Nasce LaMunt, il marchio di abbigliamento outdoor creato dalle donne per le donne
«LaMunt è il nuovo marchio di sport di montagna creato da donne per donne, che apre una nuova prospettiva femminile sugli sport alpini». Le parole di Ruth Oberrauch, membro dell’Executive Board del Gruppo Oberalp alla Virtual Convention del gruppo, organizzata in forma online lo scorso 29 ottobre, segnano la nascita del nuovo brand nel portafoglio del gruppo bolzanino.
LaMunt si rivolge a donne sicure di sé che vogliono vivere la montagna a modo loro. La frequenza delle attività, il livello di abilità e la velocità sono di secondaria importanza. Ciò che conta per le donne LaMunt è la propria passione per la montagna. Il marchio che si posiziona nel segmento premium, è la risposta del gruppo al crescente numero di donne che praticano sport di montagna e che sono alla ricerca di un abbigliamento che soddisfi le loro esigenze, senza compromessi in termini di funzionalità. È proprio qui che entra in gioco LaMunt, che combina funzionalità ed estetica proponendo smart fit solutions. Seguendo lo slogan del brand Shape her identity, la progettazione dei capi si sviluppa attorno al concetto di perfetta vestibilità per il corpo femminile, in modo che le donne si sentano a proprio agio durante tutte le attività. Dettagli ben studiati, possibilità di personalizzazione, materiali sostenibili e di alta qualità sono destinati a soddisfare le esigenze delle donne che vogliono esprimere la propria personalità anche attraverso l’abbigliamento in montagna. LaMunt sarà disponibile online e in modo esclusivo presso rivenditori selezionati a partire da gennaio 2022.
Come base per il lancio sul mercato del nuovo marchio LaMunt e come fonte di ispirazione per tutti i propri marchi per gli sport di montagna, il Gruppo Oberalp ha commissionato uno studio semiotico a Karmasin Behavioural Insights (Vienna, Austria), uno degli istituti di ricerca comportamentale più riconosciuti a livello internazionale, che ha analizzato i bisogni, la mentalità e gli atteggiamenti delle donne in montagna. La funzionalità dell'abbigliamento e dell'attrezzatura per gli sport di montagna sono risultati essere essenziali. Inoltre, per le donne il comfort e la vestibilità sono prioritarie, seguite dal design e dal prezzo. Grazie a questa ricerca si è potuto capire che gli scarponi e i pantaloni da montagna sono gli articoli più problematici per le donne, soprattutto a causa della loro vestibilità.
Le nuove proposte Salewa, Dynafit, Pomoca, Evolv, Wild Country e LaMunt sono state presentate con una sfilata nella suggestiva location del Messner Mountain Museum a Plan de Corones, progettato dall’archistar Zaha Hadid. Gli showroom virtuali e i video dei prodotti continueranno ad essere disponibili sulla piattaforma digitale convention.oberalp.com
Modello Val Maira
Qua e là, tra Alpi e Appennino, esistono una miriade di piccoli borghi dove negli ultimi anni per resistere allo spopolamento si è scelto di puntare su modelli slow, dove l’esclusività non è data tanto da listini fuori misura, quanto dall’isolamento (parola ormai sdoganata, ma fino a pochi mesi fa realmente apprezzata solo da pochi) e dal numero limitato di strutture ricettive, in controtendenza ai modelli mordi-e-fuggi in cui tutto, dal prezzo della camera ai metri quadrati liberi in spiaggia, viene tirato al minimo. Uno di questi borghi è Chiappera, in fondo alla Val Maira, ma sarebbe più corretto parlare di tutta la valle come destinazione slow, che si propone come modello da seguire per il turismo alpino del futuro. Per capire più da vicino il modello Val Maira, Federico Ravassard è stato in valle e ne è uscito un reportage che pubblichiamo su Skialper 132 di ottobre-novembre.
