AlpFrontTrail, da Grado al Passo dello Stelvio di corsa per non dimenticare

Il 10 ottobre 1920 l’Alto Adige venne formalmente annesso all’Italia. Cento anni dopo quattro team internazionali, ciascuno composto da due atleti di spicco, tra il 6 e il 14 ottobre percorreranno il confine storico tra Italia e Austria. Affronteranno 850 chilometri e un dislivello di 55.000 metri. AlpFrontTrail, questo il nome dell’iniziativa, non è solo un evento sportivo. Attraverso lo sport il confine, un elemento che separa, si trasforma in un’esperienza che lega e viene tenuto alto il valore della libertà. «Correre è una cosa che chiunque può fare, indipendentemente dalla nazionalità, dal colore di pelle o dalla religione. Per correre non serve un’attrezzatura costosa e lo si può fare ovunque» ha detto Philipp Reiter. Il trail runner e videomaker ventinovenne originario di Bad Reichenhall (Baviera) ha avuto, insieme al fotografo altoatesino Harald Wisthaler, l’idea dell’AlpFrontTrail, che prenderà il via martedì 6 ottobre con la prima tappa da Grado al santuario di Castelmonte.

Il percorso toccherà poi Sesto passando per la Val Canale e Tarvisio, da lì proseguirà per Arabba e Grigno fino a raggiungere Riva del Garda, da cui sarà percorsa l’ultima parte che, affrontando il passo del Tonale e l’Ortles, raggiungerà infine il Passo dello Stelvio. «Parteciperanno Anton Palzer, Daniel Jung, Eva Sperger, Jakob Hermann, Martina Valmassoi, Hannes Perkmann, Marco De Gasperi, Ina Forchthammer e Tom Wagner: alcuni tra i migliori trail runner al mondo. Inoltre ci sarà anche l’olimpionica del biathlon Laura Dahlmeier» ha spiegato Wisthaler. L’iniziativa è sostenuta, tra gli altri, da Suunto e della zona  turistica delle 3 Cime/3 Zinnen in Alta Pusteria.

© Wisthaler

Poker di novità Scarpa per il trail running

Sono state presentate lo scorso fine settimana agli Outdoor & Running Business Days, sul lago di Garda, le novità trail running di Scarpa per la prossima primavera-estate. L’arrivo di Marco De Gasperi ha da subito rimescolato le carte con ben quattro prodotti nuovi o rinnovati, nell’ottica di un allargamento dell’orizzonte di utilizzatori e di una sempre maggiore attenzione al pubblico femminile e all’ambiente. La ricerca continua di materiali ha permesso a Scarpa di introdurre per la prima volta in alcune calzature da trail running il Pebax Renew. Si tratta di un materiale ecologico derivato dalle piantagioni di mais, che rispetta l’ambiente e che permette di rielaborare una proposta di prodotti per i consumatori più attenti alle tematiche di sostenibilità.

I nuovi prodotti sono GOLDEN GATE, dedicato ai terreni off-road più facili e misti, SPIN INFINITY, per le lunghe distanze, le leggere e performanti RIBELLE RUN per lo sky Running e le SPIN 2.0 per la corta e media distanza.

SCARPA GOLDEN GATE

GOLDEN GATE ATR è il modello di Scarpa dedicato ai terreni off-road più facili misti, compresi tratti asfaltati per la media/lunga distanza, che ben si adatta a varie tipologie di atleti di qualsiasi peso e velocità di percorrenza. La calzata contenitiva e avvolgente, la suola con adattabilità unica sia allo sterrato che all’asfalto e una combinazione fra leggerezza e ammortizzazione e stabilità fa di questa calzatura un prodotto trasversale nel mondo del trail Running, che va dall’urban trail anche in città fino ai percorsi montani. La GOLDEN GATE ATR è sviluppata pensando sia a chi si avvicina al trail running che agli esperti che non vogliono rinunciare ad una scarpa affidabile e comoda per i propri allenamenti quotidiani. Il peso è di 260 gr e il drop di 4 mm.

SCARPA SPIN INFINITY

SPIN INFINITY modello dedicato alla lunga distanza. Le caratteristiche di stabilità, ammortizzamento e controllo la rendono perfetta per l’allenamento e le gare di ultra trail per atleti che richiedono una scarpa comoda e stabile. La combinazione di una forma precisa e avvolgente che consente maggior libertà nell’area dell’avampiede, una tomaia leggera e traspirante, una suola a doppia densità che garantisce il giusto ammortizzamento ed elevato controllo del piede e un battistrada ad alta aderenza, trazione e stabilità rendono questo prodotto molto trasversale oltre che un fedele alleato oltre la maratona off-road, sia in competizione che in allenamento. Punti di forza che rendono la SPIN INFINITY preferibile rispetto alla concorrenza sono la tecnologia Vibram MegaGrip e l’efficienza di un cushioning molto performante che abbina stabilità del piede. Il peso è di 305 gr e il drop di 4 mm.

SCARPA RIBELLE RUN

Il modello di scarpa da trail running dal look aggressivo e accattivante che deriva dal prodotto di grande successo della famiglia di calzature da montagna. Leggera e performante, rivolta ad atleti di peso medio/leggero per il trail e skyrunning di breve/media distanza su qualsiasi grado di difficoltà e tipologia di terreno. La combinazione di una forma studiata per avvolgere il piede, una tomaia ultra leggera e traspirante con rinforzi termosaldati e una suola ad alta aderenza, trazione e stabilità sui terreni molto sconnessi rendono questo prodotto un punto di riferimento per chi ricerca la precisione assoluta nelle proprie uscite di corsa outdoor, specialmente qualora i terreni più tecnici impongano una spiccata capacità di adattamento. Il Peso è di 285 gr, il drop di 4 mm.

SCARPA SPIN 2.0

SPIN 2.0 è il nuovo modello dedicato al trail/skyrunning per la corta e media distanza, votato alla performance sia sui sentieri facili che su quelli più tecnici. Introduce nel mondo del trail running il PEBAX RNEW, materiale ecosostenibile di derivazione naturale con elevate caratteristiche di ammortizzazione e durabilità. La combinazione di una forma precisa ed avvolgente, una tomaia ultra leggera e traspirante e la nuova suola performante in PEBAX RNEW rendono questa scarpa un nuovo punto di riferimento per la categoria delle leggere. Punto di forza è il materiale PEBAX RNEW®. Innovativo nel mondo del trail running, ecocompatibile e con elevate caratteristiche di ammortizzamento e durabilità. Il peso è di 255 gr e il drop di 4 mm.


