Skialper amarcord

Quindici anni da bordo pista nelle gare di skialp non sono pochi. Diciamo che una volta questa rivista si occupava contemporaneamente di fondo e di scialpinismo con qualche ritaglio per il telemark ed era normale per quei tempi incontrare atleti in gara che praticavano entrambe le discipline. Solitamente la nostra coppia, composta da me e Idlaba, armata di macchine fotografiche e cineprese, andava a piazzarsi nei punti cruciali dei percorsi per ottenere le immagini migliori. Per quanto riguarda il fondo il problema era il sole: trovare una postazione che almeno per qualche ora venisse baciata dalla luce per ottenere scatti esclusivi e suggestivi di passaggi in gara. Nello skialp era sufficiente che uno dei due si portasse in quota per attendere l’arrivo degli atleti in posizioni esclusive. Ed è proprio da questo coinvolgimento a un metro dagli atleti in gara che abbiamo colto sensazioni, commenti, incitamenti che chi rimane al traguardo non riesce a catturare. Alcuni ci sono rimasti impressi.

Il primo Kilian e Lenzi

Qualche giorno prima degli Europei di scialpinismo di Morzine-Avoriaz del 2007 ero in Alto Adige per seguire un Campionato Italiano Giovani di fondo: era come sempre mia intenzione cogliere le indicazioni che venivano da queste gare per ricercare il nuovo campione, quello in grado di primeggiare in Coppa del Mondo appena diventato grande. In particolare la mia attenzione era rivolta a Damiano Lenzi, atleta azzurro della leva giovanile. Il motivo era semplice: questo ragazzo della Val d’Ossola manifestava grande interesse per lo skialp e in qualche occasione lo avevamo visto all’opera in alcune manifestazioni minori. L’equazione era piuttosto semplice: un giovane abituato a stramazzarsi di fatica nelle gare di fondo - Lenzi era forte in tecnica classica - avrebbe potuto fare sfracelli nello scialpinismo in cui la componente fatica e motore erano altrettanto importanti. A detta del suo allenatore, Vincenzo Trozzi, del Centro Italia, il ragazzo era piuttosto dotato e mal volentieri gli dava l’approvazione per praticare lo skialp, anche se verso fine inverno gli concedeva il nulla osta quasi come un premio per quanto si era impegnato nel fondo.

E così Lenzi si era guadagnato la partecipazione agli Europei di Morzine-Avoriaz con gli altri azzurrini a difendere i colori dell’Italia. Il giorno del vertical ho raggiunto una postazione a metà percorso in un punto in cui presumevo che il plotone si fosse già sgranato e che gli atleti migliori avessero preso il largo. Idalba un po’ più in basso, appena fuori dal bosco. Pronti, via! Da dove ero piazzato potevo seguire dall’alto il serpentone che velocemente risaliva. Più gli atleti si avvicinavano e più si delineavano le posizioni di testa in base ai colori delle tutine. Qualcosa non quadrava: nella mia assoluta certezza che Lenzi dovesse mangiarsi tutti, proprio grazie al suo grande allenamento nel fondo, non era in testa… Davanti a me è transitato uno spagnolo pressoché sconosciuto seguito da un francese, un po’ staccato Damiano Lenzi, visibilmente provato dal forcing dei due battistrada. Il ragazzo con la tuta della Spagna era Kilian Jornet Burgada.

Ed ecco a voi Laetitia Roux

Durante lo stesso vertical, dopo i Giovani sarebbero transitati i Senior, che avevano la partenza più in basso. Giusto il tempo di scendere e prendere la seggiovia per raggiungere il traguardo e di qui riprendere ancora un po’ di quota per scattare qualche bella foto dell’arrivo dei grandi. Guardando verso valle lungo il tracciato di gara cercavo di individuare l’inconfondibile teoria degli atleti in salita, ma non c’era ancora nessuno all’orizzonte salvo la sagoma di una ragazza con una vistosa tutina color prugna e una folta capigliatura nera a cespuglio. «Bah, sarà fuori gara, oppure un’apripista…».