«A illustrarmi il piccolo miracolo della Val Maira in un giorno di settembre è Stefano Busso che, innamorato da sempre di questi luoghi, ha deciso di (ri)dare vita alla vecchia scuola di Chiappera, trasformandola in un albergo diffuso con annesso ristorante. Le aule, completamente smantellate, sono diventate stanze per gli ospiti, così come alcuni fienili e baite nei paraggi. La Scuola (sì, l’ha chiamata proprio così) è la sintesi delle idee che hanno reso unica questa valle, a partire dal numero di stanze, limitato ad appena dieci, che la rendono la struttura più grande (ma sarebbe più corretto dire meno piccola) di Chiappera. Questa limitazione è dovuta anche a vincoli regionali istituiti nel 1973 che proibiscono tuttora nuove costruzioni a favore del ripristino degli edifici storici, congelando il borgo a com’era mezzo secolo fa».
E pensare che alla fine degli anni ‘80 Chiappera era una frazione ormai diroccata, frequentata solo dai pochi alpinisti che bazzicavano fra Torre Castello e la Rocca Provenzale. La svolta arrivò in modo fortuito con una coppia di escursionisti tedeschi, giunti qui senza un ben precisato motivo, che si innamorarono all’istante di queste montagne deserte. Andrea e Maria Schneider persero la testa al punto di decidere di aprire la prima struttura per turisti dopo decenni di abbandono, con l’idea di iniziare a promuovere un turismo basato su numeri piccoli, valorizzazione del territorio e della cucina locale. Così è nata la rete dei Sentieri Occitani, basandosi sui percorsi che durante il Medioevo collegavano i centri dell’Occitania, un’area estesa dai Pirenei al cuneese in cui, secoli prima dell’Unione Europea, popoli diversi tra loro erano uniti da una lingua e una cultura comune. E la valle è diventata un santuario dello scialpinismo, ma questa è un’altra storia.
Lettera da Valdez
Si può vivere in barca a vela e andare a sciare la mattina e magari il pomeriggio sfruttare la brezza e girovagare per baie? La risposta è sì, soprattutto se ti trovi in un posto come l’Alaska dove le onde sono vicinissime alla neve polverosa. Ed è quello che fa Gabriella Palko, giovane speaker della radio locale e freerider, che ha iniziato a vivere su una barca a vela per caso.
«Casa e abitazione sono due cose diverse e l'abitazione è arrivata in forma fluttuante. Il vecchio e logoro veliero di nome Whisper è entrato nella mia vita grazie a un meccanico dai capelli unti e dal cuore gentile. Mi ha offerto la nave come rifugio temporaneo e ho finito per viverci per un anno e mezzo. La semplicità, l'intimità, la magia racchiusa tra le pareti di vetroresina che custodiscono le storie di una manciata di altre anime che avevano occupato quello spazio galleggiante prima di me mi hanno attirato e hanno cambiato la mia vita. Sentendomi per metà sicura della scelta, per l’altra metà pazza, ho comprato la mia barca a vela, più funzionale, lo scorso settembre. Si chiama Zephyr, ed è da qui che ho la grande fortuna di scrivere».
Gabriella è una delle protagoniste delle lettere da di Skialper 132 di ottobre-novembre e scrive la sua missiva da Valdez. Lo fa raccontando di come ha vissuto i giorni più duri del lockdown dalla usa particolare casa e di come la solitudine da scelta sia diventata un obbligo. «Sono abituata a stare da sola. Mi considero un membro abbastanza indipendente della specie umana, so apprezzare la solitudine, ma ho anche fiducia nella comunità. Improvvisamente mi sono ritrovata a vivere in solitudine non solo per scelta, ma anche perché costretta. Tutto a un tratto ho provato il terrore puro e il vero senso della solitudine, ma anche quello della libertà e della liberazione». E poi è arrivata l’estate, l’estate della libertà. «È stata la migliore opportunità per diventare più intima possibile con il mio palcoscenico, il territorio vasto e magico delle Chugach Mountains e del Prince William Sound. Ho continuato a lavorare alla radio per tutta l'estate, per garantirmi un reddito e un senso di normalità. Ma il resto del tempo l'ho passato nella mia piccola casa in barca, navigando verso Nord e facendomi strada attraverso le acque, sulle spiagge e sulle montagne del grande giardino dell'Alaska».