Lettere dai 4.000

Capitolo 1 / Silvestro, la Guida

Mentre scrivo queste riflessioni sono a Courmayeur, è il 26 di giugno e sono trascorsi 45 giorni da quando sono partito con il mio compagno Gabriele Carrara e abbiamo salito la Barre des Écrins. Lo scopo del nostro viaggio era traversare tutti gli 82 quattromila delle Alpi e per farlo avevo calcolato di impiegarci circa 40 giorni. Volevo sapere se in 33 giorni effettivi, con condizioni e meteo favorevole, fosse possibile salire tutte le vette più alte delle Alpi. Per prepararmi ad affrontare questo viaggio ho programmato e portato a termine delle gite che concatenassero, possibilmente con il minimo sforzo, più cime in uniche giornate di scalata. L’incognita era capire se queste tappe fossero state studiate bene e se il mio fisico avrebbe retto. La programmazione del viaggio è stata di per sé un motivo di divertimento e apprendimento. È proprio vero che i viaggi si vivono tre volte: in sogno, nel momento in cui sei lì e nel ricordo. Ad oggi posso dire di essere molto contento perché dopo la prima settimana, quando mi sentivo stanco, ora che sto rientrando da Courmayeur dopo tre giorni passati su e giù per il monte Bianco mi sento riposato. Il mio fisico ha risposto perfettamente agli sforzi a cui l’ho sottoposto e mi stanco molto meno in montagna. Le condizioni meteo di questa primavera sono state pessime, tanto da costringerci a fermarci per ben 18 giorni. Però, essendo riusciti a fare quello che abbiamo fatto con questo meteo, credo di potere affermare che non mi sbagliavo: in 40 giorni alpinisti con il nostro allenamento avrebbero davvero potuto completare senza eccessive difficoltà la salita degli 82 quattromila delle Alpi. Grazie alla nostra sfida ci siamo confrontati con gli altri alpinisti che in passato si sono imbarcati in questo progetto. A differenza di loro abbiamo scelto una stagione ibrida, né estate, né inverno.

In primavera ci siamo mossi tantissimo con gli sci, affrontando il pericolo della neve non ancora assestata e scoprendo che in questa stagione la maggior parte dei rifugi e degli impianti di risalita sono chiusi. L’altra scelta alla base del nostro progetto è stata quella di spostarci in furgone, in compagnia di Werby. Siamo partiti in quattro: io, Gabriele, Tiziano e suo padre. Non abbiamo avuto nessun appoggio logistico, altro aspetto che ci ha distinto rispetto a chi ci ha preceduto. Con il nostro allenamento un avvicinamento di 1.500 metri di dislivello con successivo riposo può essere una passeggiata defaticante, ma quando le funivie erano aperte le abbiamo prese, per ottimizzare i tempi e per rendere i percorsi meno noiosi. In totale le abbiamo utilizzate in cinque occasioni e in due i trenini, quello dello Jungfraujoch nell’Oberland e uno a Chamonix, rientrando dal rifugio Couvercle. In 27 giorni abbiamo fatto 200 ore di attività in montagna. Quando ci si espone così tanto, dei piccoli rischi ci sono sempre e siamo stati fortunati perché non è successo niente e non abbiamo neppure avuto acciacchi fisici rilevanti. Come per il concatenamento delle Ande nel 2018, per ogni cima scalata ho scattato una foto georeferenziata. Sicuramente in una settimana di bel tempo salirò anche le 15 cime che ci rimangono, ma non ora, non ho la giusta motivazione per continuare. Per completarle mi piacerebbe puntare più sulla qualità, per esempio salendo in giornata l’integrale di Peuterey, come ha fatto il mio socio Gabriele, accoppiando la salita di Blanche e Grand Pilier d’Angle. Infine mi piacerebbe portare con me sull’ultima cima, che potrebbe essere lo Zinalrothorn, la mia ragazza per regalare a lei il suo primo quattromila e a me una doppia soddisfazione. Arrivederci, a presto!

Silvestro Franchini

©Silvestro Franchini/Gabriele Carrara

Capitolo 2 / Gabriele, il Berghem

Sono un ragazzo normalissimo, si fa per dire. Ho un fratello gemello e altri due più piccoli. Finito il periodo travagliato delle superiori, ho iniziato a lavorare stagionalmente nei rifugi, passando dal Tosa Pedrotti nelle Dolomiti di Brenta, al Torino e al Monzino sul Monte Bianco. Non basterebbero le parole per spiegare la mia passione per la montagna e ora ho finito il corso Aspiranti Guide alpine del Collegio Lombardia. Credo molto nella forza della natura e della montagna come motivo di salvezza e viaggio dentro di sé. Ritengo l’alpinismo una forma di sano egoismo necessario a conoscere se stessi. I silenzi che questi ambienti ci regalano e gli attimi di solitudine ci permettono di arrivare a un equilibrio interiore. Il nostro è stato un viaggio nato per caso da un messaggio che Silvestro mi aveva mandato più di un mese prima della nostra partenza e che io non avevo visualizzato.

Ci siamo incontrati e lui si era già organizzato, a me non è rimasto che aggregarmi; volevo conoscere parte dell’arco alpino e avevo bisogno di ritrovare un po’ di pace dopo un periodo non facile, pace che i ritmi della società sicuramente non mi avevano aiutato a trovare. Questo viaggio mi ha regalato una bella amicizia e la realizzazione di un grande sogno: attraversare in stile alpino la cresta integrale della Peuterey in giornata, partendo e tornando dal campeggio La Sorgente in Val Veny. Avendo lavorato al Rifugio Torino e al Monzino la vedevo tutte le mattine e la traversata è sempre stata un sogno nel cassetto da realizzare. Su questa affascinante e affilata linea si sono spese e si spendono un sacco di parole, spesso inutili. Sarebbe sufficiente stare in silenzio, chiudere gli occhi per iniziare a sognare il tragitto, facendo il primo passo verso di lei. Per me è stato così.

L’ho osservata e le sono girato attorno parecchi anni, sono serviti altrettanti giorni di ravanate e delusioni lontano da lei per potermi sentire pronto ad affrontarla nel mio stile: in autonomia, in velocità e in compagnia dell’amico Marco Farina. In questa salita non sono stato accompagnato dal mio compagno Silvestro perché per motivi di lavoro era impegnato. Non è una salita qualunque e per affrontarla come volevo era neces- sario un buon feeling, che ho trovato fin da subito con il mio socio. Mi piace pensare che non sia solo una cresta, ma la cresta. Mi piace credere che rappresenti il legame tra la terra e il cielo, tra la realtà e il sogno e quel giorno ero lì a camminare nel mio sogno più grande, accarezzando il cielo, in compagnia di un amico. È stato magico condividere con Marco questo momento. È stato bello fare il giro dei quattromila con Silvestro.

