizzazione di un dettagliato sito Internet e in futuro anche la realizzazione di una serie di servizi (pass/voucher per i rifugi per evitare di doversi portare dietro troppi soldi, servizio navette nelle valli). Per lanciare il progetto e promuoverlo è stata prodotta una mole enorme di materiale percorrendo due volte l’itinerario: 3.400 immagini, 10 interviste, video-clip, tracce gps. Interviset perché camminare qui vuol dire anche incontrare la gente che queste terre alte le vive, dal pastore diciassettenne ai rifugisti. I canali social (Facebook e Instagram: @altaviadolomitibellunesi) cominciano a funzionare e il breve video promozionale pubblicato sul sito ha fatto in pichi giorni oltre 40.000 contatti.

un cippo del pacifico confine tra la Repubblica di Venezia e il Tirolo

LO SPIRITO - Le Dolomiti Bellunesi non sono certo luoghi da rifugio cinque stelle e turismo alpino di massa, si cammina in paesaggi molto selvaggi, con le aquile sulla testa e i mufloni a fare compagnia, si dorme in vecchie casere trasformate in piccoli rifugi dove al rifugista si dà del tu e non ci si trasforma in un numero. Lo spirito dell’iniziativa, che nasce dall’incontro tra un gruppo di giovani, il Parco e le locali sezioni del CAI, capitanate da quella di Feltre, è proprio quello di promuovere l’itinerario in Italia e all’estero ma anche di educare e di veicolarlo al giusto pubblico. Sul sito verrà attivato anche un libro di vetta dove si potranno inserire i propri commenti e il progetto avrà una durata minima di tre anni.

il rifugio Bruno Boz

PARTNER - Fondamentale è stato il supporto di tre marchi outdoor: AKU, Ferrino e Karpos, che hanno sostenuto l’iniziativa e la promuoveranno attraverso i loro canali social. Considerando le piccole dimensioni dei rifugi, Ferrino ha portato la sua esperienza nella consulenza ai posti tappa che propongono anche la possibilità di dormire in tenda usufruendo degli altri servizi.

www.altaviadolomitibellunesi.it


Nelson O'Neill e Morrison sciano il Lhotse

Come già annunciato, l’Himalaya in queste settimane è un crocevia di spedizioni alpinistiche con l’obiettivo principale della discesa con gli sci delle vette più alte della terra, dopo che la stagione ha già visto due importanti imprese come quella di Bargiel al K2 e quella di Chambaret, Duperier e Langenstien al Laila Peak. Lo scorso 30 settembre la statunitense Hilaree Nelson O’Neill e il connazionale Jim Morrison hanno portato a termine la prima discesa integrale del Lhotse (8.516 m) su circa 2.100 metri di dislivello, fino al campo 2. Diciassette ore il tempo impiegato. Nel 2007 lo statunitense Jamie Laidlaw aveva sciato da quota 8.300 metri. Nelson O’Neill aveva già disceso con gli sci il Cho Oyu e diverse linee in Sud America, oltre ad essere stata la prima donna a salire in 24 ore due ottomila, il Lhotse e l’Everest (con ossigeno). Hilaree ha voluto farsi fotografare in vetta con uno striscione di POW, Protect Our Winters, un’associazione ambientalista che cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica sugli effetti del climate change per la partiac dello sci e degli sport invernali. «Le condizioni sono state abbastanza buone, ma certo non puoi sbagliare una curva o perdere uno spigolo su questi pendii ghiacciati, per non parlare di sassi di ghiaccio e asperità sotto lo strato superficiale che rendono la discesa un po’ accidentata» ha dichiarato sulla via del rientro.


Mountopia: tre cime in tre giorni

A maggio di quest’anno è partita la quarta edizione del concorso Mountopia promosso e organizzato da Dynafit e dai partner Gore e PrimaLoft. Al motto diYour Mountopia is our mission, tutti gli iscritti si sono sfidati in un contest che ha visto la partecipazione di 365 atleti provenienti da 32 diversi Paesi. Alla fine i vincitori sono stati quattro:la polacca Iga Ługowska, la slovacca Lucija Odar, lo svedese Aramis Sasinka e il tedesco Christoph Leimbeck.  Cosa c’era in palio? Il sogno proibito di molti scalatori, ovvero quello di conquistare tre vette fra i monti più alti di Germania, Austria e Italia: Zugspitze (2.962 m), Grossglockner (3.798 m) e Ortles (3.905 m), tutti in un unico weekend.

