Alla ricerca di Tom Ballard/2

Il silenzio dell’oblio 

Il primo approccio di Tom all’arrampicata avvenne nel 1993, a cinque anni, alle Calanques in Francia su una semplice via di calcare; anche Gaston Rébuffat aveva mosso i primi passi nell’arrampicata proprio lì. Alison pensava che Tom fosse ancora troppo piccolo per arrampicare, ma appena si allontanò per qualche attimo Tom chiese al padre di farlo provare e Jim acconsentì. Tom salì a piedi nudi sulla placca, una visione che lasciò alquanto sbalordita Alison al ritorno. Tom era stato un bambino molto precoce; all’età di 8 o 9 anni, durante una mattinata di arrampicata con il padre, dopo aver salito un tiro, Jim propose a Tom di farne un altro, indicandolo con il dito e il figlio gli rispose candida- mente di averlo già scalato da solo qualche giorno prima. Studente svogliato, frequentò la scuola solo saltuaria- mente a partire dai 14 anni, prediligendo l’andare a sciare con buone condizioni di neve e divertendosi ad arrampicare nelle giornate di arietta frizzante; amava molto anche la libertà che il bouldering gli concedeva: poteva prendere il suo materasso e andare in giro ad arrampicare, senza bisogno di cercarsi un compagno. 

Fra il 2002 e il 2007 Ballard completò più di 1.000 vie di boulder in Scozia, dedicandosi alla ricerca di nuove vie, alla loro pulizia e anche alla promozione delle stesse, realizzando una piccola guida di quelle della zona di Glen Nevis. Nonostante fosse un curioso e avido lettore, in particolare di libri collegati al mondo dell’arrampicata e dell’alpinismo, Tom non amava frequentare la scuola; la sorella Kate lo ricorda così: «Era sempre fuori casa a esplorare. Era tranquillo, serio in ciò che faceva, ma era anche un ragazzo molto divertente, con un temperamento da bambino». Questa serietà, fin dalla più tenera età, rappresentava uno degli aspetti salienti del carattere di Tom e l’aggettivo tranquillo è una definizione che ricorre spesso nelle conversazioni che lo riguardano. «Tranquillo e solido... è stupefacente quanto fosse tranquillo Tom, anche da bambino: nessun capriccio o pianto, neppure di notte» racconta Jim. Marcin Tomaszewski, compagno di Ballard nel 2017 nell’apertura sull’Eiger della nuova via Titanic (M5 5.10c A3 W14 – N.d.T.: 6b+), vicino a Solitaire e Seven Pillars, lo ricorda così: 

«Tom era un ragazzo tranquillo; non parlava molto, ma le sue imprese parlavano per lui. Aveva moltissima energia: sembrava un vulcano prima dell’eruzione. Era paziente ma al tempo stesso aveva continuamente bisogno di tenersi in azione. Era difficile conoscerlo intimamente, ciò che avvertivo in lui era un sottofondo di tristezza». 

Marco Berti, alpinista di lunga data, amico di Ballard, attribuisce il velo di tristezza, percepito anche da lui in Tom, alla sua infanzia e al trauma subito per la perdita della madre. «Era come se Tom fuggisse da qualcosa ricercando una solitudine, a cui si era abituato fin da piccolo, e che negli anni successivi aveva apprezzato e considerato come la miglior cordata per le sue imprese alpinistiche». Oppure possiamo pensare che Tom, come scrive per se stesso Rébuffat in Starlight and Storm, «sulle montagne si sentisse circondato dal silenzio dell’oblio». 

Alla ricerca della forza 

Dopo i primi successi sull’Eiger con Solitaire e Seven Pillars, Ballard elesse le Alpi a suo terreno di gioco preferito; rimase a Grindelwald con il padre e la sorella per tre anni, ripetendo altre classiche della zona o portando a termine nuove linee sull’Eiger, come Mittellegi Route e Southwest Flank. Nel 2012 Tom e il padre decisero che era giunto il momento di ripartire ed elessero nuovamente a casa il loro furgone; Kate questa volta non andò con loro: aveva imparato a sufficienza il tedesco per poter lavorare come istruttrice di snowboard. 

Nel corso dei quattro anni successivi viaggiarono per tutta l’Europa: Francia, Austria, Svizzera, Germania, ma il luogo dove trascorsero la maggior parte del tempo furono le Dolomiti. Le Dolomiti, che si elevano come minareti in mezzo a verdi colline punteggiate in primavera da milioni di ranuncoli gialli, sembrano essere fatte apposta per offrire all’alpinista, affamato di imprese, l’occasione per lasciare il segno. Ma la roccia friabile - per i pretendenti che la esaminino con occhio più attento - può rappresentare un buon deterrente. Non per Tom Ballard. Tom arrampicò in lungo e in largo per tutta la Val di Fassa, portando a termine un numero incredibile di vie: non tenne mai un elenco di tutte quelle ultimate, ma se lo avesse fatto sarebbe stato indubbiamente sbalorditivo. Dopo la prima estate trascorsa sulle Dolomiti, Luisa Iovane - nel 1986 la prima donna a scalare un 5.13b (N.d.T.: 8a/8a+) - gli domandò quante grandi vie alpine avesse scalato quell’estate e Tom, candidamente, rispose sessanta. «Un’estate di arrampicate per te Tom è come una vita di scalate per tutti gli altri» fu la risposta della Iovane. Nel 2014 scalò la bellezza di 200 vie in Dolomiti, senza contare quelle portate a termine nel resto d’Europa e ne salì centinaia di altre negli anni successivi; oltre la metà delle sue imprese avvennero in free solo. 

Ma nonostante un curriculum alpinistico probabilmente senza pari, Ballard non assurse mai agli onori delle cronache e rimase una figura pochissimo nota nel mondo dell’alpinismo. Heinz Mariacher, storico disegnatore delle scarpette d’arrampicata La Sportiva e in anni più recenti Scarpa, conosceva molto bene Ballard; nel confermare molte delle imprese portate a termine da Tom, Mariacher fornisce anche una spiegazione per la mancanza di attenzione mediatica sulle sue imprese: «Completò molte vie in solitaria nelle Dolomiti, ma si trattava spesso di vie pressoché sconosciute. Per attirare l’attenzione dei media servono le imprese su quelle più note.Tom aveva salito vie pazzesche in zone sperdute delle Dolomiti, su pareti di gran lunga meno famose delle Tre Cime, ma alcune di esse molto più dure e rischiose». Il percorso di crescita alpinistica di Ballard comprese anche il dry-tooling, una tecnica che gli era sempre piaciuta molto. Nell’estate del 2012 completò la seconda salita di quella che viene considerata la più dura via di dry-tooling al mondo: Ironman, un D14+ chiuso nei mesi precedenti a Eptingen, in Svizzera, dal climber tedesco Robert Jasper. Ballard era straordinariamente forte sui tetti: «Tom aveva spalle e core talmente potenti che durante la scalata tutto era perfettamente sotto controllo» ricorda il suo amico Liam Foster, noto alpinista americano. Evitava l’uso della Yaniro - una gamba incastrata sopra un braccio per farla riposare - non per ragioni filosofiche, ma perché la sua conformazione era più adatta alla potenza pura. Il dry-tooling però non rappresentava un traguardo per Tom: 

«Era prima di tutto un alpinista» racconta Jasper «e interpretava il dry-tooling come un allenamento per le imprese in montagna». 