Sembrerà strano ma ho imparato di più dalle 13 cime che abbiamo saltato piuttosto che dalle 69 che abbiamo raggiunto e che si sono concesse. Porterò sempre con me l’insegnamento di saper rinunciare umilmente di fronte alla forza della natura, consapevoli che è la montagna che si concede. A noi non resta che attendere e nel dubbio allenarci. I dettagli del viaggio li ho lasciati raccontare a Silvestro, Guida alpina di Madonna di Campiglio, che in montagna ci è nato e ci vive e sicuramente ha molta più esperienza di me. Io adesso porterò Werby al mare a cercare una bella furgonetta: se la merita. Grazie Alpi, grazie soci! Adesso è ora di aprire gli occhi e pensare a qualcos’altro. Ah! Grazie Werby, sei una roccia. Grazie a tutte le persone che in questi anni ho incontrato e che con la loro umiltà, determinazione e lealtà mi hanno indicato la strada. Sono stati due mesi alla Grande Grimpe.

Gabriele Carrara

©Silvestro Franchini/Gabriele Carrara

Capitolo 3 / Diario: 45 giorni in cresta

di Gabriele Carrara

13 maggio / La prima tappa ci fa capire subito che non sarà per nulla facile: la visibilità scarsa e il vento che soffia forte, abbinati alla neve caduta al suolo nei giorni precedenti, diventano una combo molto pericolosa. Per fortuna, grazie anche all’aiuto del GPS, arriviamo in cima, direttamente con gli sci, prima al Dôme de Neige des Écrins (4.015 m), dove il papà di Tiziano ci aspetta, poi alla Barre des Écrins (4.101 m). Le condizioni sono tutto tranne che facili a causa del verglas. Ambiente selvaggio, montagna vera.

14 maggio / Siamo in direzione del Grand Combin, il vento non molla nemmeno oggi, anzi, sembra voler spingere ancor di più; nella parte alta raffiche a 70 km/h ci fanno perdere un po’ l’orientamento, ma saliamo tre cime: il Combin de Valsorey (4.184 m) dalla Parete Nord-Ovest per poi proseguire verso il Grand Combin de Grafeneire (4.314 m). Purtroppo saliamo anche la cimetta in parte, convinti che sia il Combin de la Tsessette (4.141 m), invece due giorni più tardi ci accorgeremo che è l’Aiguille de Croissaint, sempre un quattromila che però non fa parte degli 82.

Giornata resa molto fredda dal vento e direi anche abbastanza lunga, visto lo sviluppo e il dislivello. Ci toccherà tornare in futuro per una buona gita scialpinistica, del resto sarà una motivazione in più, anche se questo posto di motivazioni per tornarci ne ha ben più di una: magnifico.

15 maggio / Prima giornata quasi rilassante alla Dent D’Hérens (4.171 m). Se si esclude la passeggiata lungo il lago, abbastanza frustrante da fare con gli sci in spalla, si rivelerà una delle mete top, sciisticamente parlando.

16 maggio / Siamo a Pont in Valsavarenche, verso il Gran Paradiso (4.061 m). Niente piani da spingere, poco portage degli sci, in pratica un vertical. Giornata quasi relax se non fosse per la malsana idea di ripartire subito verso Campo Moro, ai piedi del Bernina.

17 maggio / Meteo orribile, nebbia da nausea, neve tutto tranne che bella: Piz Bernina (4.049 m), il GPS funziona davvero, ma a me si rompe lo scarpone. È l’ultima cima fatta insieme a Tiziano e suo papà, per me e Silvestro sarà ancora lunga.

22 maggio / Saliti il giorno prima al bivacco, dopo la pausa per
il maltempo e condizioni pericolose, ripartiamo dal Weissmies (4.023 m). Sempre tanta neve, anzi, più di prima, e far traccia con queste condizioni inizia a pesare anche di testa: per fortuna abbiamo gli sci ai piedi. Poi il Lagginhorn (4.010 m), salito dalla cresta, questa volta a piedi, e affondare fino al ginocchio non è un caso. Nel pomeriggio prendiamo la funivia a Saas-Fee e saliamo a dormire alla Britannia Hütte.

23 maggio / Giornata da incorniciare. Le prime tracce che incontriamo sul nostro viaggio: che goduria non sfondare, ma non durerà molto... La discesa con i nostri sci stretti è da panico, neve cartone. Saliamo così lo Strahlhorn (4.190 m), poi il Rimpfischhorn (4.199 m) e per finire il dislivello positivo di giornata puntiamo diretti dalla west face dell’Allalinhorn (4.027 m). Sarebbe top anche da sciare in discesa, peccato che Werby sia dalla parte opposta e allora arriviamo con gli sci ai piedi, sul cosiddetto firn remol, fino a Saas-Fee: discesa altrettanto da sogno.

24 maggio / Altra gita da sogno per ogni scialpinista, se poi si riesce
a trovare anche la powder, beh allora il Bishorn (4.153 m) è una delle gite scialpinistiche più belle dell’arco alpino. Poca fatica, massima resa.

27 maggio / Siamo già al rifugio Couvercle, dove siamo saliti il giorno prima. Ci aspetta una giornatona, la prima un po’ più tecnica. Avvicinamento alle cime con gli sci, ma poi li lasciamo alla base e proseguiamo con picca e ramponi. Saliamo e scendiamo Les Droites (4.000 m), riscendiamo, traversiamo con gli sci e infine li lasciamo alla base del Couloir Whymper, da dove scenderemo a piedi. Saliamo in sequenza l’Aiguille du Jardin (4.035 m), Grande Rocheuse (4.102 m) e Aiguille Verte (4.122 m) per poi scendere a valle e prendere il trenino di Montenvers e raggiungere Chamonix. In cresta troviamo tanta neve, condizioni più che invernali e... appena il sole scalda meglio, togliersi dai pendii! Una volta a Chamonix basta la sfida a chi mangia il panino più grosso e una sola birra per collassare tra le lamiere di Werby e svegliarsi il giorno dopo sotto l’ennesima pioggia primaverile.

30 maggio / Il meteo oggi ci grazia. Le condizioni sarebbero
da powder day con un palettone sotto i piedi, altro che scarponi
e ramponi sulla Dent Blanche. Ieri il GPS è stato utile: tre ore per arrivare al bivacco della Dent Blanche nella nebbia, bufera con visibilità a 10 metri: uno schifo. Oggi 20 metri di kevlar, qualche moschettone e cordino, ramponi, due piccozze e via a fare la king of ravanage del nostro viaggio. Se la salita è impegnativa, la discesa sarà abbastanza da panico. Saliamo dalla cresta della via normale fino alla Dent Blanche (4.357 m): panorama tra i più belli di tutte le Alpi. Non scendiamo dalla cresta, da dove siamo saliti, perché le parti più ripide dove abbiamo dovuto scalicchiare risulterebbero troppo laboriose per calarci e non abbiamo molto materiale a disposizione. Scendiamo dalla parete Ovest. In certi punti c’è neve fino al bacino, per fortuna fa freddo, il pendio è stabile e, recuperati gli sci, ci godiamo le discese polverose con ampi curvoni verso Ferpècle e, con la solita oretta di portage degli sci sullo zaino, rientriamo da Werby.

