«Vattene all’Est da Mosetti e guarda un po’ cosa ci trovi». L’ordine, dalla redazione, era più o meno questo. L’anno scorso ce n’eravamo andati al Sud, quest’anno tocca dirigersi all’Est, quindi, verso le Alpi Giulie. Io, per inciso, abito all’Ovest, a Torino. Vado a sciare su cime alte più di tremila metri, a volte quattromila, molto spesso poi finisco in Francia dove bene o male mi ci ritrovo; al massimo il caffè fa un po’ schifo, ma le montagne hanno sempre la stessa forma. All’Est, invece, non mi ci ero mai fermato d’inverno e come tanti avevo la convinzione che l’Italia finisse a Venezia. Le montagne lì sono basse, squadrate e cattive, come i pugili che se le danno nel retro dei bar di periferia. La maggior parte di esse non arriva neanche a 2.000 metri, per dare un’idea». Inizia così l’ampio reportage di Federico Ravassard sullo sci selvaggio nelle Alpi Giulie che pubblichiamo su Skialper 116 di febbraio-marzo, disponibile nell’edicola digitale e ordinabile sul nostro sito nella versione cartacea.
CON IL MOSE – Saranno montagne basse, almeno per uno che arriva dall’Ovest, però in mezzo a queste montagne è cresciuto uno degli scialpinisti italiani più cool del momento, Enrico Mosetti, detto il Mose. «Classe 1989, sponsorizzato da quel marchio molto hipster di Chamonix che ne riflette in pieno l’immagine, quattro spedizioni all’attivo e discese pazzesche su giganti di cinque o seimila metri in Perù, Georgia e Nuova Zelanda, più un tentativo al Laila Peak in Pakistan, ovvero una delle più belle montagne del mondo. Tutto questo per dire che, insomma, se uno così impara a sciare da queste parti, allora le Alpi Giulie devono avere un qualcosa dentro di selvaggio». Con lui ha sciato e girato Federico, ma non solo…
L’IMPORTANTE È SCIARE – Beatrice, Nicole, Andrea e Samuele hanno tra i 21 e i 22 anni e nella vita, oltre a studiare, sono maestri di sci ma amano anche uscire con le pelli, nella zona di Tarvisio. E sciano… Nei piedi avevano tutti assi e scarponi di una certa massa, si capisce che prima ancora di essere alpinisti loro sono sciatori, anche salendo verso il Montasio con le pelli. È importante sciare anche se è brutto, se la nebbia nasconde tutto. Come al Monte Sart, dove Federico ha avuto come compagno di gita Davide Dade Limongi. Non senza fare prima una tappa al Rifugio Gilberti e conoscere Tschurwi, cuoco e custode di questi monti. Dalle Alpi Giulie non nascono solo scialpinisti forti in discesa: ce ne sono altri che il vento sulla faccia lo sentono anche in salita. Uno di questi, che i lettori di Skialper conoscono bene, è Tadei Pivk, residente a Camporosso.
SENZA CONFINI – Il bello delle Alpi Giulie è che Austria e Slovenia sono dietro l’angolo, ed ecco allora che non ci siamo fatti mancare una sortita in Cariniza con Mose e i suoi allievi del corso di scialpinismo e a Bovec, sul versante sloveno di Sella Nevea, nella valle dell’Isonzo. «Nel fondovalle luccica l’acqua azzurra dell’Isonzo, la stessa che un secolo fa era tinta dal rosso del sangue dei ragazzi mandati a difendere il fronte dalle truppe austroungariche. La Prima Guerra Mondiale qui c’è stata per davvero: basti pensare che uno degli elementi decisivi della disfatta di Caporetto fu un tunnel poco sotto di Sella Nevea che gli austriaci utilizzarono per spostare armi e uomini senza farsi vedere dagli italiani appostati al colle».
SAPORI DELL’EST – All’Alte Hütte a Campo Rosso Roberto Del Negro, proprietario e cuoco del ristorante, oltre a cucinare i deliziosi rigatoni al salto, è la memoria vivente dello scialpinismo giuliano. Gestiva una taverna che era di fatto un punto di riferimento fisso per i giovani scapestrati che si divertivano ad andare su e giù dai monti con mezzi e tecniche a dir poco rudimentali, come degli sci lunghi mezzo metro importati dall’Austria con i quali cercavano di scendere nei canali sopravvivendo in qualche modo fino al fondo. Le pareti del ristorante sono un pezzo di storia: nelle fotografie sono ritratti volti noti come Messner, Casarotto e Kukuckza. Lunga vita allo sci selvaggio.