E ora? «Ora, se volete scusarmi, c'è il sole e c'è una brezza da sfruttare!».
Covid-19: provare a conviverci
Nel nostro ambiente lo conoscono tutti, o quasi. Francesco Bertolini, che organizza il festival Milano Montagna (che nel 2020 si è preso una pausa a causa della pandemia), è anche uno stimato professionista in campo sanitario e direttore della Divisione di Laboratorio di Ematoncologia all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano. L’epidemiologia e l’infettivologia non sono direttamente il suo campo di lavoro, ma da uomo di scienza e medicina in questi mesi è sempre stato molto attento all’evoluzione della pandemia, avendo accesso a studi realizzati da colleghi e le competenze per leggerli oltre le righe. Per questo abbiamo fatto con lui un punto sulla situazione e sui comportamenti da tenere, anche ad uso di scialpinisti e appassionati di outdoor, che pubblichiamo su Skialper 132 di ottobre-novembre. Lo abbiamo intervistato a settembre e da allora c’è stata un’evoluzione, come è normale che sia, ma consigli sui comportamenti e valutazioni generali rimangono validi. Ecco qualche anticipazione.
Allo stato attuale, quali sono le cose che sappiamo con certezza e che è importante che tutti ricordino?
«Teniamoci discosti e con mascherina al chiuso in luoghi pubblici e anche all’aperto quando non possiamo stare lontano da persone potenzialmente infettive. Siamo collettivamente alle prese con un nuovo virus che si comporta in modo solo molto parzialmente prevedibile. Per venire a capo di altre malattie l’umanità ha impiegato secoli e perso milioni di ammalati inguaribili. Visto con gli occhi dei nostri bisnonni, che in pochi mesi si sia riusciti a generare test diagnostici e a imbastire terapie che iniziano a essere efficaci è davvero oltre le aspettative. A oggi l’impressione è che torneremo un giorno a scambiarci senza problemi le borracce al termine di una bella salita con le pelli, ma è bene non fare troppe previsioni su quando e su come arriveremo a festeggiare questo momento. Sarà perché il patogeno sparirà (con altri coronavirus è successo), sarà grazie a un’ampia diffusione dell’immunità che ridurrà la capacità del virus di fare male o sarà grazie ad un vaccino? È troppo presto per dirlo».
Quali sono le regole da tenere presente nella vita di tutti i giorni: oltre a mascherine, igiene e distanziamento ci sono altri consigli?
«Per quel che oggi sappiamo le mascherine (almeno chirurgiche, quelle di sola stoffa servono pochino) hanno molto senso in ambienti chiusi, quando dividiamo lo spazio con altre persone. Sempre in questi ambienti e dopo aver frequentato (anche all’aperto) luoghi pubblici, lavarsi le mani è una cosa utile».
Quanto contano il luogo e il tempo di esposizione nella probabilità di contrarre il virus e c’è un rapporto con la possibilità di contrarlo in forme più gravi?
«Esistono delle situazioni in cui il virus si diffonde con grande efficienza. Succede preferibilmente al chiuso, in ambienti umidi e rumorosi dove le persone tendono a parlare a voce alta. Lo sappiamo da esperienze raccolte in alcuni posti di lavoro, su autobus e in ristoranti, ma se state pensando a quelle belle tavolate dove ad alta voce si raccontano tra tanti amici le discese ardite e le risalite, ehm si, occhio perché per un po’ di tempo potrebbe valere la pena di comportarsi diversamente».