In realtà aveva anche il numero e intanto saliva con quello strano ancheggiamento nel caricare lo sci che avanzava che l’avrebbe resa inconfondibile per anni. Laetitia Roux, Equipe de France. Nei giorni successivi avrebbero provveduto a dotarla di una tutina della nazionale per la gara individuale e per intanto alle sue spalle, a debita distanza, arrancavano atlete del calibro di Pedranzini e Martinelli. Questa edizione degli Europei in Francia ci aveva portato due astri nascenti nel firmamento dello skialp.

Mezzalama 2003, Gignoux come un cieco

Edizione epica che molti ricorderanno per il gran freddo e per il vento che ha sferzato le creste per tutto il giorno. A farne le spese la fortissima squadra composta da Gignoux, Brosse e Pellissier che ha dovuto arrendersi agli svizzeri Elmer, Farquet, Zurbrugg. Quel giorno siamo saliti da Gressoney per immortalare il passaggio delle squadre nel famigerato Canale dell’Aquila che per l’occasione già al mattino si presentava disseminato di gobboni, residuo dei passaggi dei freerider che frequentano la zona. In verità quando la gara si avvicinava ero certo di veder transitare gli amici francesi in testa e invece sono state le tutine rosse degli svizzeri a passare per prime. Dopo qualche minuto ecco Jean Pellissier da solo: qualcosa non andava. Poi Brosse che cercava di guidare a valle un irriconoscibile Gignoux in evidente difficoltà che non ce la faceva a districarsi nel mare di cunette del canale. Proprio lui che del terzetto era certamente il migliore in discesa.

Appena giunto al traguardo ho potuto conoscere il motivo della debacle: il vento forte aveva strappato le lenti a contatto del nostro caro ingegnere. Questo guaio, unito al congelamento di un orecchio, lo aveva reso cieco e privo di equilibrio. Qualcuno a bordo pista commentò che il francese era talmente cotto da non reggersi in piedi in discesa. Ma non era così! Durante le riprese di un DVD sulla tecnica dello skialp ho potuto apprezzare le grandi qualità di Pierre, sempre in grado di superare con eleganza e padronanza ogni difficoltà, dallo sci ripido ai salti, alle nevi impossibili. Beh, quella volta è andata così.

© Enrico Marta

Cazzi e Pippo, una coppia fortissima

Siamo nel 2009, Filippo Righi e François Cazzanelli fanno parte della nazionale giovani. Uno spilungone con la faccia simpatica, l’altro più piccolino con la faccia perennemente preoccupata. La Pierra Menta 2009, come da tradizione, prevede che i Giovani gareggino gli ultimi due giorni dei quattro previsti per i Senior. E, come da programma, in una limpida mattina di marzo gli atleti sono impegnati nella zona del Col de Dard. E noi dove siamo? Ovviamente nei punti salienti, in alto, ad attendere il passaggio degli uni e degli altri. Non si tratta di una sola salita e di una discesa, ma di diversi saliscendi con vari cambi pelli. E proprio in occasione del passaggio dei primi Giovani abbiamo il piacere di trovare la coppia Cazzanelli - Righi in testa. Ci passano accanto e, nonostante la fatica, il loro è un incitamento reciproco e continuo.

«Dai Pippo tieni duro!»

«Vai Cazzi non mollare, credici!»

«Osa Cazzi, osa!».