Tom Ballard in Val di Fassa e, a destra, in dry- tooling sulla falesia del Bus del Quai, nei pressi del lago d'Iseo © Rugero Arena

Starlight and Storm 

A partire dal 2015 Tom e Jim si stabiliscono a tempo pieno in Val di Fassa; vivono in un campeggio, al cui interno allestiscono il loro piccolo villaggio. Hanno una tenda comune: un telone verde militare che ricopre una struttura in legno e metallo, bidoni blu, cartoni di latte, contenitori per il cibo e per il materiale d’arrampicata accatastati qua e là; un tavolo pieghevole e sedie da campeggio come unica mobilia. Jim dorme nella tenda più grande, Tom in una tendina tre posti o direttamente sul furgone. Un filo di bandiere tibetane sventola sopra a tutto. La pensione di Jim basta a entrambi per vivere; non hanno bisogno di molto: cibo, gas e l’attrezzatura per le imprese di Tom sono sufficienti. Il materiale di Tom per l’arrampicata è decisamente datato: porta a termine le sue imprese con eccentrici e friend di prima generazione; mette sempre un berretto rosso di Ferrino e utilizza chiodi da roccia fatti a mano da Jim. Per un lungo periodo aveva addirittura usato le piccozze della madre. Fino a quel momento le imprese di Tom non avevano suscitato grande attenzione: «Voleva mantenere un profilo basso» racconta Jim; ma a un certo punto decide che è giunto il momento di andare alla ricerca di sponsor per finanziare i suoi progetti più ambiziosi. Ha un’idea in mente: salire in solitaria tutte le sei grandi pareti Nord delle Alpi durante la stagione invernale; impresa che rappresenterebbe non solo una reinterpretazione di quanto fatto da Alison, ma il suo superamento. «Pensavo che sarebbe stato impossibile» ricorda Jim, ma Tom decide di provarci e ribattezza il progetto Starlight and Storm, un chiaro tributo a Rébuffat. 

Trovato il primo sponsor, un’azienda di calze, il 21 dicembre 2014 ha inizio il progetto, che rischia di terminare già il giorno successivo. L’attenzione di Tom si concentra subito sulla Cima Grande di Lavaredo e il 21 dicembre si porta sotto la via Comici-Dimai, sulla parete Nord; l’aveva salita a vista, in solitaria e senza l’uso della corda nell’estate del 2011. È una giornata di vento intenso, che fin dalla sera prima lo ha preoccupato, ma Tom decide di tentare lo stesso. Sale veloce, autoassicurandosi dove necessario e scendendo poi per recuperare il materiale; arriva in vetta quando sta calando la sera. Al sopraggiun- gere del buio si rende conto di non aver portato con sé la lampada frontale, teme di non riconoscere la via di discesa e opta per un bivacco notturno, sulla roccia sotto una piccola cengia. Durante la notte ha un principio di congelamento alle dita dei piedi; la mattina seguente trova la via di discesa e si reca subito in ospedale per verificare la gravità del congelamento, che fortunatamente non si rivela tale da impedirgli la prosecuzione del progetto. Dopo la Cima Grande di Lavaredo, Tom decide di tentare la salita del Pizzo Badile, lungo la via Cassin. L’apertura della Cassin al Pizzo Badile risale alla fine degli anni ’30; il 14 luglio del 1937 la squadra composta da Riccardo Cassin, Gino Esposito e Vittorio Ratti decide di tentare la vetta del Pizzo Badile dal versante Nord-Est, ancora inviolato. Ma non sono gli unici ad aver maturato quell’idea e sullo stesso versante durante quella giornata stanno salendo anche i comaschi Mario Molteni e Giuseppe Valsecchi. Al termine del giorno i comaschi, esausti e in cattive condizioni, chiedono alla squadra di Cassin di poter unire le forze e condividere il bivacco, richiesta a cui Cassin acconsente. Il 16 luglio i cinque alpinisti raggiungono la vetta, ma appena iniziata la discesa lungo la parete Sud «Molteni muore di sfinimento» come racconta Rébuffat in Starlight and Storm; gli altri quattro procedono nella discesa «in mezzo a una bufera di neve e a raffiche di vento ghiacciato». «Valsecchi, che non aveva assistito alla morte del compagno, si guarda intorno in cerca di Molteni e, realizzato cosa gli fosse accaduto, scoppia in lacrime, poi si accascia a terra morto anche lui». Così Rébuffat descrive il tragico epilogo. Cassin, Esposito e Ratti riusciranno invece a terminare la discesa, rientrando al Rifugio Sciora. 

Dopo il Pizzo Badile, il 10 febbraio Tom salirà quella che viene considerata come la relativamente più semplice fra le pareti Nord delle Alpi: la via Schmid sul Cervino, che completerà in 2 ore e 59 minuti. La meta successiva è il Monte Bianco per la salita della parete Nord delle Grandes Jorasses; Tom affronta la Colton-Macintyre, mai provata prima. La via su cui Ueli Steck, nel 2008, aveva stabilito il record di velocità in salita, scalando a vista e completandola in 2 ore e 21 minuti. Il tempo di Tom non sarà come quello di Steck, ma neppure così distante: l’8 marzo 2015 Ballard salirà la via Colton-Macintyre impiegando 3 ore e 20 minuti.
«Le condizioni della via erano abbastanza buone. Il passo chiave di ghiaccio era oltre i 90°, uno strapiombo, ma breve. C’era ghiaccio fino alla headwall. La roccia sui tiri finali non era coperta di neve, ma c’erano alcune piccole strisce di ghiaccio da utilizzare con delicatezza» racconterà intervistato da planetmountain.com. 

Come penultima vetta, il 14 marzo 2015, scala la parete Nord del Petit Dru, lungo la via Allain-Leininger, impiegandoci 8 ore. Durante tutto quell’inverno, a eccezione di un po’ di equipaggiamento fornito da qualche sponsor, Ballard stava ancora utilizzando la sua attrezza- tura fatta in casa o di seconda mano. «Aveva noleggiato una corda per la parete Nord del Petit Dru» racconta Jim. «Non ne aveva una sufficientemente lunga da usare per la discesa». Al rientro dalle sue imprese Tom ritorna alla sua tenda in Val di Fassa e stende i vestiti bagnati ad asciugare nel locale caldaia del campeggio. Manca una sola settimana alla fine dell’inverno e a Tom non rimane che la parete Nord dell’Eiger. Il 19 marzo salirà a vista la via Heckmair, in free solo, con l’unica eccezione della Traversata Hinterstoisser, passaggio che completerà assicurandosi a corde fisse piuttosto malridotte, lasciate in loco dalle cordate avvicendatesi nel corso degli anni. «Mi sono tolto un enorme peso dalle spalle, sentendomi immediatamente molto meglio» commenta così Tom l’arrivo in vetta. Per ironia della sorte l’impresa concepita, ma non pienamente realizzata da Alison Hargreaves anni prima, viene portata a termine da suo figlio Tom: la prima persona al mondo a salire tutte le sei grandi pareti Nord delle Alpi in una sola stagione. 