©Andreas Vig
©Andreas Vig

Nel mese di settembre i quattro vincitori, ognuno con il proprio bagaglio di esperienze, i propri limiti, ma soprattutto con le proprie motivazioni sono partiti per l’esperienza che li ha portati ad affrontare 70 chilometri e un totale di 7.000 metri di dislivello in pochissimo tempo coadiuvati dai ragazzi del team Dynafit. Un’impresa nella quale la passione per la montagna ha dovuto battere la tanta fatica e le poche ore di sonno. I quattro vincitori si sono presentati al via di questa sfida in condizioni diverse, tra chi aveva già provato l’ebrezza di una scalata lungo gli stessi versanti del contest, come Lucija, che in primavera si era cimentata nella salita al Grossglockner; e chi non aveva mai osato affrontate nessuna delle tre vette, e proprio per questo ha apprezzato ogni passo e ogni singola goccia di sudore, come racconta Christoph. Potete rivivere le emozioni dei quattro partecipanti di Mountopia 2018 sul blog di Dynafit.

Il concorso Mountopia ritornerà anche nel 2019 con le iscrizioni che si aprono oggi. 9 di ottobre 2018. Nella prossima edizione il traguardo da conquistare sarà l’ambito Trofeo Mezzalama del 27 aprile 2019, la gara internazionale di sci alpinismo più ad alta quota al mondo. Per informazioni sulle condizioni di partecipazione e registrazione: https://www.mountopia.com/

©Andreas Vig
©wisthaler.com

Obiettivo Dhaulagiri

Gli 8.000 sono ritornati di grande attualità per gli sciatori del ripido. Mentre due spedizioni, come già segnalato da Skialper, si trovano già o lo saranno a breve tra le montagne più alte della terra (quella di Hilaree Nelson e Jim Morrison al Lhotse e quella di Anton Pugovkin e Vitaly Lazo all’Annapurna), ecco che il sito spagnolo desnivel annuncia che in autunno ci sarà un terzo tentativo di discesa, dal Dhaulagiri (8.161 m). A provare la discesa integrale, mai riuscita, Herbert Hellmuth e Sergey Baranov. David Fojtik nel 2009 lo ha sciato da circa 20 metri sotto la cima e fino a qualche metro sopra il campo 3. A luglio Andrzej Bargiel aveva sciato per la rima volta il K2 ed è stato sciato anche il Laila Peak, ad opera dei francesi Carole Chambaret, Tiphaine Duperier e Boris Langenstein. Discesa ripetuta pochi giorni dopo anche da Cala Cimenti e Matthias Koenig. «Marco Siffredi ha disceso per la prima volta l’Everest in snowboard lungo il Couloir Norton, il 23 maggio del 2001 e la sua, compiuta lungo un itinerario differente rispetto alla linea di salita, può essere considerata l’inizio della ‘new age’ dello sci ripido d’altissima quota. Fino a quel momento lo sci sulle montagne di 8.000 metri, esclusi pochi sporadici tentativi d'avanguardia, andava piuttosto alla ricerca della ripetizione in discesa di itinerari classici di salita» dice Emilio Previtali, esperto di spedizioni e prime discese in Himalaya. Al Dhaulagiri è tornato anche il settantanovenne spagnolo Carlos Soria, che aveva già tentato la montagna a maggio e nel 2017 e raggiungendola arriverebbe a una sola vetta dal suo obiettivo, quello di diventare la persona più anziana ad aver scalato i 14 ottomila. Gli mancherebbe solo il Shishapangma.


Due spedizioni in Himalaya per sciare Lhotse e Annapurna

Dopo i successi di Bargiel al K2 e del trio francese Carole Chambert, Tiphaine Duperier e Boris Langenstein al Laila Peak, le vette più alte della terra sono al centro di altri progetti di discese. La prima spedizione prevede di scendere in autunno il Lhotse (8.516 m). A farne parte Hilaree Nelson e Jim Morrison, con loro anche Dutch Simpson, Michael e Nicholas Kalisz. La Nelson nel 2012 ha scalato in 24 ore Everest e Lhotse e insieme a Morrison, che quest’anno ha sciato in parte l’Everest, ha disceso Denali e Cho Oyu. I russi Anton Pugovkin e Vitaly Lazo si trovano già all’Annapurna (8.091 m) che tenteranno di sciare dopo avere sciato l’anno scorso il Manaslu (8,156 m). Nei loro progetti anche Nanga Parbat (2019), Everest (2020) e K2 (2020).


La francese Liv Sansoz scala tutti i 4.000 delle Alpi

She did it. La francese Liv Sansoz ha portato a termine a metà settembre il suo progetto di scalare tutte le 82 vette di 4.000 metri delle Alpi. Un progetto che si è chiuso con la salita dell’Aiguille Blanche de Peuterey (4.112 m) e del Grand Pilier d’Angle (4.243 m), nel gruppo del Monte Bianco, in compagnia dello svizzero Roger Schaeli, e con un volo in parapendio dalla vetta. L’idea di salire tutti i 4.000 era venuta a Liv dopo che nel 2015 Ueli Steck aveva portato a termine l’impresa in 62 giorni. Liv si era data 12 mesi e a marzo 2017 era partita forte: 21 cime in tre settimane in compagnia di Colin Haley. Poi alla numero 38, Aletschorn, un infortunio con relativo congelamento e uno stop che l’aveva portata a -6 vette nei 12 mesi. Per le salite e discese non è stato utilizzato alcun mezzo meccanico: solo alpinismo, sci e parapendio.