Simpaticissimi nel loro modo di affrontare la difficile prova. Quell’anno, osa che ti osa, si sono piazzati al secondo posto della classifica generale di categoria alle spalle dei due Gachet, che correvano in casa, distaccati di un minuto e venti. Altra bella impresa della premiata ditta Cazzi e Pippo è stata quella del Mezzalama dello stesso anno, quando portarono a termine il percorso gareggiando fuori classifica per il limite di età. Il terzetto era completato da Michele Boscacci. Nelle immagini della partenza si notano i tre atleti con la divisa della nazionale che partono in contemporanea con i grandi, ma cinquanta metri più a monte. La loro gara rimarrà memorabile dal momento che il tempo finale li farà rientrare ampiamente fra le prime dieci squadre. Negli anni seguenti Righi ha mollato e Cazzanelli si è dedicato anima e corpo all’alpinismo, cogliendo gli importanti risultati che oggi tutti conosciamo. D’altronde il suo mentore e allenatore Camandona lo diceva già allora: «François diventerà un grande hymalaista, ha la stoffa».

© Enrico Marta

Le grandi performance di Guido Giacomelli

Che dire di Guido? Difficile dargli una collocazione precisa: troppo estroso per una gara a squadre, troppo impulsivo per una tattica di gara, troppo taciturno per un normale rapporto con i giornalisti e la stampa nonché con gli altri skialper. Eppure Guido mi è sempre piaciuto un sacco: per me è stato il campione più limpido che abbia mai incontrato nello skialp e sì che di atleti ne ho conosciuti - perché lui aveva un qualcosa in più che lo rendeva diverso e gli faceva improvvisare delle prestazioni che nessuno si poteva aspettare. Lo ricordo ventenne nell’Esercito, ma ci rimane giusto il periodo della ferma: non aveva il carattere per sopportare la disciplina e i ritmi della caserma. Dopo un paio di stagioni eccolo ritornare alla ribalta e di lì in avanti regalarci perle di eccezionale livello.

Ha fatto copia con il buon vecchio Lunger che probabilmente gli voleva anche un sacco di bene per accettare le sue accelerazioni in salita e i folli inseguimenti in discesa nei confronti delle altre squadre, come per voler dire: «Ci sono sempre io qui, dove credete di andare». Ricordo un passaggio in punta al Meriggio alle calcagna di Brunod e Reichegger - Lunger ormai aveva perso terreno e sarebbe arrivato con qualche minuto di ritardo -; mentre io ero intento a scattare foto dell’ultimo tratto di salita con croce di vetta in prospettiva, non ho potuto assistere al primo tratto di discesa, che partiva dopo pochi metri. Però quando ho sentito un boato da stadio ho capito che era successo qualcosa di grosso. Infatti il nostro Guido si era buttato dritto sul primo plateau innevato senza curarsi del fatto, non trascurabile, che al fondo la neve finiva in una traccetta di erba e sassi. Quel giorno il boato è stato giustificato dal fatto che in quel tratto senza neve lui c’era entrato agli ottanta all’ora e ne era anche uscito indenne. Agli Europei dell’Alpago lo abbiamo visto correre su un tratto di cresta seguito da una discesa in neve alta sul versante Nord della montagna: quel giorno le cose non sono andate come al solito e il nostro campione ci ha rimesso un ginocchio. Ripresosi dall’incidente, credo la stagione successiva, ai Mondiali di Claut, mi hanno raccontato dei collaboratori che nell’ultimo tratto di discesa prima del paese il tracciato prevedeva il passaggio in un punto in cui c’era poca neve e la poca che c’era era coperta da trucioli di legno dove avevano lavorato i boscaioli. Un tratto che imponeva attenzione e prudenza, ma per Guido era un invito a nozze e proprio su quei trucioli, dritto per dritto, ha infilato i battistrada che non hanno nemmeno potuto accorgersi del suo arrivo alle spalle. E questi erano discesisti del calibro di Bon Mardion… Stupendo, ineguagliabile campione che ha sempre buttato il cuore oltre l’ostacolo.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 129 DI APRILE 2020