Scendendo lentamente e con la massima attenzione dalla vetta dell’Eiger, Tom nota dapprima frammenti di plastica arancione sparpagliati nella neve, poi poco più in là un guanto e più sotto ancora scorge un corpo. Uno sciatore, incontrato poco prima sulla cima, è precipitato battendo la testa su una roccia; il casco arancione si è frantumato nell’urto e il ragazzo è morto. Tom non ha mai visto un cadavere e quella visione gli ricorda quanto pericolosa sia la passione che ha scelto come compagna di vita. La similitudine con quanto accaduto alla madre proprio sull’Eiger, più di vent’anni prima, lo colpisce non poco: «Ci è successa quasi la stessa cosa. È molto triste,  ma al tempo stesso è come aver vissuto un déjà vu» commenterà. Nonostante riconoscesse le similitudini fra alcune circostanze accadute a lui e alla madre, Tom smentirà sempre fermamente di avere voluto realizzare il progetto Starlight and Storm sul filone di quanto fatto da lei. «Penso che una grande motivazione nell’arrampicata gli derivasse dalla morte della madre» commenta Stefania Pederiva, la sua fidanzata «ma, anche con me, Tom l’ha sempre negato». Tuttavia emerge chiara una discrepanza fra le parole e i fatti; negli anni seguenti Tom, in un’intervista al Telegraph, lascerà intendere qualcosa di più: «Da bambino, quando andavo a scuola, dicevo sempre che da grande avrei scalato le montagne per mia madre. Ma dopo ho capito che era un pensiero un po’ sciocco perché lei aveva sempre scalato solo per se stessa. Adesso so che quello che faccio è solo per me stesso: ogni giorno quando esco per arrampicare penso solo a me. Inconsciamente lei è una delle motiva- zioni per cui lo faccio, ma sicuramente non l’unica». Marco Berti, amico intimo e compagno di scalate di Tom, aggiunge ulteriori dettagli: 

«Ogni giorno dicevo a Tom che doveva essere Tom Ballard e non il figlio di Alison Hargreaves. Gli spiegavo che, diventando un grande alpinista, avrebbe potuto parlare più liberamente della madre. Lui era d’accordo, ma gli risultava difficile non seguire il suo esempio. Non era semplice vivere al di fuori della traccia battuta dalla madre». 

Il 6 gennaio del 2015, prima dell’alba, Tom sale la parte inferiore della cresta Nord fino al Colle e alle otto affronta la via Cassin; scala per 11 ore, affrontando tratti su roccia ghiacciata fino all’M7: il terreno misto più difficile che incontrerà nel corso del suo progetto sulle pareti Nord delle Alpi. Passa la notte bivaccando su una piccola cengia, dove Cassin e i suoi compagni avevano trascorso la seconda notte nel lontano 1937; il mattino del 7 gennaio, dopo quattro tiri da 70 metri affrontati autoassicurandosi con la corda e superato un ripido pendio di neve e ghiaccio, Tom raggiunge la cresta Nord. La via Cassin al Pizzo Badile salita da Tom in un giorno e mezzo sarà la salita che richiederà più tempo fra quelle del suo progetto Starlight and Storm. 

bivacco alla Nord del Pizzo Badile, in basso al Cervino © Rugero Arena

Da principe a re 

La vita di Tom cambia in molti sensi dopo Starlight and Storm. Lascia il campeggio e trova un posto solo per lui, nelle vicinanze del luogo in cui vive la sua ragazza, figlia della Guida alpina Bruno Pederiva. Si erano fidanzati nel 2014: «Era cresciuto e voleva maggiore indipendenza» racconta Stefania, «voleva stare un po’ di più per conto suo, sentirsi più autonomo rispetto al padre». Tom e Stefania in quel periodo aprono insieme molte nuove vie, incluso un trittico sul Catinaccio: Scarlet Fever, Baptism of Fire e, la preferita di Stefania, Beauty and the Beast; fanno insieme anche diversi viaggi per andare ad arrampicare in Grecia, in Francia e in Sardegna. Le aziende del settore iniziano a fornire a Tom attrezzatura al top per l’arrampicata e, ancor prima della comunità alpinistica, la gente comune comincia ad accorgersi delle sue imprese. Un reporter del Guardian gli affibbia il soprannome di Re delle Alpi. Nonostante questo, i resoconti sulla stampa delle imprese di Tom tendono ancora a mettere in relazione i suoi successi con quelli raggiunti dalla madre, sebbene, dopo Starlight and Storm, Tom avesse percorso una strada nuova e divergente rispetto a quello di Alison. 

Nel 2015 Ballard fa anche la sua comparsa nella Coppa del Mondo di Arrampicata su Ghiaccio, anche se non otterrà mai grandi risultati: il suo miglior piazzamento rimarrà il quattordicesimo posto a Rabenstein, in Svizzera, nel 2018, dopo aver preso parte alla sua prima e unica semifinale. L’amica Anna Wells, che lo aveva conosciuto proprio durante la prima partecipazione di Tom a una gara del circuito a Bozeman, in Montana, nel dicembre del 2015, commenta così i suoi mediocri risultati nelle competizioni: «Penso che rappresentino una buona testimonianza della personalità di Tom e di quanto poco coltivasse il suo ego, in definitiva semplicemente non gli importava molto dei risultati ottenuti in gara e continuò per la strada che aveva scelto». Ostinandosi anche nel rifiuto dell’utilizzo della figura Yaniro. Nello stesso periodo Tom inizia anche ad attrezzare per il dry-tooling un imponente muro orizzontale in Marmolada, nella falesia che lui chiamerà Tomorrow’s World.  A febbraio 2016 apre quella che viene considerata la via di dry-tooling più dura al mondo: collegando tre difficili vie, aperte in precedenza nella falesia di Tomorrow’s World, completerà A Line Above the Sky, una scalata di 50 metri, che deve la sua difficoltà anche alla posizione orizzontale del tetto della falesia. A differenza di molte vie di dry-too- ling, che offrono una pletora di fori artificiali ricavati per piccozze e piolet-traction, A Line Above the Sky è quasi interamente naturale. Tom, dopo averla aperta, propone il grado D15, un nuovo livello di difficoltà per il dry-tooling; difficoltà che verrà confermata dal climber francese Gaëtan Raymond, dopo la sua ripetizione della via. Liam Foster, che in seguito salirà A Line Above the Sky, ne parlerà in questi termini: «È la più bella via di dry-tooling che io abbia mai scalato. Ha un’estetica fantastica: quando ti siedi nella parte posteriore della falesia e la osservi vedi questa linea come disegnata nel cielo». 