Franco Michieli, muoversi nell’invisibile

Sperimentare la permanenza nella montagna. Comincia da questa esigenza l’avventura di Franco Michieli con i suoi viaggi. Classe 1962, nato a Milano, ma con una nonna di Agordo, fin dall’infanzia fa delle Alpi la sua seconda casa. Vive la sua prima esperienza significativa come viaggiatore subito dopo l’esame di maturità. Appena finito l’orale parte per attraversare tutto l’arco alpino, da mare a mare, da Ventimiglia fino a Trieste, accompagnato da otto amici che si alternano lungo il tragitto. «Sono contento di aver celebrato un momento così simbolico come l’esame di maturità facendo qualcosa che ha caratterizzato poi tutto il resto della mia vita - dice -. Già da allora la dimensione che volevo esplorare era la durata, per capire cosa succede stando in ambiente alpino per un lungo periodo, 24 ore su 24, il più possibile a contatto con la natura». Da quel momento ha preso avvio una serie infinita di viaggi che hanno portato Franco ad attraversare alcune delle aree più incontaminate e disabitate del pianeta, dalle Alpi alle Ande, alle sconfinate regioni della penisola scandinava. In questo lungo percorso conoscitivo ha abbandonato via via tutto ciò che è superfluo, liberandosi anche degli strumenti tecnologici che oggi il senso comune considera necessari per imprese di questo tipo, in uno sfiorare di perdersi che l’ha portato a ritrovarsi con una consapevolezza più piena di se stesso e della relazione ancestrale che lega l’uomo alle molteplici forme di vita sulla terra.

Arriva così nel 1998 alla decisione di attraversare senza l’ausilio di nessuna strumentazione tecnica la regione Sapmi, «il vero nome del territorio che viene normalmente indicato col termine in realtà dispregiativo di Lapponia», ci tiene a precisare. Niente orologio, niente telefono, niente GPS, strumenti di comunicazione o carta geografica, soltanto la propria esperienza, il proprio senso dell’orientamento e le risorse che sono insite dentro ognuno di noi. «Era già da un po’ che stavo pensando a questa svolta e quando ho realmente deciso di metterla in pratica avevo alle spalle numerosi viaggi, tra cui uno in Norvegia a 23 anni e uno in Islanda nel 1991 dove avevo sviluppato la mia capacità di cavarmela e di orientarmi in autonomia». Insieme ad Andrea Matteotti, suo amico da sempre e già compagno anche della prima traversata delle Alpi dopo la maturità, si incammina all’interno di un vastissimo territorio disabitato, grande come tutta l’Italia Settentrionale, da Trieste ad Aosta. Davanti hanno solo tre strade e tre piccoli villaggi; tutto il resto sono percorsi da inventare. «Il terreno ideale per testare questo modo di viaggiare il più possibile libero da ogni condizionamento».

Si trovano da subito a loro agio: 30 chilometri al giorno, con zaino pesante e senza sentieri, praticamente lo stesso itinerario che avrebbero compiuto utilizzando le carte geografiche. La decisione presa è quella giusta, sarà questa la strada da seguire anche per i viaggi futuri. «Ovviamente non si improvvisa niente - commenta Franco spiegandoci la sua tecnica - bisogna partire dalle mappe mentali, quelle che tutti noi inconsapevolmente ci facciamo per orientarci nel nostro quotidiano, ma anche per sognare, ed estenderle su una scala più ampia. Dobbiamo capire le geometrie geografiche che caratterizzano il territorio che vogliamo esplorare: come sono disposte le coste, come è orientata la terra rispetto ai punti cardinali, se ci sono catene montuose, laghi, fiumi, come si alternano e verso quale direzione scorrono. Per avere queste informazioni basterà prendere un atlante oppure basarsi su un racconto attendibile di chi c’è già stato. Prima di partire dovremo imparare anche a utilizzare il sole come bussola naturale, a capire la direzione che indica il soffio del vento, a prevedere il cambiamento del tempo. Sono tutte capacità che oggi sembrano fuori dalla nostra portata perché atrofizzate dall’uso massiccio della tecnologia, mentre in realtà sono insite dentro di noi perché facevano già parte del normale bagaglio di conoscenze dell’uomo arcaico. Dobbiamo solo risvegliarle.