Gita scialpinistica, escursioni, alpinismo, come dovremo cambiare le nostre abitudini per ridurre ragionevolmente i rischi?
«Il rischio zero non esiste, ma in questa pandemia cercare di non ammalarsi è un comportamento socialmente ed eticamente sensato. Auto e rifugi (andando oltre le indicazioni dei vari DPCM, che hanno modificato e potrebbero modificare le regole di comportamento e le presenze in alcuni di questi ambienti, ndr) sono luoghi chiusi, se sono con persone con le quali non convivo, usare una mascherina chirurgica e lavarsi le mani riduce di molto il rischio di trasmissione».
Su quale nuvola vivevamo per non accorgerci della nostra fortuna?
«Avevo iniziato a scrivere prima del lockdown, esplorando i benefici della solitudine in montagna. E poi la macchina si è fermata. La stazione è diventata silenziosa con la chiusura degli impianti di risalita. La natura sta rivendicando i suoi diritti. La purezza delle forme bianche cede il passo alla pacificazione di un paesaggio blu scuro. Scrivo di nuovo, chiuso tra quattro mura, in piena prigionia. Il cielo è caduto sulle nostre teste in questo resort fantomatico. È una stagione senza tempo che incombe. Il nostro paradiso bianco si sta sciogliendo in un'epidemia di oscurità. Devo ammettere che l'isolamento ha assunto un'altra dimensione, non è più l'idillio che avevo cominciato a descrivere. Avevo pensato che questo periodo mi avrebbe dato ispirazione. Al suo posto, di fronte a me, c'è un grande vuoto. Una pagina, bianca come la neve, e le mie idee che rimbalzano contro i muri».
A scrivere è Maxence Gallot che ha vissuto il lockdown chiuso in un monolocale di 26 metri quadrati nella località sciistica di La Plagne. Così quella reclusione forzata si è trasformata in una riflessione sul nostro mondo, sul modo di vedere lo sci e su come potrà cambiare. Su Skialper 132 di ottobre-novembre pubblichiamo il suo diario dal lockdown, tra delusioni e speranze. «Il mio modo di guardare alla montagna è cambiato. Non ho più fretta di partire alle 9 in punto per prendere la prima cabina e scivolare a capofitto verso le solite linee. È l'elogio della lentezza» scrive Gallot. «Abbiamo sempre avuto l'impressione di dominare il mondo, eccoci ora molto meno potenti e molto più insignificanti – conclude autore - (…) Non combattere contro il tempo ci aiuterà a girare l'orologio più velocemente, a risolvere il puzzle del vuoto, a trovare i pezzi mancanti di questa umanità che sta girando fuori controllo. E poi, quando avremo bisogno di tornare al ritmo della vita, avremo le chiavi per aprire nuove linee».
Lettera dalla Nuova Zelanda
«Con 12 ski field, la regione di Canterbury ha più posti per sciare di tutte le altre. Molti di questi ski field sono in realtà dei club field gestiti in maniera comunitaria e no profit, il che significa che sono delle specie di comunità sciistiche socialiste. Nei club field non troverete molte piste battute, né seggiovie, qui gli impianti di risalita sono manovie in stile anni '40, un modo semplice, terrificante ed efficace per salire in montagna. L’assenza di discoteche nel raggio di 100 chilometri fa sì che la scelta migliore per l'après-ski sia quella di pernottare in uno dei lodge dei club field e bere quello che vi siete portati, oppure andare in un pub di campagna ad ascoltare le storie di caccia di contadini dall'aspetto rude o a guardare una partita di rugby (in Nuova Zelanda una vera e propria religione) in TV».