© Enrico Marta

Lunga vita alla raspa

Un bastone per fare attrito e per appoggiarsi in discesa, sia con gli sci che a piedi: le immagini d'epoca sono piene di montanari e guide che scendono ripidi pendii e ghiacciai esercitando pressione su un lungo bastone o alpenstock. Potremmo affermare che si tratti di una tecnica vecchia come il mondo… Per quanto riguarda il mondo dello sci i bastoni hanno sempre costituito un espediente fondamentale per controllare e rallentare la scivolata verso valle. Le gare della prima metà del secolo scorso proponevano un mix di salita e discesa su terreni non battuti in cui la traccia ospitava a malapena due sci. I talloni erano liberi e le possibilità di perdere il controllo e di cadere erano numerose, veniva dunque spontaneo adottare quella che noi chiamiamo la tecnica a raspa che consisteva nell'impugnare i due bastoncini insieme per esercitare una leva in grado di generare un forte attrito sul manto nevoso, solcandolo come con un aratro. I francesi la chiamano sorcière, la strega con la scopa fra le gambe.

Raccontava lo zio di un mio caro amico, valligiano delle Valli di Lanzo, appassionato di fondo, che negli anni cinquanta partecipava a gare di sci pur non essendo un bravo sciatore. Il suo espediente era alquanto curioso e semplice allo stesso tempo: la sera prima della gara faceva il giro del percorso prescelto nascondendo in cima alle salite un bel bastone - lou brancougno come lo chiamava lui - e quando scollinava in gara non faceva altro che imbracciare il bastone e calarsi a raspa in tutta sicurezza.
Ma la raspa non ha cessato di esistere con gli anni cinquanta, infatti anche fondisti provetti non esitavano a ricorrervi nelle situazioni estreme laddove la conformazione della pista impediva di frenare a spazzaneve o in qualsiasi altro modo. Ho visto molti fondisti accennare passaggi a raspa anche durante la Marcialonga moderna proprio per scongiurare rovinose cadute come nell'affollata discesa di Soraga.

© Stefano Jeantet

Quella che interessa a noi è essenzialmente la raspa usata nello scialpinismo. Al riguardo bisogna aprire una breve parentesi per parlare della nostra rivista al fine di meglio comprendere quella che è stata la tecnica a raspa negli ultimi due decenni prima del 2000.
Quando fondai la rivista Fondo e Telemark, mi avvalsi della collaborazione, preziosissima, di due fondisti: Davide Pellegrino e Gabriele Ghisafi, a loro va il merito di avermi introdotto all'ambiente dello sci di fondo. Allestimmo i test materiali e i servizi tecnici passando molto tempo sulla neve a parlare di scioline, di ponti e di attrezzatura. Fu proprio in occasione di questi raduni che mi accorsi che i miei collaboratori non appena era possibile iniziavano a parlare di gare di scialpinismo e che quando finiva la stagione invernale il loro interesse si trasferiva allo skialp. I temi erano legati ai grandi eventi, a gare come il Mezzalama e la Patrouille senza trascurare quelle più locali come il Trofeo Parravicini o il Fillietroz, per citarne alcune.

Si correva in pattuglie da due o da tre e la tecnica prevedeva l'uso delle pelli per la salita e la raspa per la discesa. E fu proprio in occasione di un test allo Stelvio che ebbi modo di assaporare la raspa: terminati i test degli sci classic, nel tardo pomeriggio venni invitato dai miei due collaboratori a fare un giro con le pelli, e ovviamente con bastoni da raspa. Il terreno prescelto fu il ripido pendio di fronte all'Albergo Folgore. La salita non la ricordo particolarmente impegnativa nonostante la ripidità del terreno, ma il bello è venuto quando ci siamo trovati ben in alto… Sotto lo sguardo sornione di Davide e Gabriele, che probabilmente si erano fatti cenni d'intesa, venni invitato a buttarmi in massima pendenza con i bastoni in mezzo alle gambe. A questo punto non potevo tirarmi indietro: dopo una vita sugli sci come avrei potuto fare sfigurare davanti a due fondisti? E allora giù! Stavo prendendoci gusto, era una bella sensazione, mi sembrava di essere un motoscafo. In quell'istante venni sfiorato e superato dai due che avevano atteso a monte per godersi un'eventuale mia caduta e piuttosto indispettiti mi avevano superato inondandomi di neve marcia. Questo il mio battesimo con la raspa. Da quel giorno e per quasi due anni non ho fatto altro che salire con le pelli, sci da fondo, mezzofondo o classici, per poi scendere a raspa fra il disappunto di quanti erano presenti sulla montagna intenti a inanellare scodinzoli in neve fresca.