Tutto sta nel saper cogliere i segnali. L’apparire per un minuto del sole in una giornata di nebbia fitta può indicare la direzione giusta da seguire. Basta avere pazienza, una scorta di viveri sufficiente e un buon sacco a pelo. In questo modo anche una giornata difficile dove sembravano non esserci più punti di riferimento può trasformarsi in un evento straordinario, perché scopriamo di saperci muovere nell’invisibilità». Quello che colpisce è il senso di fiducia in se stessi e nella natura che questo modo di porsi trasmette, una capacità di fidarsi e di affidarsi che non ha bisogno di essere ostentata ma che ti tocca dentro per la sua totale trasparenza e autenticità. Ascoltandolo mi viene spontanea una domanda: Ma non ti sei mai sentito perso? «Paradossalmente i momenti di maggior spaesamento li ho vissuti al ritorno dai miei primi viaggi, rientrando a Milano. Pativo il distacco forzato da quell’ambiente ancestrale che ci fa riscoprire una parte antica e sopita di noi, per calarmi di nuovo nell’ambiente artificiale della città con i ritmi irragionevoli e innaturali imposti dalla società. Anche quando sei in natura capitano i giorni in cui non sai più dove ti trovi, ma con l’esperienza impari a non spaventarti, ad aspettare con calma e pazienza, perché sai che prima o poi la strada giusta in qualche modo si trova, oppure è lei che trova te». Certo, per abbracciare questo modo di viaggiare occorre stravolgere i principi che comunemente diamo per scontati: il bisogno di avere una meta e la necessità di usare tutti gli strumenti disponibili per raggiungerla nel più breve tempo possibile, e a ogni costo. Nella filosofia di Michieli non c’è nessuna meta obbligata, si tratta di entrare in una relazione rispettosa con il territorio che si percorre, l’unica conquista è quella di raggiungere un equilibrio col divenire della natura in quel luogo, di trovare un percorso che sia in armonia con la possibilità di vivere e di restare in vita in quell’ambiente. Per farlo dobbiamo essere disposti ad attendere, a fermarci, a cambiare strada a seconda del variare delle condizioni.

Tra picchi sconosciuti, vagabondaggio a vista in Groenlandia ©Franco Michieli

Ma l’esplorazione della geografia fisica e di quella interiore che Michieli ha portato avanti nella sua ricerca durante tutti questi anni non è solo silenzio e contemplazione, è anche racconto e condivisione. «Sì sono due aspetti della stessa esperienza. C’è il viaggio con il suo bisogno di silenzio per entrare in contatto con l’intensità delle rivelazioni che fa vivere, e c’è la necessità di raccontarlo, trascorso un tempo sufficiente per metabolizzarlo, perché è solo condividendolo che si ridona al fluire degli eventi quello che si è imparato, trasformandolo in una conoscenza comune. Anzi lo stare così tanto immersi nella natura diventa la base per una nuova comunicazione umana, radicata nella concretezza dell’esperienza, mentre oggi, nell’epoca della virtualità, la maggior parte della parole che utilizziamo rischia di essere astratta e svuotata di contenuti, prestandosi quindi a strumentalizzazioni, fraintendimenti e conflitti». Michieli ha declinato la sua esigenza di raccontare il viaggio in molti modi: con le conferenze, i libri e i documentari, con i corsi per le aspiranti Guide alpine in Sudamerica sulle Ande, con i seminari dell’associazione Movimento Lentoo con altri enti e con i viaggi d’autore in collaborazione con la Compagnia dei Cammini.

Anche il suo ultimo libro Andare per silenzi riflette proprio su questi temi, sul compenetrarsi di solitudine e compagnia nel rapporto con le montagne e con la natura, e di come da questo rapporto nasca una forma di spiritualità primordiale, capace di superare le barriere artificiose che spesso costruiamo. «Viaggiando tanto ho imparato che le nostre vere radici non sono quelle culturali date da pochi secoli di storia, ma sono quelle naturali, molto più antiche e profonde. Io penso all’umanità come a un grande albero millenario. Le diverse culture sono i rami tutti diversi che nascono però da un medesimo fusto che rappresenta il nostro cammino evolutivo e affonda le radici in un’origine comune. Soltanto partendo da qui si può capire chi siamo davvero, per non sentirsi più soli ma parte di una totalità più grande di noi. Questo è quello che più di tutto mi hanno insegnato i miei viaggi, tutte le volte che ho provato la gioia di sentire che la mia casa erano le montagne aperte che mi stavano intorno. Ed è un motivo sufficiente per continuare a viaggiare, almeno fino a quando avrò davanti un altro orizzonte sconosciuto da esplorare».

 

 


Bargiel nella storia, è il primo a sciare il K2

Il polacco Andrzej Bargiel ha sciato ieri il K2 dalla vetta al campo base, a quota 5000 metri per un totale di 3.600 metri di dislivello. Un'impresa mai riuscita a nessuno. Bargiel è partito alle 8 di mattina per arrivare alle 16 circa, ora italiana, con uno stop forzato al campo 4 a causa della visibilità. La via seguita è quella dello Sperone degli Abruzzi, Collo di Bottiglia, via Cesen, via Messner e via Kukuczca-Piotrowski. La maggiore difficoltà, come dichiarato dallo stesso Bargiel prima dell'impresa, non è stata tanto la neve in quota, ma avere le giuste forze e la lucidità per sostenere lo sforzo di una discesa difficile a quelle quote. Bargiel ha utilizzato la salita come ricognizione per la discesa ed era già stato sul K2 l'anno scorso, senza riuscire a sciarlo. Nel suo palmarès ci sono le discese della cima centrale del Shisha Pangma, quella del Broad Peak e il Leopardo delle nevi più veloce della storia (la salita delle vette più alte dell'ex Unione Sovietica) in 30 giorni. Bargiel ha anche un passato da scialpinista con un nono posto alla Pietra Menta e un decimo alla Patrouille des Glaciers. Il K2 ha visto la morte nel 2010 dello svedese Fredrik Ericsson, che era riuscito a sciarlo da quota 7.800 metri, negli anni precedenti i tentativi, tra gli altri, di David Watson e Hans Kammerlander, nel 2011 quello di Luis Stitzinger, ma nessuno era mai riuscito a sciare il K2 dalla cima. Ecco il commento sull'impresa pubblicato dal nostro collaboratore Emilio Previtali su Facebook:

Ieri il polacco Andrezj Bargiel ha sciato dalla cima del K2 chiudendo con la sua discesa l'era pionieristica dello sci in altissima quota. Oggi ne leggeremo sui giornali e anche su qualche quotidiano, probabilmente per qualche ora o per qualche giorno lo sci sulle grandi montagne della terra farà parlare di sé, prima di tornare nuovamente nel dimenticatoio della cronaca alpinistica. Per molti appassionati di montagna (anche quelli che in montagna non ci vanno quasi nemmeno e sono invece appassionati dalla cronaca o dalla storia dell'alpinismo e delle imprese, soprattutto quelle del passato) è difficile comprendere il senso profondo di una attività del genere. Per molti l'idea di salire su una montagna di 8000 metri con l'intento di sciarla è priva di senso. Un vezzo stupido, una sfida da clown del circo degna al massimo del Guinnes dei Primati. Sono in pochi a comprendere la dedizione e il coraggio, l'impegno necessario per tentare di realizzare un progetto del genere. Sciare una montagna di 8000 metri è un progetto complicatissimo. Andrezji ha senz'altro il merito di avere approcciato il K2 con determinazione e di avere applicato una serie di soluzioni che rappresentano nella sostanza lo stato dell'arte dello sci ripido, dell'alpinismo in alta quota e della tecnologia oggi disponibile. Ha lavorato con metodo alla scelta della sua linea (che è la combinazione di tre itinerari), alla messa a punto dei materiali, alla strategia di scalata e alla composizione del suo team. In modo innovativo ha effettuato le ricognizioni della via con l'ausilio di un drone. Ma più di tutti probabilmente, più di tutti gli altri che ci hanno provato o che avrebbero voluto farlo, ha creduto nel suo sogno. Anche se alcuni 8000 restano ancora in attesa della prima discesa integrale o della prima senza l'uso dell'ossigeno, da domani lo sci sulle più grandi montagne della terra entra in una nuova era, che non sarà più quella della conquista ma quella della difficoltà, in fondo è la storia stessa dell'alpinismo che si ripete. La meta sarà la via e lo stile utilizzato e non più la cima e la discesa, Marco Siffredi all'Everest con il suo tentativo di discesa all'Hornbein Couloir ci aveva già proiettato in quest'epoca con quasi quindici anni di anticipo. Poi le cose sono andate come sono andate, lo sapete tutti come. Io, nel mio piccolo, sono contento di appartenere alla piccola schiera di pionieri e sognatori che hanno tentato di lasciare la loro effimera traccia su questi giganti. Molti dei miei amici sognatori se ne sono andati strada facendo e vorrei, prima che da dopodomani lo sci sulle montagne di 8000 metri ritorni nel dimenticatoio, ricordarli almeno con un pensiero. Mi mancano, i miei amici. Dentro di me la loro perdita ha creato un vuoto che mi porterò dietro per sempre. Sono certo che oggi, ovunque essi siano, grazie alla discesa di Andrezj, hanno sorriso anche loro. Poi vorrei ricordare gli altri (almeno 3) italiani che hanno tentato di sciare sul K2: Hans Kammerlander, Edmond Joyeusaz e Michele Fait che perse la vita nel 2009 sciando sulla via Cesen. Voglio anche aggiungere che mai come in questi anni ci sono in attività un grandissimo numero di sciatori-alpinisti italiani che hanno realizzato discese bellissime e di grande stile in tutto il mondo, le ultime della lista quelle di Enrico Mosetti alla Carolina Face in Nuova Zelanda e quella recentissima di Cala Cimenti e Matthias Koenig al Laila Peak, una delle montagne esteticamente più belle del pianeta. Io conservo sempre il sogno di aprire SportWeek o la Gazzetta un giorno e continuare a sognare leggendo delle loro avventure. Intanto per Andrezj, hip-hip-hurrà.