A scrivere la lettera dalla Nuova Zelanda su Skialper 132 di ottobre-novembre è Joe Harrison, che racconta questa simpatica formula di ski resort e tutte le sue implicazioni, ma anche delle possibilità di scialpinismo in rifugi sperduti nella natura selvaggia e anche dell’imprevedibilità del meteo a quelle latitudini: «Gli inverni kiwi possono essere più imprevedibili dei tweet di Donald Trump. Alcune bufere fanno diventare bianca l'intera Isola del Sud, ma altri inverni vi vedranno sciare un sacco sul tussock (erba di montagna). La cosa buona è che se la brutta neve vi butta giù, potrete sempre abbandonare gli sci e dirigervi verso uno dei tanti surf break lungo la East Coast: l'acqua sarà gelida ma non c’è niente che una calda muta, una hot steak pie (piatto nazionale) e un flat white coffe (il cappuccino local) non possano risolvere».
Alta Valtellina: scoprire, riscoprire, condividere
«Quando Edoardo e io abbiamo deciso di passare l’inverno insieme a sciare il più possibile non avevamo idea di dove andare; abbiamo scritto su un foglio di carta il nome di cinque località che, almeno a una prima apparenza, avevano le caratteristiche che secondo noi dovesse avere il posto in cui volevamo trascorrere la stagione. Per prima cosa, volevamo trovarci in un posto dove almeno la quota promettesse neve al momento dell’arrivo di ogni precipitazione. Poi ci interessava stare lontani dal turismo di massa e pagare un affitto ragionevole. Cercavamo un inverno più lungo possibile in cui sciare fino a non poterne più sopportare nemmeno l’idea. Non so perché - forse perché avevamo usato l’ordine alfabetico - ma Santa Caterina era l’ultima della lista. Abbiamo trovato casa quando ormai avevamo perso ogni speranza e, per quanto fosse difficile accorgersene nel caldo di Roma, l’inverno stava già bussando alla porta. Indossavamo ancora i pantaloncini quando abbiamo caricato la macchina di borsoni e speranze e ci siamo messi in viaggio verso nord. Verso l’inverno. Non avevamo la minima idea di quello verso cui stavamo andando incontro a testa bassa, e senza guardarci indietro».
Eva Toschi da tre inverni è ormai una local di Santa Caterina Valfurva. Ha esplorato con sci e pelli ogni versante della valle e nei mesi più freddi ama la zona dei Forni. Perché, con quattro chilometri di strada da fare con le pelli (o con gli sci in spalla) la folla primaverile si dilegua e diventa il regno del silenzio. Perché in Alta Valtellina, non solo in Valfurva, appena oltre gli itinerari più frequentati, c’è un paradiso per pochi.
«L’Alta Valtellina è una zona così ampia e con numerose valli limitrofe che è ancora difficile trovare la ressa sugli itinerari. Tolti quei quattro-cinque classici o altre zone più famose come i Forni o la Val Viola, quando aprono le relative strade, se esci a fare un giro è difficile che trovi tanta gente. Chi non ha le competenze si muove solo sugli itinerari conosciuti e già battuti; chi invece ha un po’ di esperienza e ama muoversi non lo vedi in giro perché va a cercare posti poco conosciuti. Poi va messo in conto che tante valli sono difficili da raggiungere, ma le prospettive sono cambiate grazie all’uso della bici a pedalata assistita con cui si può andare fino a dove in primavera puliscono la strada, metter le pelli e partire. Questo tipo di scialpinismo è ancora di nicchia, ma si sta espandendo. In un raggio di 20 chilometri ci sono montagne, fauna e flora così diversi ed è difficile trovare tanta varietà in un’area relativamente piccola altrove sulle Alpi».
A parlare è Giuliano Bordoni, Guida alpina, local per nascita. Giuliano, dopo avere provato freeride e freetouring, ora si lascia ispirare da quello che lui chiama ski savage, uno ski sauvage, vale a dire alpinismo con gli sci su terreno d’avventura. «Ogni tanto ti capita di ravanare, altre meno e qui sta il bello: sapersi sempre stupire di fronte al risultato finale». Sapersi stupire anche di fronte al risultato finale delle 10 gite suggerite da Giacomo Meneghello, il fotografo autore della maggior parte delle foto del dossier di 18 pagine che dedichiamo all’Alta Valtellina su Skialper 132 di ottobre-novembre. Anche lui, come Eva, è un local acquisito, ma ha imparato velocemente ad amare queste montagne.