Dopo aver aperto quella che è probabilmente la via più difficile di dry-tooling al mondo, aver portato a termine con successo il progetto Starlight and Storm e aver maturato, in meno di 10 anni, un curriculum alpinistico per cui serve una vita intera, è arrivato per Ballard il momento di concentrarsi su nuovi obiettivi: le grandi montagne lo chiamano.
L’ultima montagna di Alison  Dopo la morte di Alison Hargreaves nel 1995, Tom chiede al padre di «portarlo a vedere l’ultima montagna scalata dalla mamma»; Jim parla della richiesta del figlio durante una conferenza stampa e immediatamente piovono offerte a destra e a manca, da parte di storyteller e filmmaker, per sponsorizzare il viaggio della famiglia Ballard al K2. Jim ne accetta una e parte con i bambini alla volta del Pakistan. Tom compie sette anni durante il viaggio verso il Pakistan; all’arrivo all’hotel K2 a Skardu, lo staff gli fa trovare una piccola sorpresa. «Negli anni seguenti, parlando con Tom di quel viaggio, mi resi conto di quanto i suoi ricordi fossero vaghi» commenterà Jim. Anche Kate ricorda pochissimo dei mesi successivi alla morte della madre. «Non so, avevo solo 4 anni. Piangevo, piango ancora per la sua morte. Penso che il viaggio al K2 fosse il nostro modo per rendere omaggio alla sua ultima dimora sulla Terra» racconta la sorella di Tom. 

Nel 2017 Tom e Kate tornano per la prima volta in Pakistan, dopo il viaggio di commiato del 1995, ma questa volta sono impegnati in una spedizione: Kate in un trekking, mentre Tom arrampicherà con un gruppo composto da Daniele Nardi e altri alpinisti che hanno identificato una serie di obiettivi nella regione del Karakoram. È durante questo viaggio che Tom conoscerà l’alpinista americano Graham Zimmerman. Zimmerman e il suo team sperano di compiere la prima salita del Link Sar, esattamente come Nardi e Ballard. «Fu molto interessante vedere Tom in azione perché era la sua prima esperienza sulle grandi montagne» racconta Zimmerman. Il tentativo di Nardi e Ballard sul Link Sar fallirà, per fortuna senza gravi conseguenze; ma, prima di tornare a casa, Ballard scriverà un resoconto della spedizione sul sito UKClimbing.com: «Siamo sopravvissuti per un pelo al crollo dei seracchi». La prima salita del Link Sar sarà poi portata a termine, nell’estate del 2019, da Zimmerman, Steve Swenson, Chris Wright e Mark Richey. Ballard e Nardi riescono però, insieme a Michele Focchi, ad aprire una nuova via di roccia (Welcome to the Jungle), lunga più di 1.000 metri, fino a una piccola spalla segnata da quella che la cordata ribattezzerà Scimitarra Rossa, per la caratteristica forma della roccia e per il colore della stessa. Dalla cima della loro via vedranno un’altra vetta, di circa 5.600 metri, che chiameranno Alison Peak, in tributo alla madre di Tom. Nonostante la scelta del nome non fosse stata fatta da Tom, anche in questo caso si dimostra vero quanto affermato da Berti, ovvero l’impossibilità per Tom di essere solo Tom Ballard e non il figlio di Alison Hargreaves; non importa quanto distanti da quelli materni fossero i traguardi alpinistici da lui raggiunti: non riusciva a sfuggire all’orbita della carriera materna. 

La cordata Nardi/Ballard aveva funzionato molto bene durante quella spedizione: Tom aveva imparato molto da Nardi, che aveva già scalato cinque Ottomila e tentato quattro volte la salita al Nanga Parbat in invernale. Per questa ragione, un anno più tardi, quando Nardi chiese a Tom di unirsi a lui nel tentativo di salita dello Sperone Mummery, Tom acconsentì. Era affascinato da quella linea di salita e «pensava che fosse venuto il momento di provare l’esperienza dell’alpinismo invernale himalayano» racconta il padre. Come fa notare Zimmerman, Ballard non aveva esperienza sugli Ottomila, ma neppure su montagne da 6.000/7.000 metri; affrontare direttamente un Ottomila, senza questi precedenti passaggi, era certamente possibile per un alpinista tanto dotato naturalmente, ma indubbia- mente un’impresa rischiosa. Jim e le altre persone vicine a Tom rimasero sorpresi dalla sua decisione di andare sul Nanga Parbat e non sul K2. «Penso che Tom abbia resistito fin troppo a lungo al desiderio di andare sul K2» commenta Jim. «Credo che l’abbia fatto dato che sapeva che tutti avrebbero pensato che volesse scalare il K2 perché era la montagna su cui era morta sua madre». Ma nonostante Tom stesse resistendo alla tentazione di andare sul K2, già nel 2015, durante l’intervista con Chalmers aveva dichiarato: «Il K2 è sempre stato il mio sogno. Ho sempre desiderato di arrivare sulla cima di quella montagna. Non so quando, ma certamente prima o poi lo farò». Per un attimo, nel 2010, molto prima di concepire il progetto Starlight and Storm, Ballard si era trastullato con l’idea di tentare il K2, ma la spedizione non si era poi concretizzata. L’ipotesi è che Tom coltivasse il sogno di salire da solo durante la stagione invernale il K2 e che la spedizione sul Nanga Parbat fosse un primo passo in quella direzione. 

Durante l’ultima conversazione che Jim e Tom ebbero, prima della sua partenza, Jim domandò al figlio se pensasse che la spedizione al Nanga potesse rappresentare un punto di svolta per la sua carriera alpinistica. Tom inizialmente non aveva compreso la domanda, ma Jim era andato avanti a spiegare: 

«Credi che facendo bene sullo Sperone Mummery, a prescindere dal fatto che tu raggiunga o meno la vetta del Nanga, le cose per te cambieranno? Pensi che questo rappresenterà un punto di rottura per la tua carriera? E che da quel momento in poi potrai concentrarti sulle grandi montagne himalayane anziché sull’apertura di vie tecniche in solitaria sulle Alpi?». «Forse questo и davvero ciт che penso» rispose Tom. 

Tom Ballard, il sognatore 

Non sapremo mai quale sia stata la vera motivazione che ha spinto Ballard troppo oltre sul Nanga Parbat.  Alex Txikon, che ha identificato i corpi di Nardi e Ballard sulla montagna, la pensa così: «Credo che fossero molto stanchi e infreddoliti. C’era un vento molto forte ed era tardi. In quelle condizioni, se non hai la possibilità di scaldarti, anche il più piccolo errore può essere fatale». Ma Simone Moro non è d’accordo con la disamina di Txikon. Data la ridotta distanza a cui si trovano uno dall’altro i corpi dei due alpinisti e per il fatto che siano entrambi attaccati alla stessa corda, sulla base della sua conoscenza dello Sperone Mummery - per averlo osservato per mesi dal campo base del Nanga - Moro ritiene che siano stati colpiti da uno dei blocchi di ghiaccio che frequentemente cadono sulla via. «Il vero pericolo sul Mummery non sono le classiche valanghe - aggiunge Moro - ma i grossi blocchi di ghiaccio che si staccano dai seracchi sovrastanti, scaricando sulla via». I corpi di Nardi e Ballard sono rimasti sul Nanga Parbat. La famiglia di Nardi ha espresso il desiderio che il corpo di Daniele non venisse recuperato. Probabilmente anche Tom avrebbe preferito questa soluzione per se stesso. Nell’intervista con il Telegraph aveva commentato così il fatto che la madre fosse rimasta sul K2: 

«Preferiremmo che il suo corpo
non venisse ritrovato. È dove si trovava maggiormente a suo agio, quindi vorremmo che rimanesse là». 