Il contenuto tecnico della raspa ebbe un sussulto non appena qualcuno iniziò a utilizzare i bastoncini della Leki - ideati peraltro per le figure del freestyle - che sapientemente imbottiti con tubi di polistirolo (quelli usati per isolare i tubi nella termotecnica) e dotati di papere a stella di alluminio diventavano attrezzi infernali che permettevano velocità folli e la possibilità di superare qualsiasi pendenza.
Soprattutto in Valle d'Aosta, in Lombardia e Piemonte la raspa la faceva da padrona: nelle gare si usavano di norma sci da fondo da tecnica classica mentre in alcune classiche come il Mezzalama venivano preferiti sci laminati più larghi e pesanti.
I grandi interpreti di quegli anni appartenevano ai gruppi sportivi militari: si trattava di grandi fondisti con un passato in squadra nazionale che portavano a termine la carriera dedicandosi quasi esclusivamente allo scialpinismo. Si racconta che Jordanney dell'Esercito fosse un grande raspista, stessa cosa per il forestale Mazzocchi, per il piemontese Darioli e per non parlare dei gressonari come Ghisafi, Angster, Chiò per citarne alcuni.
Ed è proprio a proposito di Stefano Chiò che il mio collaboratore Ghisafi era solito scherzare sulla sua spericolatezza a raspa: «Ma era un po' ripido quel tratto eh?». In effetti era passato a manetta lungo una cascata di ghiaccio durante uno degli allenamenti in valle. Ma aneddoti di questo tipo non si contavano: era una battaglia fra diverse vallate, fra gruppi sportivi e squadre di civili, fra Guide alpine e Maestri di sci. Su tutti brillava la stella di Stefano Ghisafi, uno dei tre fratelli di Gressoney, dotato di un motore eccezionale, di grande tecnica fondistica e di capacità in discesa fuori dal comune. Corre voce che in gara le altre pattuglie facessero un gran forcing per scollinare con il miglior vantaggio per arginare il ritorno di questo grande atleta e dei suoi fratelli, che in discesa avevano prestazioni stellari.