Giù al Nord
Può l’Appennino, almeno per un giorno, sembrare il grande nord? Può un fitto bosco di faggi assomigliare a una foresta di aspen del Nord America? Nel giorno giusto tutto è possibile e anche il vento che spira incessante si ferma. «Una piacevole brezza ci accarezza la pelle, una delle tante stranezze di inverni sempre più atipici in Appennino. L’Appennino centrale è caratterizzato da condizioni meteo variabili, ma il climate change ha reso tutto ciò ancora più imprevedibile» scrive Lorenzo Alesi su Skialper 132 di ottobre-novembre.
Tornare sulla catena dei Monti della Laga, Colle del Vento e Monte di Mezzo è un po’ come andare oltre la distruzione del sisma del 2016. Attraversare Amatrice, con il campanile della sua chiesa, unica struttura rimasta in piedi, e gli altri paesi quasi del tutto rasi al suolo per raggiungere Campotosto, da dove iniziano le salite, è come allontanare il passato e riconnettersi al futuro che verrà. Fuori dal bosco si continua a fare traccia risalendo pendii ondulati e dolci su una neve ancora fredda, condizioni insolite per questo posto, dove solitamente le creste sono battute dal vento e la neve è icy e insidiosa. Ma la gioia e le emozioni della discesa giusta sono effimere, e quando meno te l’aspetti, dove meno te l’aspetti puoi vivere una delle più belle giornate sulla neve. «Ogni volta che torno in Appennino vengo su queste montagne, ma condizioni di neve così non le avevo mai trovate» scrive Lorenzo. È tempo di andare: la discesa nella powder, nel canale Sud-Est con vista Gran Sasso e sui pendii dolci e poi nella larga faggeta fino ad arrivare al lago dà un gran gusto. E a testimonianza ci sono le immagini di Alice Linari, che raccontano più di mille parole.
Lettera da Sauris
«Sono arrivata quassù forse per destino. Avevo un paio di ore di buco per un’intervista saltata durante una trasferta a Sauris e la voglia di scoprire quella frazione che non avevo mai visto. Era un’occasione da sfruttare anche perché nella valle del Lumiei, dove la Carnia si spinge verso il Cadore, bisogna venirci apposta. Era inizio marzo, c’erano il sole e la neve. Sono salita a Lateis senza davvero sapere cosa aspettarmi. Ho trovato un silenzio tangibile, una cinquantina di case con in mezzo una chiesetta e, intorno, una natura potente. I prati, chiusi da boschi di faggio e di abeti, e poi le montagne, più rocciose e potenti a Sud, più morbide verso Nord. Arrivata in cima, alla borgata Ameikelan, ho notato uno stavolo, una vecchia stalla con il suo fienile, in posizione strategica: non solo davanti al Tinisa, la montagna che protegge Lateis, ma affacciato sul Bivera. Il Bivera si distingue dalle altre Alpi Carniche per la forma svettante, per il tratto di cengia orientale rossa di ammoniti. In sintesi, per la sua bellezza. Da quello stavolo, la vista sul Bivera era indubbiamente perfetta. Sono passati quattro anni e il Bivera ora lo ammiro praticamente da ogni finestra di casa, dallo stavolo scoperto in quella luminosa giornata di marzo».