Diversi si sono domandati se nelle scelte di Ballard possano aver avuto un ruolo le pressioni degli sponsor. Ma per la sua famiglia, gli amici e anche per i compagni di scalate, è evidente che Tom, anche dopo aver accettato il supporto finanziario di alcuni sponsor, scalasse solo per se stesso, senza alcun condizionamento. «Tom non praticava l’alpinismo per diventare famoso» commenta Stefania, la fidanzata. Zimmerman la pensa allo stesso modo: «La mia impressione è che a Tom non importasse davvero nulla di tutto ciò. Accettava il supporto finanziario degli sponsor per potersi permettere l’equipag- giamento necessario per realizzare le sue imprese, che altrimenti sarebbero risultate troppo costose per lui. Ma il suo percorso come alpinista mi è sempre sembrato molto puro: lo faceva unicamente per se stesso». 

Altri hanno ipotizzato che Nardi avesse convinto un riluttante Ballard al tentativo sul Mummery. Ma Berti, che ha conosciuto Tom in maniera molto più profonda, non è d’accordo, come d’altra parte non lo è Moro. «Non credo che Tom fosse un ragazzo facile da convin- cere. Credo che alla fin fine desiderasse anche lui tentare quella via» afferma Moro. Anche Reinhold Messner si domanda quale sia stata la principale motivazione a spingere Ballard sul Mummery: 

«Forse stava cercando di fare qualcosa
di importante in Himalaya. Probabilmente le imprese che poteva realizzare a casa erano troppo semplici per lui. Non so». 

Due giorni prima della morte di Nardi e Ballard, Stefania Pederiva scrisse a Tom chiedendogli di rinunciare all’impresa e di tornare a casa. Nelle settimane precedenti la spedizione, Stefania aveva detto a Tom di avere un brutto presentimento e che desiderava che lui rinunciasse, qualcosa che non gli aveva mai chiesto. Il 22 febbraio Stefania mandò a Tom un messaggio in cui gli diceva di non essere felice per ciò che stava facendo, un messaggio a cui Tom rispose così: «Se non ti piace ciò che sto facendo, puoi sempre lasciarmi». Quella fu l’ultima comunicazione fra di loro. L’unico libro che Tom portò con sé sul Nanga era I sette pilastri della saggezza, che leggeva per sfuggire alla noia delle giornate trascorse in tenda. Ancora una volta la sua frase preferita è utile nell’offrire una chiave di lettura per la sua perseveranza nell’affrontare i pericoli del Mummery. Affogato in un linguaggio immaginifico, nella frase di T.E. Lawrence si nasconde un ammonimento: «Quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi»; o se vogliamo interpretarla in un altro modo: l’ambizione nel realizzare i propri sogni può rendere ciechi di fronte ai pericoli che si corrono per raggiungerli. Vivere nella traccia lasciata dalla madre, ma cercando di superare i risultati da lei raggiunti, portandoli a un nuovo livello per eclissare la sua opprimente eredità era un’impresa estremamente pericolosa. «Sono profondamente cosciente di vivere all’ombra di mia madre» aveva detto un giorno Tom. «Le persone diranno sempre: Alison Hargreaves è morta sul K2 e bla, bla, bla e poi oh, a proposito, anche il figlio fa l’alpinista. Penso che questa percezione con il tempo potrà cambiare». Tentare lo sperone Mummery in inverno? Era solo un altro modo per alzare il tiro e renderle omaggio. 

*Michael Levy è redattore di Rock and Ice

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Tom al rifugio Leschaux, prima della salita invernale della Nord delle Grandes Jorasses sulla via Colton-Macintyre © Rugero Arena

Alla ricerca di Tom Ballard

Il collegamento si era interrotto all’improvviso, ma Alex Txikon non aveva alcun dubbio: il video che stava guardando mostrava due corpi senza vita; non c’era stato il tempo di scattare una foto, prima che il drone smettesse di trasmettere, ma l’immagine di quei due corpi si era impressa nella sua mente. «Ho riconosciuto i loro zaini, i guanti, i berretti che indossavano e anche la forma dei loro corpi» racconterà dopo. I due corpi, legati alla stessa corda, distanti non più di tre metri l’uno dall’altro, si trovavano a circa 5.800 metri, in un labirinto di rocce e neve. Il primo, ancora appeso alla corda, penzolava all’interno e fuori dall’inquadratura del drone; il secondo, anch’esso attaccato alla corda, giaceva riverso su una roccia, qualche metro al di sotto del suo compagno. Si trattava dei due alpinisti Daniele Nardi e Tom Ballard, di 42 e 30 anni; arrivati in Pakistan alla fine di dicembre del 2018 per tentare la terza salita invernale del Nanga Parbat (8.126 metri) attraverso il leggendario e incompiuto Sperone Mummery. 

La morte di Nardi e Ballard ha avuto un’incredibile eco su quotidiani e riviste di tutto il mondo, anche a causa delle nobili origini alpinistiche di Tom, figlio d’arte di Alison Hargreaves, definita da Reinhold Messner come la più forte fra le alpiniste donne. Hargreaves, dopo essere arrivata vicinissima all’obiettivo di salire per prima, in una singola stagione, le sei grandi pareti Nord delle Alpi, morì nel 1995, insieme ai sei compagni di spedizione, durante la discesa dal K2, in uno degli episodi più drammatici della storia dell’alpinismo, anch’esso protagonista sui quotidiani di tutto il mondo. Tom, che all’epoca della morte della madre era solo un bambino, cresciuto aveva poi ripercorso le tappe della carriera alpinistica di Alison, prima impegnandosi sulle pareti Nord delle Alpi, poi avventurandosi sulle montagne più alte del Pianeta e, proprio come la madre, era conosciuto e apprezzato nell’ambiente alpinistico per le sue imprese in solitaria. Il Nanga rappresentava per Tom il grande salto, forse addirittura troppo grande. Nardi aveva ripetutamente tentato lo Sperone Mummery negli anni precedenti, sviluppando un’autentica ossessione per quella via: la sua decisione di tornare in Pakistan per provare nuovamente la salita non aveva suscitato stupore nell’ambiente alpinistico, a differenza della partecipazione di Ballard. Affrontare per la prima volta un Ottomila, senza essersi mai cimentati su montagne al di sopra dei 6.000 metri, per di più durante la stagione invernale, periodo in cui le temperature diventano rigidissime e le montagne vengono spazzate da venti a 160 chilometri all’ora, significava forse alzare troppo l’asticella. 

Ma per comprendere appieno il livello della sfida portata avanti da Nardi e Ballard occorre considerare non solo le difficoltà dell’alpinismo invernale himalayano (la maggior parte dei 14 Ottomila sono stati saliti in invernale una sola volta), ma anche il fatto che la via scelta per la salita presenta un elevatissimo rischio di valanghe. Lo Sperone Mummery è infatti una costola rocciosa che sale, come la spina dorsale di un drago, dritta verso vetta, dalla parte bassa fino al plateau, che si trova al di sotto della piramide sommitale; una bellissima linea, indubbia- mente, ma estremamente rischiosa. Reinhold Messner e suo fratello Günther sono gli unici ad averla percorsa, prima di Nardi, Ballard ed Elisabeth Revol, la compagna di Nardi nel tentativo di salita del 2013. Nel 1970 i due fratelli Messner dovettero tentare la discesa lungo lo Sperone Mummery, poiché Günther presentava i sintomi del mal di montagna e non sarebbe sopravvissuto a un altro bivacco. 