Arriva al cinema L’ultima discesa

Domani esce nelle sale cinematografiche italiane L’ultima discesa (6 Below), film tratto dalla storia vera del campione di hockey su ghiaccio canadese Eric LeMarque e dal suo libro (che in Italia è titolato come il film ma nella versione originale è Crystal Clear), appena pubblicato da Sperling & Kupfer. Dopo Everest, uscito nel 2015, ecco un altro film hollywoodiano che affronta le tragedie della montagna. Nel cast del film diretto da Scott Waugh (Need for SpeedAct of Valor) e realizzato con il nuovo formato panoramico Escape, troviamo Josh Hartnett (Penny DreadfulSlevin - Patto criminale, Black Dahlia), la vincitrice dell’Oscar Mira Sorvino (La dea dell’amore) e Sarah Dumont (The RoyalsManuale scout per l’apocalisse zombieDon Jon).

LA STORIA - Eric LeMarque (Josh Hartnett), un ex giocatore di hockey professionista, nel 2004, dopo aver causato un incidente automobilistico, fugge sulle montagne nei pressi della località sciistica di Mammoth Mountain, in California, in cerca di adrenalina con lo snowboard. Dovendo fare i conti con una dipendenza da metanfetamine e una vita che gli sta sfuggendo di mano, Eric decide di prendersi un giorno per staccare, ignorando i numerosi avvertimenti sull’imminente arrivo di una tempesta. Durante una forte tormenta di neve, LeMarque si allontana dalla pista perdendo l’orientamento. Nessuno sa che si è perso, nessuno sa dove si trova. È completamente solo. In un primo momento il campione non si rende conto di quanto la situazione sia disperata e cerca di trovare un riparo e dell’acqua. Le sue condizioni precipitano quando è inseguito da un branco di lupi e precipita in un lago ghiacciato. Intanto Susan (Mira Sorvino), la madre di Eric, intuisce che qualcosa non va e inizia a ripercorrere i movimenti del figlio. Con l’avanzare del congelamento e la continua lotta per la sopravvivenza, Eric è costretto a mangiare la sua stessa carne, mentre la preoccupazione della madre porta a mettere in atto un disperato tentativo di salvataggio, anche se la squadra di recupero pensa che sia ormai troppo tardi. Quando Eric si rende conto dell’arrivo dei soccorsi, la sua unica chance di farsi localizzare è arrampicarsi su una parete rocciosa alta 1.300 metri, ma il suo corpo inizia a cedere. Alla fine ce la farà ma perderà le gambe.

MESSAGGIO SICUREZZA - Si può discutere sulla fedeltà del film al libro di LeMarque, che sembra essere più spirituale e racconto della rinascita di un uomo, mentre il film è basato soprattutto sull’incidente e la mera lotta per la sopravvivenza. Si può discutere, come hanno fatto alcuni giornalisti anglosassoni, sul fatto che Mira Sorvino, la madre, ha in realtà solo 11 anni in più di Josh Hartnett, che nel film interpreta il figlio (allo stesso tempo però i colleghi di lingua inglese riconoscono il realismo delle scene in montagna e la grande prova dello stesso Hartnett che si è preparato a lungo per affrontare le riprese in un ambiente difficile). Quello che emerge però è il messaggio che L’ultima discesa manda al grande pubblico, se è vero che anche per promuovere il film è stato diffuso un testo che approfondisce la tematica della sicurezza e dell’attrezzatura che non puoi mai mancare fuoripista. Le tristi notizie dello scorso fine settimana rendono di stretta attualità l’incidente di LeMarque, avvenuto nei pressi di una località sciistica. Il modo migliore per affrontare la montagna e la neve in sicurezza, dopo essersi informati sulle condizioni atmosferiche e del manto nevoso, è uscire sempre con la giusta attrezzatura, anche a due passi dalle piste, anche se può sembrare esagerato. Artva, pala, sonda, ma anche casco, cellulare carico, eventualmente Avalung o zaino airbag sono compagni salvavita. E poi è fondamentale sempre informare qualcuno della propria attività. Regola che vale anche per il grande outdoor estivo, come pure quella del telefonino. Se L’ultima discesa sensibilizzerà qualcuno dei frequentatori meno esperti della montagna, ben venga. Se poi qualcuno vorrà leggersi anche il libro, scoprirà una storia di speranza anche nel buio più assoluto di una vita precipitata nel vortice della droga. Una storia di rinascita, a ben vedere come quella di A un soffio dalla fine, scritto dal patologo americano Beck Weathers - al quale si è ispirato il regista di Everest - che dopo essersi salvato ha scoperto di avere perso tante cose (una mano, parte del naso…), ma di avere recuperato la sua famiglia e una vita che stava uscendo dai binari.


Mammut Elements, quattro clip per raccontare il rapporto degli atleti con la neve

Lo senti ancora il richiamo della natura? È questo lo spirito del progetto Mammut Elements, quattro cortometraggi nei quali gli atleti italiani Mammut - Mattia Felicetti, Martin Dejori, Alex Walpoth, Filip Schenk e Michael Piccolruaz – raccontano il rapporto con il ‘loro’ elemento.