Tutto stava andando per il meglio quando all'orizzonte si è delineata una nuova figura che avrebbe sconvolto il mondo delle gare: Fabio Meraldi, Guida alpina di Bormio che gareggiava con attrezzatura classica in pattuglia dapprima con Adriano Greco poi con Chicco Pedrini, tutti Guide alpine. Nel frattempo il numero 20 di Fondo e Telemark si arricchiva di una terza dicitura in copertina: Ski-alp, un termine da me inventato e che ora è divenuto di dominio pubblico per indicare una nuova era dello scialpinismo fatto di materiali super leggeri e di tutine da gara. La copertina riportava la foto suggestiva di un passaggio del Mezzalama del 1999 con Ettore Champretavy attrezzato da mezzofondo e da raspa, in prospettiva legati a lui altri atleti con inconfondibili bastoni da raspa. Grazie a quella copertina il numero ebbe grande successo e fu allora che compresi l'importanza dello ski-alp fino a farlo diventare la parte preponderante della rivista per arrivare al definitivo abbandono dello sci di fondo, ma questa è un'altra storia…
All'interno di quel numero c'era un altro servizio che aveva calamitato l'interesse di moltissimi lettori: «Ecco a voi Fabio Meraldi!» Ho passato molte giornate con lui per essere in grado di comprendere la sua tecnica, il saper modificare i materiali per renderli più leggeri e competitivi rispetto a quelli usati dai fondisti. Nessuna reticenza, nessun segreto: il grande Fabio si è dato in pasto alla curiosità degli appassionati e nel giro di una stagione le piste si sono popolate di atleti in tuta leggera, zainetto minimo e scarponi alleggeriti, che quando arrivavano in cima staccavano le pelli bloccando gli attacchi e gli scarponi in pochi secondi. Era fatta, avevamo costruito il mostro!
Quando ho detto a Meraldi che avrei parlato di raspa e di gare ha voluto raccontarmi le incredibili vicende del Mezzalama 1997. Lui correva con Pedrini e Omar Oprandi, i loro fortissimi competitor erano i forestali con il terzetto eccezionale Follis, Mazzocchi e Fontana, l'Esercito metteva in campo Invernizzi, Conta e Holzner, la squadra dei civili più accreditata era composta da Stefano e Fabio Ghisafi con Stefano Chiò. Questa era la prima edizione che prevedeva la partenza dal Breuil, mi trovavo sul Ventina quando nella penombra sfilavano tutte le squadre in fila indiana. Ricordo che mi colpì, nella semioscurità, il gesto tecnico di Stefano Ghisafi che procedeva con una sorte di passo finlandese in salita: destro, sinistro e doppio appoggio con i suoi bei bastoni imbottiti.
Ma l'epilogo avveniva fra il Naso e il Mantova. Racconta Meraldi: «Eravamo stati in testa fino al Castore poi erano passati avanti i forestali, da dietro si facevano minacciosi i tre dell'esercito che, appena accodati, avevano detto a Oprandi di passare parola affinché ci spostassimo per dar loro strada. Io ero davanti e ho incrementato il ritmo, da lì non li abbiamo più visti. Intanto nella discesa dal Naso i forestali si erano ulteriormente avvantaggiati: effettuando la discesa a raspa senza togliere le pelli, avevano potuto partire per una breve salita in perfetto assetto mentre noi da dietro avevamo dovuto arrabattarci con la scaletta e un po' di pattinaggio. Sembrava fatta per loro, senonché nella discesa sopra il Mantova i tre, scendendo legati a raspa, avevano preso dentro una palina segnaletica che ha generato un grande groviglio di corde e scompiglio nella pattuglia, proprio quando noi siamo passati in testa per non essere più raggiunti».

Il tramonto della raspa non è legato a questo avvenimento ma soprattutto alle limitazioni imposte dagli organizzatori delle diverse gare che hanno prima proibito l'uso degli sci stretti e poi l'utilizzo della tecnica a raspa. Così è stato per la Pierra Menta da subito, poi per il Tour du Rutor, per il Mezzalama per arrivare alla Patrouille, fino allora tempio della raspa e della grande pattuglia di guardie di frontiera ex fondisti Bucks, Farquet ed Elmer.
Ma la raspa non è morta: se si vogliono provare delle sensazioni forti non c'è che salire in vetta al Gran Paradiso e raggiungere il Vittorio Emanuele senza fare una curva fra lo sbigottimento generale dei classici...