A Sauris il distanziamento è da sempre uno dei leit-motiv, lo sa bene Anna Pugliese, che ha scritto per Skialper una delle lettere da che pubblichiamo da Skialper 132 di ottobre-novembre . Di sciate, qui, se ne fanno parecchie. Anche perché si parte dai paesi già a una buona quota: 1.240 metri per Lateis, 1.212 per Sauris di Sotto, 1.398 per Sauris di Sopra. Il distanziamento fisico è garantito: gli abitanti sono meno di 400, c’è turismo, sì, ma non è certo opprimente. Puoi salire e scendere senza incontrare nessuno. «Il problema, spesso, è che ti tocca batter traccia». Quello che fanno Francesca Domini e Marco Stefanuto, che gestiscono un’azienda agricola che crea formaggi di capra e si sono sposati nel maggio del 2011 quasi in sella al Bivera, dove erano saliti con don Piller, il parroco sciatore di Sauris, e il suo cane, Fox. Anche loro sono alcuni dei (pochi) fortunati local. Ne parliamo su Skialper 132 di ottobre-novembre.
Lettera dal Gennargentu
«Mentre sulle Alpi si cerca di combinare una salita nei giorni seguenti la nevicata, a queste latitudini, forse per paura che la neve si sciolga prima di averla toccata, si parte durante la nevicata stessa. Questo costringe già a tragicomici avvicinamenti in auto, su strade ovviamente non spazzate (in Sardegna si mormora di un fantomatico maialetto delle nevi che ripulisce le strade dopo la nevicata, ma noi non lo abbiamo mai visto!)».
Si può fare scialpinismo sul Gennargentu? Sì, almeno ci si può provare. Ed è un’esperienza che ha a che fare con lo scialpinismo di scoperta e molto con il ravanage. Ne sa qualcosa Maurizio Oviglia, che ha scritto per Skialper 132 di ottobre-novembre una lettera dal Gennargentu, ricordando le tante avventure tra filo spinato, fango e neve che sparisce a vista d’occhio. Oviglia parla del versante settentrionale del Bruncu Spina. «Ricordo una salita al Bruncu Spina da Nord dove, prima di raggiungere un pendio degno di questo nome, dovetti combattere per un’ora su un sentiero a ostacoli costituiti da filo spinato e muretti a secco. Alla base del pendio mi misi la cuffia, attaccai l’ipod con un pezzo di potente jazz rock, e mi sparai i 500 metri per cui ero venuto, tutti d’un fiato. Mi ero finalmente sfogato, ma sulla discesa meglio calare un pietoso velo». Poi sono arrivati i tentativi da Desulo e da Correboi. «Ci saranno stati 5 centimetri di neve e avevo oltrepassato 45 muretti di pietre con filo spinato; non ci crederete ma li avevo contati. In discesa mi si ruppe il vecchio scarpone come fosse un uovo di cioccolato (del resto l’attrezzatura buona l’avevo lasciata a Torino) e cercai di scendere alla meglio nella macchia mediterranea, mirando alla macchina. A un certo punto un cinghiale mi si parò davanti agli sci. Rimasi un attimo interdetto, ero sempre armato di bastoncini, avrei reso cara la pelle. Per fortuna con uno scatto si infilò nel bosco: provai a inseguirlo, a quel punto speravo in un ingresso in paese da eroe. Ma sapeva sciare meglio di me e lo persi…». Ora Maurizio ha smesso di partire con gli sci e le pelli alla scoperta del Gennargentu, ma in fondo quel sue peregrinare tra cinghiali, filo spinato e Mufloni usando gli sci come mezzo di trasporto è uno degli ingredienti che rendono lo skialp così bello, anche quando la neve non è proprio come nelle foto di copertina di Skialper.
Waffle, powder e wilderness
«È come muoversi in una tazza di latte. Il vento soffia, nevica di traverso e ho freddo. Non vedo molto, le croci rosse che segnano il percorso sono l'unico indizio che mi indica dove andare e a volte scompaiono del tutto nella desolazione bianca e infinita. Forse non è stata una buona idea fare un giro con gli sci oggi, ma dopo il lungo viaggio fino a Björkliden, nella Lapponia svedese, 195 chilometri a Nord del Circolo Polare Artico, volevamo sgranchirci le gambe e prendere un po' d'aria fresca».