31 maggio / Siamo a Zermatt da ieri pomeriggio e questa mattina prendiamo la funivia del piccolo Cervino. La tecnica è sempre la stessa: sci dove si può e ravanage dove gli attrezzi rimangono sulle spalle. Partiamo dal Breithorn Occidentale (4.165 m), per poi proseguire sempre sul filo di cresta dove, tolte le normali sulle cime classiche, di tracciato non c’è nulla e così testa bassa e tritare. Passiamo dal Breithorn Centrale (4.160 m), Breithorn Orientale (4.141 m), Gemello del Breithorn (4.106 m), Roccia Nera (4.075 m), Polluce (4.092 m), Castore (4.228 m), punta Felik (4.087 m), Lyskamm Occidentale (4.481 m), Lyskamm Est (4.527 m) per arrivare verso pomeriggio-sera alla Capanna Gnifetti.

1 giugno / Partiamo presto perché di neve ce n’è ancora parecchia
ed è meglio muoversi nelle ore meno calde. Si comincia dalla Punta Giordani (4.046 m), proseguendo per la Piramide Vincent (4.215 m), Corno Nero (4.322 m), Ludwigshöhe (4.342 m), Punta Parrot (4.436 m), Punta Gnifetti (4.554 m). Sembra davvero una collezione di figurine vista la facilità nel percorrerle, ma per fortuna dalla Punta Zumstein (4.563 m) alla Grenzgipfel (4.618 m) e Punta Dufour (4.634 m) cambia il terreno, che diventa più tecnico e, dovendo batter traccia, la motivazione risale. L’ultima cima di giornata è la Nordend (4.612 m) che dobbiamo salire dal pendio Nord-Ovest perché i crepacci sulla via normale sono troppo aperti e alcune Guide ci hanno detto che son tornate indietro. Ora non ci resta che goderci un’altra sciata, almeno fin dove si riesce.

3 giugno / Inizia davvero a fare caldo, ieri siamo saliti in bivacco, oggi alle tre di mattina siamo già in marcia verso il Weisshorn (4.506 m), uno dei quattromila più classici ed estetici delle Alpi.  Di notte non c’è più rigelo, lo zero termico è sopra i 4.000 metri
e dobbiamo muoverci senza sci, si fa una gran fatica. Serve solo pazienza, di certo non si può pensare di essere veloci, ma allo stesso tempo anticipare le ore di sole, muovendosi di notte, è l’unica opzione. Basta dire che alle otto di mattina, tornando verso valle,
la neve è già marcia e a quote intorno ai 4.000 si sprofonda fino
al bacino. Il pomeriggio siamo dall’altra parte del versante e con
la funivia arriviamo alla stazione intermedia del Piccolo Cervino
per dormire e dirigerci il giorno dopo verso la Gran Becca.

4 giugno / La notte ha piovigginato e il cielo nuvoloso non ha indurito la neve, un calvario fino al rifugio Hörnli. Si sprofonda su una crosta che, a forza di battermi negli stinchi, fa male. Il rifugio è ancora chiuso, allora entriamo nel locale invernale dove io cerco di riprendermi un attimo, oggi sto davvero male. Per fortuna la cresta dell’Hörnli è ben pulita e in poco raggiungiamo la cima del Cervino (4.478 m). Il nostro progetto inizia a prendere forma, da qui riusciamo a identificare gran parte delle cime salite, dal Monte Rosa, alle vette sopra Zermatt, il Combin, la Dent d’Heréns, il Weisshorn, lo Zinalrothorn e l’Obergabelhorn, dove tenteremo di salire domani mattina.

5 giugno / Rinunciamo all’ Obergabelhorn per condizioni davvero troppo pericolose:
sempre più caldo e ancora troppa neve. Più lontano si vede il Monte Bianco, là ci sono le gite che mi hanno dato la motivazione in tutto il nostro viaggio e presto sarà il loro momento.

17 giugno / Riprendiamo il viaggio lasciando Werby a Fiesch e prendendo il trenino rosso, che in cinque ore tra attesa e viaggio
ci porta allo Jungfraujoch. Centosettanta euro a testa di biglietto:
a questo giro le cime da salire hanno un sapore più costoso. Si passa da Grindelwald. Saranno le nostre ultime cime con gli sci d’alpi- nismo, una volta scesi dal trenino si sale prima la Jungfrau (4.158 m) e poi il Mönch (4.105 m). Se gli altri giorni, tolte le due giornate al Monte Rosa e quella a Zermatt, dovevamo tracciare e non abbiamo incontrato nessuno, qui di gente ce n’è anche troppa.

18 giugno / A mezzanotte suona la sveglia, la luna è quasi piena, tutto stellato, il top. Dal rifugio Mönch mettiamo gli sci verso valle
e su questi immensi ghiacciai per ben 10 minuti non facciamo nemmeno mezza curva; ci lasciamo trasportare dai nostri sci su lievi pendenze, solo il rumore delle solette che sfregano sulla neve dura e i giochi di ombre che la luna crea, non un filo di vento. Arrivati all’attacco della prima salita, iniziamo a togliere metri positivi a una giornata abbastanza lunga: prima il Gross Grünhorn (4.044 m), Hinter Fiescherhorn (4.025 m), Gross Fieschhorn (4.049 m) e infine l’ultima lunga salita al Finsteraarhorn (4.274 m), altra cima bellis- sima. Non ci resta che andare verso il Concordia, altri 200 metri di salita fino al colle e poi più di 100 metri di dislivello su scale di ferro per raggiungere il rifugio, il calvario finale.

19 giugno / La nostra ultima cima con gli sci cerchiamo di godercela al meglio, è l’Aletschhorn (4.195 m). Gita bellissima e rientro fino
a Fiesch veramente lungo. Sopra il paese prendiamo la funivia che
ci riporta in valle. Se sulle Alpi esiste un paradiso dello scialpinismo, è proprio qui, nell’Oberland Bernese!

23 giugno / Messi gli sci in cantina, siamo finalmente al Monte Bianco. Dal rifugio Monzino, per me il più bello che abbia mai visto, saliamo verso Eccles con l’idea di scalare il Pilier d’Angle e l’Aguille Blanche. Le condizioni sono le solite, si sprofonda, fa caldo anche se, come dice qualcuno in montagna, di caldo non è mai morto nessuno. Il nostro caldo è riferito solo alle condizioni ottimali per muoversi in alta montagna, quindi bisogna variare il programma. Passare sotto il pilone è da follli. Anticipiamo parte della gita del giorno seguente e saliamo al Col Émile Rey per poi salire il Monte Brouillard (4.068 m) e Punta Baretti (4.006 m).

Torniamo infine al bivacco Eccles dove passeremo il resto della giornata a dormire, mangiare e bere, cercando di immagazzinare più energie possibili in previsione dei tre giorni successivi.