©Thomas Monsorno

RUMORE BIANCO - «Un fiocco di neve riecheggia come il silenzio sul silenzio. Mille sfaccettature e la solita reazione di stupore veste il paesaggio, arricchisce il mio sguardo e rapisce la mia mente. Quel silenzio rallenta il tempo e lo fa suo. Io sono ospite della montagna: busso e mi ci immergo. Energia e polvere. Annego in quei fiocchi, cavalcandone la perfezione». Il primo episodio, Rumore Bianco (White Noise) racconta l’atleta Mattia Felicetti, maestro di sci della Val di Fiemme e atleta del Freeride World Qualifier. Anzi forse sarebbe più corretto dire che è lo stesso Mattia a raccontarci il suo elemento, fondendosi in esso, nello stesso modo in cui i fiocchi di neve si sciolgono nell’acqua che una volta che vi si appoggiano. Scientificamente il White Noise identifica una certa frequenza dell’udibile, una frequenza talmente particolare da collegarsi per una frazione di tempo e spazio con la stessa con la quale la neve cade e dipinge il paesaggio a proprio piacimento. È chiamato bianco per analogia con il fatto che una radiazione elettromagnetica di simile spettro all'interno della banda della luce visibile apparirebbe all'occhio umano come luce bianca, come la neve appunto. Lo stesso Mattia dice: «Ho iniziato a sciare a tre anni e a fare gare a sei. L’amore per lo sci in neve fresca è scattato immediatamente, tanto che il mio maestro di sci di allora faceva fatica a tenermi a freno. La passione per la montagna è andata a evolversi in altri sport come l’arrampicata e highline, ma lo sci è sempre stato parte inscindibile del mio essere».

©Thomas Monsorno

Mammut Elements è un progetto 100% made in Italy. Il tutto viene raccontato con la voce di Ivan Pavlovic e le immagini del film-maker Matteo Pavana e del fotografo Thomas Monsorno.

©Thomas Monsorno

È Igone Campos la vincitrice del contest Mountopia di Dynafit

Scoprire i paesaggi selvaggi dell’Alaska sia sugli sci da alpinismo che con le scarpe da running. Questa la mission della ventiseienne spagnola Igone Campos, vincitrice dell’edizione 2018 del contest What’s your Mountopia? Promosso da Dynafit con i partner Gore e PrimaLoft. Igone era una delle dieci finaliste e ha conquistato sia la giuria tecnica che la community. La spagnola progetta di trascorrere diverse settimane negli Stati Uniti in primavera e nell’estate del 2018, per scoprire il territorio, a volte da sola, in altri momenti in compagnia di un amico, senza mai perdere di vista l’obiettivo ultimo del suo viaggio: la scalata dei 6.190 metri del Denali, il monte più alto del Nord America, una delle famose Seven Summits. Dynafit e i partner Gore e PrimaLoft sosterranno il progetto dell’insegnante mettendo a sua disposizione budget e attrezzatura idonei all’avventura. L‘atleta Dynafit Javier Martín de Villa le starà accanto con la sua esperienza e i suoi consigli per un allenamento efficace.

INZIATIVA DI SUCCESSO - Circa 500 partecipanti da 26 diversi Paesi hanno risposto all’appello presentando i loro progetti. Dopo la prima selezione da parte della giuria tecnica i dieci finalisti si sono contesi per dieci settimane, fino all’8 gennaio, i voti della community digitale, mostrando con l’aiuto di immagini e video tutta la loro motivazione e la strada verso il proprio sogno. Nella prima edizione era stato l’americano Christopher Mohn a vincere e portare a termine con successo la sua Mountopia, la Tenzing Hillary Mount Everest Marathon.

E NEL 2019? - Mentre Igone Campos si prepara per l’Alaska, Dynafit è già pronta a lanciare la prossima edizione di Mountopia. Il 14 maggio si apriranno le iscrizioni, questa volta con modalità diverse. Nell‘estate 2018 per la prima volta sarà Dynafit, al motto Your Mountopia is our mission a presentare un progetto per il quale gli utenti potranno candidarsi. Tutte le informazioni, e naturalmente, la Mountopia, saranno rese note in aprile.

A questo link il film che racconta la Mountopia di Christopher Mohn

 

 


Ecco i vinvitori del Blogger Contest 2017

Si è appena chiusa la sesta edizione del Blogger Contest di Altitudini.it, un contest letterario/artistico del quale Skialper è partner. Erano 60 le unità multimediali ammesse (su un totale di 67 candidature complessive). Tra tutte le opere sono stati selezionati 27 autori che hanno concorso per la fase finale (comprese 5 audiostorie, la novità di questa edizione). Durante il mese di dicembre 2017 sono state esaminate le 27 unità multimediali finaliste da parte della giuria di premiazione composta da Sandro Campani (scrittore e camminatore), Ida Harm (artista, pittrice e fotografa), Fabio Palma (alpinista), Silvia Boschero (giornalista e conduttrice radiofonica ) e Lea Nocera (autrice radiofonica e blogger). La giuria attraverso l’applicazione di quattro criteri di giudizio (coerenza al tema del concorso; qualità del testo o dell’audiostoria; qualità delle immagini; qualità del blog personale), ha decretato vincitori.