Alison Hargreaves con Tom e Kate © Murdo MacLeod

Nei giorni del battage mediatico seguito alla scomparsa di Nardi e Ballard, proprio Messner parlerà con la stampa dello Sperone Mummery, definendolo la via più perico- losa sul Nanga Parbat e una scelta obbligata per lui e Günther, poi travolto e ucciso da una slavina nel corso della discesa; una via che, dalle sue stesse dichiarazioni, Messner mai avrebbe tentato in salita, in particolare in inverno, a causa dell’elevatissimo rischio costituito dalle valanghe e dai blocchi di ghiaccio che cadono dai tre seracchi sovrastanti lo Sperone.  Simone Moro, autore della prima salita invernale del Nanga Parbat nel 2016, e unico ad aver salito quattro Ottomila in inverno, ha definito l’impresa in maniera ancor più funesta, sottolineando come tentare lo Sperone Mummery fosse come partecipare a una roulette russa. 

Lo stesso Moro esprimerà in diverse interviste le sue perplessità sulla scelta compiuta da Ballard, evidenziando come la decisione di affrontare per la prima volta un Ottomila in invernale, lungo una via nuova e con il livello di pericolosità dello Sperone Mummery, non fosse proprio la strada maestra per l’inizio di una carriera sulle montagne più alte della Terra. Il tentativo di salita dello Sperone Mummery ha inizio per Nardi e Ballard nel mese di gennaio 2019; i due alpinisti trascorrono la maggior parte dei primi giorni battendo traccia in mezzo alla neve e tentando di non congelarsi. Tom, in un post scritto per il blog dello sponsor Montane, definisce la temperatura talmente rigida da consentirgli, all’interno della tenda, di leggere a malapena il capitolo di un libro, prima che le dita diventino troppo fredde per girare le pagine. Nell’attesa di condizioni meteo più favorevoli, i due alpinisti rimangono al campo base, dove cercano di mantenere la forma fisica con scalate in dry-tooling su qualche masso; l’arrivo di una finestra di alta pressione permette a Nardi e Ballard di piazzare Campo I, Campo II e infine Campo III, a quota 5.700 metri; da un post di Tom sappiamo che il Campo III, anche se ricavato all’interno di un crepaccio, è spazzato da un vento incessante e molto forte. Nei giorni seguenti le incursioni di Tom e Daniele al Campo II e III vengono sempre ostacolate da cattive condizioni meteo: 

«La costante minaccia delle valanghe non ci ha permesso di trascorrere la notte ai Campi II e III» scrive Ballard. A ogni successiva risalita ai campi le tende devono essere estratte da cumuli di neve portata dalle valanghe: «Il timore che il Campo I venisse sommerso ha fatto sì che rientrassimo al campo base: l’enorme valanga che ha travolto, poco dopo, la nostra linea di discesa ci ha confermato la bontà della decisione». Il pomeriggio del 24 febbraio 2019 Daniele Nardi chiama con il telefono satellitare uno dei suoi sponsor in Italia; i dati ricavati da quella chiamata GPS collocano Nardi e Ballard a 6.300 metri di quota. Durante la telefonata Daniele comunica la loro decisione di scendere al Campo IV, a quota 6.000 metri, in modo da potersi rifugiare all’interno della portaledge precedente- mente piazzata, per ripararsi dalla tempesta che sta investendo la montagna. Alle 18.30 l’ultima chiamata di Daniele alla moglie e quella successiva al Campo Base per comunicare la decisione di tentare di abbassarsi ancora di quota, fino al Campo III a 5.700 metri. Dopo quest’ultimo contatto il silenzio cala su Tom e Daniele e viene approntata una squadra per un tentativo di soccorso in quota. La prima settimana trascorre senza possibilità di agire a causa sia delle avverse condizioni meteo che delle tensioni politiche al confine fra India e Pakistan; il 3 marzo Alex Txikon e alcuni compagni di spedizione lasciano il campo base del K2 (dove erano impegnati negli stessi giorni nel tentativo di prima salita invernale) e vengono trasportati in elicottero al campo base del Nanga Parbat nella speranza di identificare la posizione di Nardi e Ballard sulla montagna. 

Nei giorni seguenti, come Daniele e Tom, la squadra di soccorso guidata da Alex Txikon deve più volte scendere al campo base per l’elevatissimo rischio di valanghe, che continuamente investono i campi più alti della via sullo Sperone; gli alpinisti trovano riparo rifugiandosi dentro i crepacci, ma il terreno estremamente instabile rende impossibile proseguire nella salita. Per questa ragione vengono utilizzati i droni per sorvolare lo Sperone e il 5 marzo Txikon avvista i corpi senza vita di Daniele e Tom. Sui media in quei giorni una serie di domande si rincorrono senza sosta. Perché Ballard aveva scelto una via così pericolosa e forse al di fuori della sua portata in termini di esperienza? Che cosa lo aveva indotto a continuare, nonostante avesse potuto sperimentare in prima persona quanto l’impresa fosse rischiosa? Quali ragioni lo avevano spinto a proseguire in un’impresa che sembrava così lontana dalle sue inclinazioni? Tom viene descritto dai suoi compagni di cordata come un alpinista perfettamente consapevole dei rischi e sempre molto attento alla sicurezza; uno di loro, Marco Berti, racconterà in seguito come Ballard fosse solito, sulle vie lunghe in Europa, piazzare chiodi anche su pareti di terzo grado. Ma pure il Ballard delle imprese in solitaria, che scalava con regolarità vie di grado fino al 5.12c (N.d.T.: 7b/7b+) senza corda - una su tutte Master of Disaster a San Nicolò in Trentino - si era sempre mantenuto all’interno di un limite per lui accettabile di sicurezza. Per rispondere a queste domande occorre fare un passo indietro, tornando non solo alle esperienze di Ballard sulle montagne, ma alla storia alpinistica di sua madre. Comprendere le motivazioni di uno dei più prolifici esponenti del free solo del suo tempo e forse anche degli anni precedenti, non è un compito semplice, soprattutto se consideriamo che Ballard ha sempre portato avanti le sue imprese in maniera silenziosa, lontano dal clamore mediatico. Da un lato alcune affermazioni di Tom possono far pensare che l’eredità alpinistica della madre non fosse il principale motore per le sue imprese: 

«Penso che molte persone ritengano che scalando cerchi di avvicinarmi maggiormente a mia madre» aveva sottolineato durante un’intervista, «ma non è così. Io lo faccio solo per me stesso». 