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER N. 122, INFO QUI

© Stefano Jeantet

L'ultimo saluto a Stephane Brosse

A Thones i funerali dello ski-alper scomparso sul Monte Bianco

Una giornata radiosa quella di ieri, di quelle ideali per andare in montagna ma persin troppo bella per accompagnare un amico nel suo ultimo viaggio. Così ieri alle 14.30 il simpatico paesino di Thones sopra Annecy si è riempito di gente venuta dalla regione e da località più lontane per portare l'ultimo saluto a Stephane Brosse.
La grande chiesa in centro al paese, il sagrato gremito di giovani sul cui volto trasparivano le caratteristiche proprie di chi fa sport di montagna. Su tre pannelli le foto di Stephane, molte immagini, ora in azione ora sorridente con i suoi bambini e la sua compagna. Poi la cerimonia in chiesa. Il parroco che parla di questo ultimo viaggio: ramponi, boudrier, pila frontale… Poi gli amici che a turno salgono all'altare per leggere un proprio messaggio, un ricordo dell'amico scomparso.
Molto toccante il discorso del responsabile della Fournier - Mobalpa, la fabbrica di cucine per la quale Brosse lavorava da vent'anni in qualità di responsabile marketing e di produzione, con considerazioni sulle qualità di quest'uomo che noi già abbiamo avuto modo di apprezzare durante gli anni della collaborazione con la nostra casa editrice.

E poi l'uscita dalla chiesa, interminabile, la bara sul sagrato con gli amici che uno alla volta vanno a posare una pietra davanti alla bara sotto lo sguardo affranto di Nadege, la moglie, sorretta dai parenti in questa sua grande disperazione.
Due bambini e uno in arrivo, a breve… Come farà Nadege a spiegare loro che papà non tornerà più? Fra i convenuti ci sono le facce note: se non fosse per la triste circostanza sembrerebbe di essere al briefing della Pierra Menta…
Kilian è distrutto, sembra invecchiato di anni. In compagnia della mamma segue le esequie fra i banchi dei parenti stretti.
Guido Giacomelli e Jean Pellissier, che con Stephane hanno vinto Mezzalama e Patrouille, sono saliti anch'essi a Thones con una delegazione tutta italiana. I fratelli Blanc al completo rendono omaggio al feretro. Pierre Gignoux, il compagno di mille battaglie è prostrato: la loro amicizia è rimasta stretta anche dopo il periodo delle gare.
C'è anche Pierre Tardivel che con Brosse ha portato a termine alcune discese di sci estremo in questi ultimi anni...
Difficile immaginare il futuro di questa famigliola che viveva in una casa immersa nella montagna, lontano dal paese, noi non possiamo che augurare loro ogni bene certi che se in loro c'è parte della forza del papà riusciranno a superare questa immane tragedia.


Stephane Brosse perde la vita sul Monte Bianco

Grande scialpinista, amico e collaboratore di Ski-alper, era con Kilian

La notizia sta ormai facendo il giro del mondo: il drammatico tam tam sta coinvolgendo amici e appassionati precipitando nella disperazione quanti hanno avuto modo di conoscere un grande personaggio dello scialpinismo come Stephane. Il suo palmarès è impressionante: dopo aver interrotto la carriera agonistica a soli 35 anni l'elenco delle vittorie è di quelli difficili da eguagliare annoverando fra l'altro tre titoli mondiali, un europeo, una vittoria al Mezzalama nel 2005 con Blanc e Giacomelli e due secondi posti sempre nella classicissima italiana, due vittorie alla Patrouille, una volta con Pellissier e Blanc e l'altra con Giacomelli e Blanc. Poi una nuova passione: lo sci estremo, i record, i concatenamenti. I suoi compagni sono personaggi del calibro di Pierre Gignoux, Pierre Tardivel, Kilian Jornet… Per noi è oltre a tutto questo un grande amico, un prezioso collaboratore. Innovatore e grande tecnico dello ski-alp ha collaborato per la nostra rivista sia come dimostratore che come testatore.
In questi ultimi tempi ci teneva aggiornati attraverso mail sulle sue incredibili performance come la recente traversata integrale des Aravis in compagnia di Kilian e Jacquemoud. Questa mattina avrebbe dovuto concludere la traversata del Monte Bianco, sempre con Kilian, prima impresa di 'Summits of my life' quando una cornice l'ha tradito facendolo precipitare per 600 metri dall'Aiguille d'Argentière. Brosse, Jornet, Monta-Rosset e Fleury erano partiti ieri da Les Contamines e avevano passato la notte al rifugio del Couvercle. Tutta la redazione di Ski-alper si unisce al dolore dei familiari, della compagna e del figlio.