COSA È - Da sei anni la redazione di altitudini.it organizza un confronto nazionale fra blogger, o meglio tra chiunque per passione o professione scrive su un proprio diario digitale o su una rivista online. Ad oggi vi hanno partecipato oltre 300 autori. Ogni anno viene proposto un tema (quest’anno il tema era Liberi di sbagliare, preso dal celebre racconto Ferro di Primo Levi in cui l’autore descrive l’esperienza vissuta in montagna con Sandro Delmastro come «la carne dell’orso») e il blogger è invitato a presentare una unità multimediale (un testo di 600 parole, tre foto e il blog dove normalmente scrive) che verrà valutata da una giuria. Per questa composita natura il Blogger Contest non è assimilabile a un concorso letterario e infatti la giuria valuta tutti i contenuti dell’unità multimediale assegnando ad ognuno specifici punteggi. Ma indipendentemente dalla classifica lo spirito del Blogger Contest è di far emergere dalla vastità della rete, esperienze e pensieri in forma di racconti e di creare una connessione fra persone che coltivano la medesima passione per la scrittura, non solo online.

 

Immagine tratta dal primo racconto classificato, di Eva Toschi

I VINCITORI - Al primo posto Eva Toschi con Sopravvivenza, seguita da Marco Battistutta con White Out e da Saverio D’Eredità con Due Solitudini. È stata inoltre premiata l’audiostoria La Volta Armata di Gianluca Stazi.

LE MOTIVAZIONI - «C’è una tensione che accomuna i tre racconti premiati, e altri molto belli fra quelli pervenuti - ha detto Sandro Campani, presidente della giuria ‘racconto breve’ -. Una tensione che scaturisce dalla messa in gioco di se stessi, nella Natura: la necessità di fidarsi dell’incerto, di accollarsi responsabilità a cui si teme di non poter far fronte, ma che pure non si possono evitare; e allora è come se qualcosa di cui non sospettavamo la presenza in noi, venisse in soccorso; uno sguardo di un altro livello, lucido, rarefatto, ghiacciato, forse incosciente. Non si tratta semplicemente di avventura: lì stava forse la difficoltà del tema scelto quest’anno per il contest, e i partecipanti, spesso con risultati notevoli, hanno accolto la sfida, travalicando l’avventura, o la disavventura, per arrivare a un punto in cui, sospesi, ci si specchia nei propri limiti, ci si soppesa, e ci si trova mancanti, e si trovano le forze per passare oltre; il corpo si blocca, le mani agiscono da sole; si diventa osservatori di se stessi, e si vede se stessi, quasi con stupore, andare oltre - e quando il pericolo è scampato, ci accorgiamo che siamo stati più consapevoli di quanto avessimo creduto: ecco il sapore della carne dell’orso».

Immagine tratta dal terzo racconto classificato, di Saverio D'Eredità

«Per la prima volta il Blogger Contest ha incluso le audiostorie tra le opere candidabili. Audiodoc, l’associazione italiana di audiodocumentaristi, ha accolto con favore e grande interesse questa decisione della Redazione Altitudini - ha detto Leo Nocera, presidente della giuria ‘audiostorie’ -. L’utilizzo di materiali sonori, il ricorso allo strumento audio e la scelta di usare suoni e voci per le narrazioni, anche grazie alla diffusione della strumentazione tecnica e alle possibilità offerte dalla rete – arricchiscono oramai i siti web e i blog; Altitudini, scegliendo di integrare questo formato, mostra di seguire con attenzione l’evoluzione dei blog e dei siti web, valorizzando il racconto nelle sue diverse forme, non più solo attraverso immagini e scrittura. Al concorso sono state presentate cinque audiostorie, un numero di gran lunga inferiore rispetto alle storie scritte che però sulla base di diverse considerazioni - novità del concorso, specificità del tema, maggiore complessità dal punto di vista tecnica e minore possibilità di improvvisazione - lascia comunque pensare a un esperimento riuscito, da ripetere e promuovere nelle edizioni successive».

PREMI SPECIALI

Premio Skialper

Matteo Pavana / ALDO

Vincenzo Agostini / PARETE SUD

Angelo Ramaglia / LA STORIA DI E E T

 

Premio special Adventure Awards Days

Alessandra Longo / LIBERA I PIEDI, LA MENTE SEGUIRÀ

Federico Rossetti / LIBERI DI SBAGLIARE, LIBERI DI (NON) VOLARE

Francesca Nemi / QUELLA TRAGEDIA CHE PORTI CON TE

 

Premio speciale SALEWA Get Verical

Mariolina Cattaneo / IL GIORNO DELLA MARMOCCHIA

 

Premio AKU

Carmine De Ieso e Alessio Salvini (Centro Sperimentale di Cinematografia, Abruzzo) / LA PARETE NORD DEL MONTE CAMICIA