24 giugno / Direzione Monte Bianco, la cima più alta del nostro viaggio, e per arrivarci facciamo la cresta del Brouillard passando dal Picco Luigi Amedeo (4.470 m), poi Mont Blanc de Courmayeur (4.765 m) e vetta (4.807 m). Sembra di essere sulle strade dello Stelvio nella stagione di punta, dove di ciclisti ne salgono veramente tanti; uguale, una processione che una volta giunti al Dôme du Goûter (4.306 m) abbandoniamo per dirigerci verso l’Aiguille de Bionnassay (4.052 m). Da qui scendiamo dal rifugio Gonella, verso il Miage.

25 giugno / Siamo sulla cresta più arrampicatoria dei quattromila delle Alpi, l’Arête du Diable: giornata super, granito eccellente, voglia di scalare a bomba e senza accorgercene saliamo in successione Corne du Diable (4.064 m), Pointe Chaubert (4.074 m), Pointe Médiane (4.097 m), Pointe Carmen (4.109 m), L’isolée (4.114 m) e Mont Blanc du Tacul (4.248 m). Qui lasciamo gli zaini e, un po’ veloci, sicuramente più leggeri, procediamo verso il Mont Maudit (4.468 m). Rientriamo poi al rifugio Torino, dove eravamo già saliti il pomeriggio prima con la funivia Skyway.

26 giugno / Ultimo giornatone in compagnia di Silvestro, prima della pausa per impegni lavorativi. A mezzanotte suona la sveglia e, dopo una colazione doc al rifugio Torino, ci dirigiamo verso la prima cima di giornata: Dente del Gigante (4.014 m), proseguendo poi per l’Aiguille de Rochefort (4.001 m) e Dôme de Rochefort (4.015 m). Alle prime luci dell’alba siamo in zona bivacco Canzio, dove saliamo punta Young, poi verso la Punta Margherita (4.065 m), Punta Elena (4.045 m), Punta Croz (4.110 m), Punta Whymper (4.184 m) e per finire la Punta Walker (4.208 m). La discesa è un calvario, eppure non sono ancora le dieci di mattina: neve granita, si sfonda fino al bacino. È impensabile riuscire a sfruttare le giornate a pieno e una volta arrivati in Val Ferret ci fermiamo
e decidiamo che le prossime cime per ora rimangono lì. Consapevoli
di averci provato e di aver imparato tanto, portandoci a casa una bella amicizia ed emozioni che rimarranno per sempre.

©Silvestro Franchini/Gabriele Carrara

Postfazione / Due ragazzi e un furgone

Siete passati dal vento gelido della Barre des Écrins al caldo torrido del Monte Rosa; dalla polvere della Dent Blanche alle creste in condizioni perfette dell’Arête du Diable; dalla selvaggia cresta delle Brouillard al sovraffollamento della cima del Monte Bianco; dalla neve alla roccia, dalle creste ai sentieri, in una primavera strana con le condizioni che vi dicevano di non partire, ma il vostro spirito vi ha spinto a provarci. Vi siete avventurati in luoghi in cui non eravate mai stati, là dove si sono scritte le pagine storiche dell’alpinismo di ricerca. Alla fine ne è nata una bella amicizia oltre che la conoscenza di tutto questo territorio (l’arco alpino e i suoi quattromila) che tanto ci ha dato e tanto continua a toglierci. Avete percorso il tragitto a bordo di Werby, il nostro compagno di avventure: un furgone Volkswagen targato alfa whisky ormai più che maggiorenne, che vanta oltre 300.000 chilometri in giro per l’Italia, dalle Alpi alle coste della Sardegna, sempre con lo stesso spirito randagio. Sono stati 46 giorni di azione e allo stesso tempo di attesa, immersi nella natura più selvaggia delle Alpi, lontani dal turismo dell’alta stagione, lontani dalle comodità che la società ci propone.

Le tappe si sono rivelate più difficili del previsto; il vostro obiettivo non è mai stato un record, ma prendervi il giusto tempo per legare come persone e vivere i momenti con le loro emozioni. Il dover spesso battere traccia, l’aver incontrato poche persone,
il periodo primaverile vi hanno fatto un grosso regalo, quello di potervi sentire parte di questo ambiente misterioso, dove il vento che accarezza le creste sembra narrare le storie di chi prima di voi ha percorso lo stesso tragitto alla ricerca di se stesso. È stato un viaggio all’insegna dell’avventura e della ricerca, legati alla natura
e ai suoi ritmi, alle sue scelte e opportunità. Vi siete fatti ispirare da chi in passato ha avuto il coraggio di avventurarsi in questi luoghi, da chi ha saputo coltivare e condividere le idee e le emozioni di un viaggio così. Avete passato otto notti in rifugio, sette in bivacco e le restanti con il vostro terzo compagno di viaggio, Werby. Si potrebbe anche definirla un’avventura dall’alba al tramonto, sicuramente non facile da gestire.

Ricordo una notte. Eravate ormai alla fine del viaggio, la montagna aveva deciso così. Erano le 4,15 del mattino e vi vedevo dalla finestra della mia camera del Rifugio Torino. Alle prime luci dell’alba si scorgeva la sagoma del Dente del Gigante e le lucine, in prossimità del DÔme du Rochefort, muoversi a fil di cielo in direzione delle Grandes Jorasses. Un altro giorno, esattamente il quarto dalla vostra partenza, tu Gabriele eri felice di essere partito e anche Werby sembrava esserlo. Arrivati in Valgrisenche il clacson ha iniziato a suonare all’impaz- zata. Ricordo ancora la tua voce quando mi hai chiamato per dirmi che avevi tagliato i fili perché non smetteva di suonare. Non ne voleva sapere di tacere. Era un po’ come tu in quel momento: felice di essere in viaggio, alla ricerca di nuove emozioni, alla ricerca della tranquillità. È stato magico condividere tutto questo con voi, passando le notti insonni leggendo i pochi messaggi che mi mandavate. È stato emozionante farmi vivere la vostra avventura. Non sarei mai stato
in grado, ma amo questi luoghi e li osservo tutti i giorni con tanta passione e stupore.

Sono sicuro che i tempi non ve li ricorderete e tanto meno il numero di birrette bevute – troppe per contarle – ma sono certo che rammenterete per sempre chi si mangiava il panino più grande una volta rientrati dalla gita. Come quel giorno che siete arrivati al rifugio Couvercle dopo aver attraversato le Droites, l’Aiguille du Jardin, Grande Rocheuse e Aiguille Verte in giornata, passando dagli sci per tracciare la via nelle neve fresca, agli scarponi per percorrere le creste. Il rifugista vi ha riempito di orgoglio con quella frase c’est pas possible, incredulo della vostra prestazione. È forse da qui, fratello, che è iniziato il tuo vero viaggio alla conquista di quella pace e serenità che sembrava tanto difficile da raggiungere ma che con la tua determinazione sei riuscito a guadagnare. Era il tuo momento e hai saputo sfruttarlo; l’impossibile stava diventando possibile.