Alison Hargreaves nel 1986 sul Kangtega © Mark Twight

Tuttavia gli obiettivi perseguiti e raggiunti da entrambi durante la loro carriera come alpinisti e il parallelo shakespeariano fra la vita di Tom e quella di sua madre confutano nei fatti le sue affermazioni. È proprio nel tentativo di seguire il percorso della madre, ma al tempo stesso di non esserne in toto definito, che risiede il germe della tragedia consumatasi sullo Sperone Mummery. Con il passare degli anni Tom assomigliava sempre di più a sua madre: le guance rotonde, spesso arrossate dal vento, il collo solido erano indubbiamente quelli di Alison Hargreaves, solo gli occhi azzurro ghiaccio non erano quelli della madre. A vent’anni Tom portava i capelli lunghi fino alle spalle, dopo si fece crescere un sottile pizzetto sul mento. Stefania Pederiva, sua fidanzata per cinque anni, parla di Tom come di un ragazzo dotato in qualsiasi cosa facesse, dall’arrampicata allo sci, ma anche nella scultura e nella fotografia.  Aveva letto e poi riletto dozzine di volte il suo libro preferito, I sette pilastri della saggezza di T.E. Lawrence, da cui era stato tratto il film Lawrence d’Arabia; strabordante di epica, a metà fra l’autobiografia e il romanzo, con un’epigrafe infarcita di misticismo, il libro di Lawrence racconta la sua esperienza di vita come emissario del governo inglese durante la rivolta araba contro l’impero ottomano nella Prima Guerra Mondiale. Stefania racconta di aver più volte tentato di terminare la lettura del voluminoso tomo, di oltre 600 pagine, senza esserci mai riuscita: «Credo che a Tom piacesse perché si ritrovava in quella storia, che rispecchiava il suo modo di vivere lontano dalla società». Ed è forse in una frase del libro di Lawrence, che Tom tanto amava, che possiamo trovare un collegamento con le sue imprese alpinistiche: «Quelli che di notte sognano nei polverosi angoli della propria mente scoprono, di giorno, che era solo vanità; ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno a occhi aperti, per attuarlo». 

Forse questa frase per Tom rappresentava la grandiosità dei sogni che aveva concepito per se stesso sulle montagne, sogni da custodire, senza parlarne con alcuno. Nei dieci anni precedenti la sua morte, Tom trasformò alcuni dei suoi sogni in realtà. Per molti dei suoi conoscenti Ballard rappresentava un talento cristallino nel mondo dell’alpinismo, nonostante il Piccolo Principe delle montagne, come lo aveva ribattezzato Stefania, fosse per lo più sconosciuto nel mondo dell’alpinismo di alto livello. Graham Zimmerman, amico e compagno di cordata di Tom, è convinto che la sua morte possa cambiare la situazione, rendendolo oggi famoso per le sue imprese nell’alpinismo: «In America ci sono molti climber che non conoscono Tom, ma penso che negli anni a venire, quando le imprese di Tom verranno rese note, diventerà molto più conosciuto all’interno della comunità alpinistica: le imprese che ha compiuto e i traguardi che ha raggiunto nella sua breve carriera sono incredibili». 

L’arrampicata nel sangue 

Uno dei ritornelli che si sentono più di frequente abbinati al nome di Tom Ballard è quello relativo al fatto che avesse salito l’Eiger già prima di nascere, infatti nell’estate del 1988, al quinto mese e mezzo di gravidanza, l’allora ventiseienne Alison Hargreaves aveva scalato la parete Nord dell’Eiger. Pochi mesi dopo, come raccontano Ed Douglas e David Rose in Le ragioni del cuore. Storia di Alison Hargreaves, Alison, intenta a fare sicurezza al marito Jim Ballard nella falesia locale di Cromford Black Rocks, aveva avvertito le prime contrazioni, che avevano portato alla nascita di Tom il giorno successivo. Due anni più tardi, Alison e Jim – lui stesso appassionato climber e gestore di un negozio d’arrampicata a partire dagli anni ’70 fino all’inizio degli anni ’90 – diedero il benvenuto alla sorella minore di Tom, Kate, portando così il clan dei Ballard a quattro membri. Alison era una climber emergente fra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, ma la nascita di Tom coincise con lo spostamento dei suoi interessi verso le grandi montagne himalayane, un terreno di gioco che si rivelò essere quello più adatto alle sue qualità. Durante la sua prima spedizione himalayana, nel 1986, mise a segno diverse ripetizioni e nuove linee sul Kangtega e sul Lobuche East in Nepal come parte di una squadra che comprendeva anche gli americani Jeff Lowe, Mark Twight e Tom Frost. Anche dopo la nascita di Tom e Kate, Hargreaves continuò la sua carriera di alpinista; viveva con la famiglia nel Derbyshire, in Inghilterra: un territorio prevalente- mente collinare interrotto solo dalle alture del Peak District. Tom frequentava la scuola locale, dove «faceva le esperienze tipiche dei bambini della sua età», racconta Jim; ma il normale scorrere della sua esistenza, fatta di giochi con i coetanei e d’inverno di scivolate con lo slittino sulla neve, veniva a volte interrotto da periodi, che potevano durare anche mesi, in cui tutta la famiglia si metteva in viaggio per assistere Alison durante le sue imprese sulle Alpi. 

Nell’estate del 1993, quando Tom aveva quattro anni e Kate due, Alison volle diventare la prima persona ad aver salito in solitaria le sei grandi pareti Nord delle Alpi (Eiger, Pizzo Badile, Grandes Jorasses, Petit Dru, Cima Grande di Lavaredo e Cervino) in una sola stagione. Tutta la famiglia la seguì, vivendo fra la Svizzera, la Francia e l’Italia.
Il progetto di Alison rappresentava una nuova interpretazione del traguardo raggiunto da Gaston Rébuffat negli anni ’50, il primo ad aver salito le sei grandi pareti Nord delle Alpi. Rébuffat, concluso il progetto, nel 1954 aveva raccolto in un libro, dal titolo Étoiles et Tempêtes (pubblicato in inglese con il titolo Starlight and Storm e in italiano con Stelle e tempeste) il resoconto dell’impresa. Al termine del progetto Hargreaves probabilmente spinta nella ricerca di notorietà dal marito manager, decise a sua volta di pubblicare un libro con il resoconto dell’impresa (A Hard Day’s Summer), ma il risultato fu molto diverso dalle aspettative, forse anche a causa del fatto che il progetto non fosse in realtà stato realizzato nella sua interezza. Alison infatti non aveva salito la parete Nord dell’Eiger, ma quella Nord-Est, attraverso la meno impegnativa via Lauper; nonostante questa discrepanza, sia all’epoca che oggi, molte fonti la definiscono come la prima persona ad aver salito in solitaria le sei grandi pareti Nord delle Alpi. 

Il libro contiene anche il racconto di un macabro ritrova- mento avvenuto durante la discesa dalla vetta dell’Eiger; lungo la via infatti Alison si era imbattuta in svariati pezzi di equipaggiamento: una vite da ghiaccio, una piccozza, un guanto e altri piccoli frammenti non perfettamente riconoscibili e alla fine dei detriti aveva identificato il corpo senza vita di un alpinista. Si trattava di un alpinista spagnolo che aveva tentato la salita ed era morto cadendo, una specie di monito agli occhi di Alison sulla pericolosità e i rischi della sua vocazione. Nel corso della sua vita la Hargreaves venne spesso criticata ed etichettata come una madre irresponsabile per le sue imprese alpinistiche, portate avanti anche dopo la nascita dei due figli: un chiaro esempio di discriminazione femminile, dato che raramente lo stesso tipo di accusa viene rivolta ad alpinisti maschi con figli piccoli. L’impresa, quasi riuscita, di scalare in solitaria in una sola stagione le sei grandi pareti Nord delle Alpi rappresentò per Alison un grosso passo avanti in termini di notorietà nel mondo dell’alpinismo; la famiglia si trasferì in Scozia, stabilendosi a Fort William, vicino alla montagna più alta delle isole britanniche: Ben Nevis. Sullo slancio di quell’estate, Alison decise di portare la sfida a un livello più alto: avrebbe tentato la salita all’Everest senza ossigeno supplementare, impresa che era riuscita prima a una sola donna, Lydia Bradley. Esattamente come Tom, 24 anni dopo, Hargreaves non aveva alcuna esperienza al di sopra degli 8.000 metri e neppure dei 7.000, ma con l’intera famiglia appresso, nell’estate del 1994, partì per il Nepal. Tentò la vetta tre volte, arrivando nel secondo tentativo a circa 8.400 metri, ma tornò indietro per la paura di morire congelata. 