A scrivere è Mattias Fredriksson, autore anche delle stupende fotografie. Nell’articolo Waffle, powder e wilderness, su Skialper 132 di ottobre-novembre, parliamo del Låktatjåkka Mountain Lodge, una casa di legno nero circondata da enormi muraglie di neve a 1.228 metri sul livello del mare. È il rifugio più alto della Svezia e, per la cronaca, bisogna sapere che la montagna più alta del Paese, il Kebnekaise, è di soli 2.097 metri. Il Låktatjåkka è una base perfetta per spettacolari escursioni in uno degli ultimi angoli selvaggi d’Europa. Oltre che una baita gourmet dove provare dei deliziosi waffle. Dormire al rifugio comporta un’esperienza un po’ diversa per lo scialpinista, perché si è a poche centinaia di metri di dislivello dalle vette, così la maggior parte del dislivello bisogna farla il pomeriggio per rientrare alla base.
«Stare al rifugio trasmette un senso di intimità. Gli ospiti e il personale la sera si incontrano nel soggiorno e nel bar per leggere e parlare. Si arriva a conoscersi tutti, soprattutto perché non c'è internet e gli smartphone non hanno praticamente campo. Invece ci sono un sacco di buoni libri e una selezione sorprendentemente di birra, vino e whisky di qualità. La cucina è di livello e si possono provare i piatti svedesi, a partire dalla carne di renna e alce». Appuntamento in edicola con Skialper di ottobre-novembre.
Dentro il van
«Un van è come un figlio. Quando lo scegli, lo vivi fino in fondo. Non è il tuo mezzo di trasporto, non è il tuo status symbol. Non è solo il viaggio alternativo. È ciò che ti rappresenta. E contiene te stesso».
Scrive così Veronica Balocco nell’articolo Dentro il Van, su Skialper 132 di ottobre-novembre. Veronica è un vanlifer da sempre e ha cambiato diversi mezzi. Chi meglio di lei per raccontare la vita in van e in camper d’inverno? Oltre gli stereotipi e la moda social, non c’è dubbio che il camper è il mezzo dell’anno, perché in sintonia con il momento che stiamo vivendo. Sono in molti quelli che affrontano la montagna in inverno dormendo su quattro ruote. E molti quelli che vorrebbero farlo… «Viaggiare, e passare del tempo, su un van d’inverno richiede una certa attitudine allo sgamo». Dalla scelta del carburante, che spesso alimenta anche il sistema di riscaldamento, agli pneumatici e alle batterie di servizio.
«Oltre a questo mare magnum di insegnamenti in continua evoluzione, il van mi ha regalato anche qualcosa di diverso. Ed è forse la cosa più importante. Obbligandomi a guardare la vita da uno spazio minimale poggiato su quattro ruote, mi ha costretta a rivedere gesti normali. E a dare una nuova visione a tutto quello che sembra banale» scrive ancora Veronica. Per esempio parcheggiare evitando che lo spazzaneve depositi muri di cemento sulle ruote, farsi la doccia centellinando l’acqua e cercando di non bagnare troppo attorno, asciugarsi i capelli tenendo conto del voltaggio… Insomma la vita in camper va oltre le foto di mezzi da sogno e l’appeal glamour degli oltre otto milioni di hashtag #vanlife. Veronica racconta le sue esperienze, dispensa consigli, affronta la scelta del mezzo, le disposizioni per il parcheggio nelle località sciistiche e nella natura. Insomma 14 pagine di vademecum con la leggerezza di un racconto e le belle fotografie di Federico Ravassard che ha immortalato outdoor addicted del calibro di Cala Cimenti, Enrico Mosetti e Paolo Marazzi con i loro mezzi. Skialper 132 è acquistabile anche nella nostra edicola digitale.