Nessuno vi ha obbligato a partire, nessuno vi ha detto di fare questo giro. Avete dimostrato che quello che conta sono i sacrifici fatti negli anni e di averli fatti divertendovi, senza mai perdere la passione per questi luoghi. Forse è questa la cosa che più di tutto vi ha unito. La vostra passione si legge negli occhi e nelle parole, in un periodo in cui i tempi e le prestazioni da record sembrano essere l’unica cosa importante. Siete stati due montanari romantici. Perché se i record sono fatti per essere battuti, le emozioni sono per sempre. Ho amato il vostro stile leggero e veloce. Ho ammirato il vostro incedere oltre la soglia di questi ambienti misteriosi e fragili, cercando di lasciarli incontaminati e senza traccia. Ormai si trovano bivacchi in condizioni vergognose, gente irrispettosa dell’ambiente che li ospita, così maestoso ma allo stesso tempo fragile. Ognuno di noi, nel proprio piccolo, può fare qualcosa ed essere di grande aiuto nella salvaguardia di questi fantastici luoghi. Grazie Silvi per aver condiviso con il mio gemello questo viaggio. Grazie gemello per aver condiviso con me queste emozioni che rimarranno per sempre. Queste non ce le batte nessuno.

Francesco Carrara

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 126

©Silvestro Franchini/Gabriele Carrara

Tor in gamba, 9 atleti amputati sulle alte vie 1 e 2 della Valle d’Aosta

Il singolo non conta, i valori da condividere sono altri. Perché percorrere i 342 chilometri e 24.000 metri di dislivello positivo che uniscono Courmayeur attraverso l’Alta Via n. 1 e n. 2 della Valle d’Aosta sarà un viaggio. Ecco la sostanza di Tor in Gamba, al via il 12 settembre prossimo da Courmayeur, percorso da nove atleti amputati che non saranno mai soli. Accanto a ognuno di loro, atleti disabili, ci saranno un accompagnatore personale e una serie di compagni. Il progetto è nato grazie alla collaborazione tra Team3Gambe, Gamba in spalla e un gruppo di amici.

La partenza di Tor in Gamba avverrà da Courmayeur alle 10 di sabato 12 settembre. I nove endurance trailer e i loro accompagnatori avranno tempo fino alle 16 di sabato 19 settembre per completare le 30 tappe del programma della staffetta. Le trenta tappe del Tor ripercorrono il tracciato già utilizzato al Tor des Géants. Si partirà da Courmayeur – Piazza Brocherel – alle 9 del mattino di sabato 12 settembre e la prima frazione assicura già 1.411 metri di dislivello positivi e 578 negativi nei 12 chilometri di sviluppo. La tappa regina di Tor in Gamba è la numero 8. Il menu prevede 1.624 metri di dislivello positivo e 1.697 negativi per coprire la distanza di 24,5 chilometri che separano Eaux Rousse, nella Valsavarenche, da Cogne.

«Abbiamo studiato le tappe – dice Sergio Enrico, disegnatore del percorso – a misura dei nove atleti amputati che saranno al via. Ma non basta. Ognuno di loro presenta caratteristiche fisiche differenti a seconda dei diversi handicap fisici. L’idea della staffetta nasce dal rispetto delle capacità di ogni atleta che sarà impegnato nell’evento. Alcuni di loro percorreranno tratti più lunghi, altri più brevi, alcuni cammineranno in salita, altri in discesa. I trailer saranno impegnati giorno e notte coprendo, a turno con cambi di staffetta in luoghi messi a punto dall’organizzazione, quattro tappe nell’arco delle 24 ore. La base vita del Tor sarà a Villeneuve, presso l’Hotel des Roses dove gli atleti troveranno massaggiatori pronti a prendersi cura dei propri muscoli, pasti caldi, docce e camere dove riposarsi.

I nove paratleti al via saranno Andrea Lanfri, Cesare Galli, Francis Desandrè, Lino Cianciotto, Massimo Cavenago, Massimo Coda, Salvatore Cutaia, Loris Miloni e Moreno Pesce.

 


Il 20 settembre c'è il Trail degli Eroi

Si avvia al termine l’estate senza gare del trail running. Sono stati pochissimi gli eventi andati in scena, sostituiti da FKT e record personali. A fine mese però quella che è diventata ormai una delle classiche del panorama italiano andrà regolarmente in scena: il Tecnica Trail degli Eroi, che festeggia proprio quest’anno la sua decima edizione. Si corre lungo i principali crinali del Massiccio del Grappa, ricalcando dove possibile i tratti di trincea teatro della Prima Guerra Mondiale e l'Alta Via degli Eroi. Il nome della manifestazione è un omaggio ai protagonisti della Grande Guerra, per una manifestazione che propone un connubio unico e autentico di sport e storia, compreso il suggestivo passaggio presso il Sacrario di Cima Grappa, dove riposano le spoglie di oltre 20.000 soldati caduti su queste montagne. Per il decennale hanno già dato la loro adesione a una delle tre gare in programma gli uomini che hanno formato il podio della prima edizione: il vincitore Mirco Righele, il secondo Fabio Caverzan e il nostro collaboratore Nicola Giovannelli, terzo classificato. Tra i top ci saranno anche Riccardo BorgialliStefano Rinaldi e Riccardo Montani.

L’appuntamento è domenica 20 settembre a Seren del Grappa, in provincia di Belluno, su tre diversi percorsi e distanze:

- Tecnica Trail degli Eroi: 48 km di distanza con 2910 m di dislivello positivo

- Tecnica Sky degli Eroi: 23 km di distanza con 1800 m di dislivello positivo

- Tecnica Ultra degli Eroi: 60 km di distanza con 4110 m di dislivello positivo

Nel pacco gara ci sarà uno scaldacollo molto particolare che, ripiegato in almeno 4 strati, questo fornisce una protezione con efficienza di filtrazione (BFE) elevata, pari al 90% (il valore per essere nella categoria medicale è 95). Indossato come una mascherina gli strati diventano 12, fornendo un grado di efficienza ancora maggiore.

Tecnica sarà presente durante la manifestazione per presentare e far testare ai trail runner presenti Origin, la prima scarpa da trail running con tecnologia C.A.S custom adaptive shape, che consente di personalizzare la calzata in negozio in soli 15 minuti.


De Gasperi e Gerardi stabiliscono i nuovi FKT sul Sentiero Roma

Nuovo FKT sul Sentiero Roma per Marco De Gasperi e Hillary Gerardi del team Scarpa. L’itinerario in quota (54 km 4.500 m D+) collega la Valchiavenna alla Valmalenco e, nel tratto intermedio della Val Masino, ripercorre a ritroso quello del Trofeo KIMA. De Gasperi ha migliorato il precedente primato siglato meno di un mese fa dallo skyrunner di casa Valentino Speziali (8h’42’32”), quello stabilito dall’americana risulta essere a tutti gli effetti il primo riscontro cronometrico di riferimento al femminile.