Tuttavia il fallimento del 1994 non la scoraggiò, anzi la indusse a tornare in Nepal l’anno seguente - da sola, senza la famiglia - con un progetto ancor più ambizioso: salire l’Everest da sola, senza ossigeno supplementare e senza alcun tipo di supporto: nessun aiuto esterno, nessuna possibilità di utilizzare corde fisse, né le tende di altri alpinisti. L’unico alpinista, fino a quel momento, in grado di compiere un’impresa del genere era stato l’ineguagliabile Reinhold Messner, che fu anche il primo al mondo a scalare tutte le 14 vette degli Ottomila. Ma Alison riuscì nell’impresa, arrivando al punto di rifiutare anche una tazza di tè, come scrisse Alison Osius, editor della rivista Climbing. Hargreaves voleva neutralizzare ogni possibilità di attacco alla sua impresa, per evitare il ripetersi della polemica nata dopo il progetto sulle grandi pareti Nord delle Alpi, e ci riuscì. Più tardi, durante l’estate del 1995, decise di prendere parte a una spedizione per la conquista del K2; all’arrivo della finestra per il tentativo di vetta, la situazione della montagna venne ritenuta eccessivamente pericolosa dagli alpinisti della squadra di Alison e dalle altre spedizioni presenti. Alison vacillò lungamente fra il desiderio di tentare e quello di abbandonare; alla fine, nel pomeriggio del 13 agosto, prese la decisione di portare l’attacco alla vetta, che raggiunse alle 18.45, troppo tardi per trovarsi così in alto sulla montagna. Quello stesso giorno il neozelandese Peter Hillary, dopo aver visto sopraggiungere all’orizzonte nubi inquietanti, aveva rinunciato alla salita; le stesse nubi che avvolsero la montagna nel momento in cui Alison raggiunse la vetta. Durante la discesa la Hargreaves e sei altri alpinisti persero la vita nella terribile bufera che investì la montagna; fra essi anche l’americano Rob Slater, famoso per il suo motto La vetta o la morte, in ogni caso vinco. 

Alison fu strappata dalla montagna da un vento a oltre 160 chilometri all’ora; il corpo identificato a 7.400 metri di quota si presume appartenesse a lei, sebbene la conferma ufficiale non sia mai arrivata. Alison Hargreaves aveva 33 anni. 

A causa della difficoltà di reperire informazioni in tempo reale, Jim Ballard chiamò la redazione della rivista Climbing, nella speranza di ricevere gli ultimi aggiorna- menti sulle condizioni della moglie. Nel lungo servizio pubblicato sulla rivista, Alison Osius racconterà quella telefonata di Jim Ballard, descrivendola in questo modo: «Ballard parlava a voce bassa, come se non volesse farsi sentire dai bambini, che canticchiavano in sottofondo». Kate aveva 4 anni e Tom 6. Cosa ricordano la maggior parte delle persone di quando avevano sei anni? Il momento in cui hanno imparato ad andare in bicicletta per la prima volta? Il profumo della mamma o dell’acqua di colonia del papà? I giochi con gli amici nel cortile della scuola? A Tom rimasero solo immagini sfocate: in un’intervista al giornalista Robert Chalmers nel 2015 disse di «non ricordare quasi nulla della madre» se non che fosse una persona gentile e generosa, anche se fortemente determinata. Sulla scia della morte di Alison infuriò, sui quotidiani britannici, lo stesso dibattito che era seguito alla sua impresa sull’Eiger durante la gravidanza. La domanda ricorrente era se fosse moralmente giusto per la madre di due bambini piccoli tentare la salita al K2. Il Sunday Times pubblicò un articolo dal titolo Il K2 non è per le madri, il Daily Express un altro: La coraggiosa Alison era una buona madre?. Ma Tom non provò mai alcun rancore o risenti- mento verso la madre per aver scelto la via pericolosa della montagna e non essere tornata indietro. «Perché la capisco - spiegò a Chalmers - comprendo perfettamente perché lo facesse. Preferisco che sia morta inseguendo la sua passione che in un altro modo». 


Sopra, Alison Hargreaves
© Mark Twight. A destra, Tom con il padre Jim © Rugero Arena

I pilastri della saggezza 

Quattordici anni dopo, nell’inverno del 2009, Ballard, all’epoca ventenne, affrontò per la seconda volta la parete Nord dell’Eiger, dopo averla salita mentre si trovava ancora nella pancia della madre. Aveva deciso di tentare la ripetizione di Scottish Pillars (5.10 – A3), una via aperta nel 1970 nella zona sinistra della stessa parete. In Scozia Ballard aveva sviluppato una vera passione per le imprese in solo, con o senza corda, sia su roccia che su ghiaccio in inverno. Durante quella stagione, vivendo con il padre e la sorella in un granaio ad Alpiglen, Grindelwald, vicino alla base della montagna, Tom riuscì a risolvere l’inizio della via, ma il cattivo tempo ne limitò di molto i progressi; tuttavia i costanti avanzamenti lo portarono nella tarda primavera a completare la ripetizione. Con quella realizzazione, Tom maturò la consapevolezza di essere in grado di scalare in libera Scottish Pillars, ma anche che c’era il potenziale per l’apertura di una nuova via di fianco a essa; prima che l’estate fosse terminata, aveva raggiunto entrambi gli obiettivi. Battezzò la variante di Scottish Pillars, aperta in libera, Solitaire e aprì la nuova via, in solitaria - con la protezione della sola corda - che chiamò Seven Pillars of Wisdom (ED 5.12b - N.d.T: 7b/7b+). 

Ma più che un semplice gioco di parole, il nome scelto per il battesimo della nuova via rappresentava un chiaro rimando al libro preferito di Tom e un’autentica dichiarazione di intenti: avrebbe realizzato i suoi sogni, ma con lucidità e tenendo gli occhi ben aperti. Nel corso dei sette anni successivi, Jim mantenne fede alla promessa fatta ad Alison: «Qualunque cosa dovesse accadere a uno di noi, non impedirà all’altro di far condurre ai bambini una vita avventurosa»; girando l’Europa, come casa un Volkswagen bianco, Jim e Tom andavano alla ricerca di buone condizioni sulle Alpi. Conducevano una vita modesta: facendosi il tè con una tecnica appresa dagli sherpa in Nepal, giocando a carte, aggiustando l’attrezzatura rotta, sonnecchiando o leggendo e arrampicando; arrampicando in continuazione. 

*Michael Levy è redattore di Rock and Ice

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