Marco De Gasperi ha fermato il crono a 7h53’41” Hillary Gerardi a 10h06'41". L’itinerario con partenza da Novate Mezzola e arrivo a Torre Santa Maria viene abitualmente percorso dai trekker in tre giorni e si superano otto passi alpini sopra i 2.500 metri.

«Come scrivevo un mese fa, il Sentiero Roma (da Novate Mezzola a Torre di Santa Maria, in provincia di Sondrio) non è una semplice gita in montagna che può passare inosservata - da scritto in un post su Facebook De Gasperi -. Chi camminando o correndo ne percorre i passi che si affacciano su vallate incredibili non può che rimanere ammaliato da queste montagne! L’amicizia che mi lega a Valentino, il detentore del precedente FKT su questo tracciato, mi rendeva dubbioso se provare a fare questo tentativo o meno. Invece il suo sostegno oggi è stato come sempre disinteressato ed encomiabile, come quello di tanti cari amici che hanno assistito sul percorso sia Hillary Gerardi che il sottoscritto. Grazie Vale, lo skyrunning unisce sempre!».

Hillary Gerardi ©Maurizio Torri

SCARPA riparte dal rebranding

SCARPA annuncia di aver completato il rinnovamento dell’immagine aziendale con il rebranding del marchio. L’identità dell’azienda resta radicata nella lunga tradizione di eccellenza e innovazione del marchio, simboleggiata dal pay-off No Place Too Far, ma ogni elemento visivo è stato migliorato per renderlo più fresco e più vicino ai valori aziendali: dall’ottimizzazione le logo, all’ampliamento della gamma di colori, incentrata su un nuovo tono che evolve il tradizionale colore ottanio dell’azienda. A questo scopo è stato anche sviluppato un nuovo carattere tipografico proprietario, elaborato in una serie flessibile di pesi e varianti.

Questa identità visuale, realizzata insieme a Landor, agenzia leader mondiale nel brand consulting ed experience design, è stata declinata sui principali punti di contatto di SCARPA con i suoi interlocutori: dal packaging al sito, dai cataloghi agli spazi fieristici e aziendali. Il marchio punta a proseguire nella propria espansione internazionale, pur in un momento così difficile per le imprese e l’economia italiana. L’azienda di Asolo vuole riprendere velocemente il percorso di crescita intrapreso negli ultimi anni, puntando sulla forza di un marchio che è diventato sinonimo di qualità e innovazione Made in Italy in tutto il mondo.

«Crediamo fortemente che per ripartire si debba scommettere sul fascino e sulla solidità del nostro brand» commenta Diego Bolzonello, amministratore delegato di SCARPA. «Questo rinnovamento dell’immagine SCARPA ci aiuterà a ritornare presto sul sentiero che abbiamo tracciato negli ultimi anni: crescita sui mercati internazionali, consolidamento delle varie categorie di prodotto e impegno concreto per la sostenibilità ambientale e sociale».

«È sempre difficile andare a toccare l’immagine di un’azienda che, per noi, rappresenta la storia della nostra famiglia» spiega il presidente di SCARPA, Sandro Parisotto. «Per questo raramente ci siamo impegnati in operazioni simili. Stavolta però si è trattato di un aggiornamento necessario, che conserva il meglio della nostra tradizione e la proietta nel futuro: siamo sicuri lancerà SCARPA verso un nuovo decennio di successi e innovazione».


Franco Collé vince lo SwissPeaks Trail

«Non saprei dire se è più dura del Tor des Géants, da valdostano sono ovviamente di parte. Quello che so è che la SwissPeaks davvero tosta e alpinistica. La consiglio a chi ama percorsi di questo tipo. Anche qui le montagne non vengono aggirate, ma scalate una ad una. In certi tratti ci siamo trovati anche 20 centimetri di neve fresca». Sono queste le prime parole di Franco Collé al traguardo dello Swisspeaks Trail 360, la gara di 314 km e 22.500 m D+ partita alla mezzanotte del primo settembre da OberWalp, nel Vallese.
Il valdostano del team Hoka One One, testatore della nostra Outdoor Guide, è arrivato primo ex aequo con lo svizzero Jonas Russi fermando il crono in 62h43’ in quella che era una delle gare più attese di questa stagione povera di traguardi, perché consentiva di confrontarsi sulla ‘distanza Tor’. L'ideatore  dell’evento, Julien Voeffray, un decimo e un quindicesimo posto al Tor des Géants, ha riproposto nel proprio paese una competizione simile con molti passaggi a quota 3.000, diversi dei quali tecnici in luoghi selvaggi… una vera e propria avventura. Qualche novità anche per lo SwissPeaks Trail nel 2020, che quest’anno, causa Covid, è andata in scena su una distanza minore. Nonostante la riduzione chilometrica a rimescolare le carte in tavola è stato il meteo che ha messo i concorrenti di fronte a pioggia battente e neve. C’è ancora Italia sul terzo gradino del podio, con Andrea Mattiato, che ha tagliato il traguardo con poco meno di otto ore di ritardo dai due battistrada.


I due quattromila di Fernanda Maciel

In questa estate 2020 senza (o quasi) gare non passa giorno senza un nuovo FKT (fastest known time). È così per gli atleti top, ma anche per chi sta nel gruppo. Ed è una strategia che funziona per runner e sponsor, anche più delle vittorie alle gare, almeno in termini di visibilità, se si considera che Pau Capell durante il suo tentativo di record in solitaria sul percorso dell’UTMB ha guadagnato 7.000 follower Instagram in 20 ore. C’è però una trail runner che, superata la soglia dei 40 anni, non si ferma e ogni anno continua a proporre fastest known time ed exploit che hanno nella creatività e originalità la loro ragione d’essere. Fernanda Maciel, brasiliana di Belo Horizonte, la ricordano in tanti per i podi nelle gare più importanti, dalla Transgrancanaria alla Lavaredo Ultra Trail, ma la ricordiamo soprattutto per quello che ha fatto oltre i podi. Come non dimenticare il Cammino di Santiago corso in 10 giorni, oppure i fastest known time sull’Aconcagua e sul Kilimanjaro?

Eppure Fernanda non si arrende e anche in questo pazzo 2020 ha lasciato il suo segno con un’impresa che, andando oltre tempi e numeri, fa discutere. Lo scorso 20 agosto ha migliorato il suo fastest known time sul percorso da Pont (1.879 m) alla vetta del Gran Paradiso (4.061 m), chiudendo il giro in 4h03’ (2h40’ la salita) e migliorando di circa un’ora il crono. E fin qui è un risultato notevole ma che va ad aggiungersi a tanti altri. Però, scesa in valle, la Maciel è salita su un’auto per Cervinia e ha raggiunto, nella stessa giornata, il Cervino. Al Cervino non ha corso contro il tempo, ma contro i propri fantasmi e le proprie paure. Qui infatti nel 2017 aveva dovuto rinunciare per un problema agli occhi e l’anno scorso ha perso l’amico argentino Gonzalo.

«Ero pronta per la sfida, ma il blocco era mentale e sono arrivata quasi a cancellare il progetto due giorni prima - ha detto Fernanda - Alla fine ho deciso di provarci, di farlo passo dopo passo, concentrandomi sul presente e senza pensare a quello che c’era dietro e davanti. E così sono arrivata in vetta e ho pianto. Non conquistiamo le montagne, conquistiamo noi stessi»


L'UTMB in solitaria di Pau Capell in 21h17’18’’

L’obiettivo era scendere sotto le 20 ore e sotto quel 20h19’ dell’ultima edizione della mitica corsa attorno al Monte Bianco, vinta proprio da Pau Capell. Breaking 20 come il Breaking 2 della maratona. La partenza della corsa in solitaria di Pau Capell per correre attorno al Monte Bianco (accompagnato da un piccolo team di supporto a tutela della sua salute e della sicurezza) avrebbe dovuto essere venerdì pomeriggio, come all’UTMB, poi il meteo ha fatto anticipare tutto di un giorno, con il via alle 18 di giovedì. Per seguire l’impresa e la progressione di Pau c’erano anche una piattaforma e le telecamere della televisione catalana. 171 km e più di 10.000 metri chiusi alla fine in 21h17’18’’ (tempo da podio). La barriera delle 20 ore non è stata battuta, ma Capell al traguardo era comunque soddisfatto: «È stato davvero incredibile riuscire a correre quest’anno, sicuramente una delle esperienze più belle della mia vita. È stato un anno davvero difficile per tutti e il supporto che ho ricevuto da moltissime persone in tutto il mondo è stato stupendo. Per il momento mi concederò un po’ di riposo, dedicandomi alla mia famiglia. Non vedo l’ora di scoprire cosa mi riserverà il futuro». Capell ha corso con ai piedi le nuove The North Face Flight Vectiv, in vendita da gennaio.

©UTMB/Mathis Dumas

Translagorai Classic FKT Run

«Translagorai Classic FKT Run nasce in modo piuttosto semplice. Ordino 50 adesivi pagandoli a mie spese e decido che sono il premio per chi arriva in fondo alla traversata in meno di 24 ore. Servono a rendere l’idea che se sei a caccia di un riscontro materiale importante è meglio che aspetti che ricomincino le gare.
Attenzione, la Translagorai esiste da sempre come percorso, io non ho inventato assolutamente nulla. Esisteva la traccia e, intuendo da ciò che in molti mi hanno scritto, in tanti hanno un cugino o un conoscente che aveva già stampato un tempo strabiliante.
Però mancava l’ufficialità, ma soprattutto qualcosa che rendesse questa traversata un vero FKT, un percorso condiviso, ripetibile e che facesse sognare anche i non local. Abbiamo quindi creato la traccia cercando di individuare il concatenamento che avesse più logicità e linearità per chi lo avrebbe voluto ripetere in futuro. Possiamo dire che è uno standard collaudato, non esclusivo, e ovviamente aperto alla creatività personale di ognuno».

… E poi Francesco Paco Gentilucci e altri otto trail runner sono partiti una sera di metà luglio da Passo Rolle per farla in meno di 24 ore questa Translagorai.

«Per me era la terza volta su questo percorso e non ero mai riuscito ad arrivare in fondo nell’arco di una giornata sola. Il nostro obbiettivo è quello di creare un archivio degli intertempi, di consigli per chi vuole ripeterlo, oltre alla salvaguardia di questo posto che è perfetto così, nella sua imperfezione. In un FKT è giusto avere una visione diversa da quella che si ha su un percorso tracciato con le fettucce di una gara, senza pubblico e senza materiale obbligatorio: insomma, devi arrangiarti».

© Elisa Bessega

Il Lagorai è una delle ultime zone selvagge delle Alpi. Lungo il percorso si incrocia un solo rifugio con pernotto, per il resto o si scende a valle oppure ci si affida alla tenda e ai tanti bivacchi non gestiti: una peculiarità che le amministrazioni locali e i progettisti definiscono inadeguatezza. Ecco perché è stata prevista la ristrutturazione edilizia di un rifugio già esistente e di altre sei malghe-bivacco per creare nuovi punti ristoro gestiti: i primi lavori sono iniziati e in breve tempo si potrebbero incontrare agriturismi e ristoranti lì dove al momento non ci sono che qualche pastore e molte praterie. Un progetto di riqualificazione del genere servirà a dare nuova vita alla traversata? Così come gli atleti della Translagorai Classic FKT Run sono sempre di più coloro che si dirigono verso quest’angolo del Trentino attirati dalla possibilità di vivere un’esperienza di outdoor forse più scomodo e più difficile da gestire, eppure proprio per questo più appagante e più reale, soprattutto oggi che gli ambienti alpini, saturi di infrastrutture, finiscono per assomigliarsi quasi tutti. Ne parliamo su Skialper 131 di agosto-settembre.

© Federico Ravassard

Concatenamento Cervino - Dent d’Hérens per Cazzanelli e Maguet

Se ne parlava da tempo e, complice la stagione senza gare, ecco che si è formata una nuova coppia per imprese in velocità e con ingaggio alpinistico in quota. Qualche giorno fa François Cazzanelli e Nadir Maguet hanno concatenato in una sola giornata Cervino e Dent d’Hérens. «Quest’anno in assenza di gare ho voluto dedicare più tempo alla montagna e scoprire un mondo per me nuovo, quello dell’alpinismo e quando François mi ha proposto il suo progetto di concatenare in una sola giornata il Cervino e la Dent D’Hérens, le due montagne simbolo della nostra valle, non ho esitato nel dirgli di sì» dice Maguet. In totale 15 ore e 57 minuti per un dislivello di 4.300 metri con 35 chilometri di sviluppo.

Partenza alle 2,15 della notte tra il 20 e 21 agosto dalla chiesa di Cervinia (2.050 m), poi la scelta di due belle vie di roccia, la Diretta degli Strapiombi al Cervino e la Cresta est della Dent d’Hérens. L’itinerario ha toccato il colle del Breuil per attaccare il Cervino (4.478 m.) proprio dalla via degli Strapiombi di Furggen «Dopo 5 ore e 20 minuti dalla partenza abbiamo raggiunto la vetta e siamo scesi per la cresta del Leone fino al rifugio Duca D’Abruzzi - aggiunge Maguet - Da lì ci siamo trasferiti alla base della Cresta Albertini. Dalla base fino alla vetta delle Dent d’Hérens (4.171 m) ci abbiamo impiegato 5 ore. Successivamente siamo discesi dalla cresta Tiefenmatten fino al fino al rifugio Prarayer in Valpelline (2.055 m). Il tutto in totale autonomia portandoci dietro il nostro materiale».

© Facebook Nadir Maguet