In questi giorni l’alpinista basco Alex Txikon si trova in hotel a Kathmandu, insieme a Inaki Alvarez e Simone Moro. Sta facendo passare i giorni della quarantena richiesta alle autorità locali prima di dirigersi al campo base del Manaslu, che i tre tenteranno in invernale. Puntano a salire la via normale della montagna, lungo la parete Nord-Est. L’obiettivo è, oltre al raggiungimento della vetta principale, il concatenamento con il pinnacolo est (7.992 m). Inoltre l’intero progetto si sviluppa secondo le moderne regole invernali che prevedono di arrivare al campo base dopo il 21 dicembre e portare a termine la salita entro il 21 marzo. La spedizione polacca che ha compiuto la prima invernale il 12 gennaio 1984 ha raggiunto le pendici della montagna il 2 dicembre, realizzando buona parte dei lavori di preparazione della via prima del solstizio d’inverno. 

Abbiamo pubblicato una lunga intervista a Txikon sul numero 130 di Skialper, lo scorso giugno. La riproponiamo a seguire.

«La vita media oscilla intorno ai 33.000 giorni, se dipendesse da me passerei la maggior parte del tempo di questo viaggio tra le montagne. Se ci fermiamo un attimo a pensare, ci sono molte cose importanti. Però solo due sono essenziali: la vita e il tempo. Ed è proprio in questi momenti che guardo indietro e vedo un bambino che gioca e sale sulla bici e, sorpreso e inquieto, mi domando: come è passato tutto così velocemente, vero?».

Alex Txikon è nato nel 1981 a Lemona, nei Paesi Baschi, ultimo di 13 fratelli. E ha cercato di mettere in pratica sempre il suo comandamento. Anche nei mesi scorsi quando si è allenato in Antartide per andare a scalare l’Ama Dablam e tentare l’Everest invernale. Risultato? Road to Himalayas: partenza da Puerto Williams, in Cile, a bordo di una barca a vela il 14 dicembre insieme a Juanra Madariaga per andare a scalare ed esplorare nelle isole Shetland Meridionali attraversando il burrascoso Canale di Drake. Poi all’inizio di gennaio, con solo due giorni di riposo, subito in Nepal per trovare Félix Criado e Ínigo Gutiérrez Arce, che hanno raggiunto il Nepal in auto dalla Spagna. Rientro a inizio marzo, giusto in tempo per chiudersi in casa per il lockodwn. «L’Antartide è uno dei posti più meravigliosi della terra e credo che, piuttosto che attraversare mezzo mondo per raggiungere l’Himalaya od organizzare conferenze stampa e rilasciare interviste, sia molto più interessante stare in montagna con le persone che ti sei scelto e arrivare con una motivazione molto più grande in Nepal. Non era la prima volta in Antartide per me: i paesaggi e la logistica sono unici e si può ancora fare alpinismo ed esplorazione di altissimo livello».

Alex Txikon non è rimasto mai fermo. Il suo curriculum, sulla soglia dei 40 anni, è una lunga lista. Dopo i primi 4.000 nelle Alpi, nel 2003 è arrivato il primo Ottomila, il Broad Peak e l’anno successivo il Makalu; ha iniziato a lavorare come cameraman-alpinista per la trasmissione tv Al Filo de lo Imposible, si è unito al progetto di Edurne Pasaban, prima donna a raggiungere tutti i 14 Ottomila. Lui ne ha raggiunti 11, il Shisha Pangma due volte, alcuni in stile alpino. Dal 2011 è andato in Himalaya ogni inverno e spesso anche nella stessa estate. Nel 2016 la prima invernale del Nanga Parbat sulla via Kinshofer con Simone Moro e Ali Sadpara, nell’inverno 2013 la prima del Laila Peak e in primavera il Lhotse. Nell’inverno 2011 e 2012 tenta il Gasherbrum I, ma è costretto a fermarsi sopra i 7.000 metri e nella seconda occasione perde tre compagni di spedizione. Il G1 e G2 si sono arresi nell’estate del 2011, il K2 mai, nonostante più tentativi, l’ultimo nell’inverno del 2019. E neppure l’Everest, che lo scorso inverno non si è concesso come in quello del 2017 e del 2018. In mezzo spedizioni e prime salite in Antartide, Groenlandia, Himalaya, base jumping, documentari pluripremiati ai vari film festival.

Alex, che cos’è il nuovo alpinismo? 

«È immediatezza, perché oggi con i social media è tutto istantaneo, ma dipende dal tuo Paese di origine, dalla tua visione e soprattutto, oggi, rispetto alle generazioni precedenti, ci sono moltissimi tipi di alpinismo di alto livello».

E l’himalaysmo invernale, che cosa rappresenta per Alex Txikon?

«Gli Ottomila invernali continuano a essere un luogo nel quale mi trovo a mio agio, mi piace lottare con le condizioni meteorologiche, mi piace soprattutto la montagna, perché è completamente diversa e non c’è l’affollamento degli altri mesi dell’anno».

Hai detto che gli 8.000 invernali sono una questione di velocità prima ancora che resistenza, il fast & light è il nuovo alpinismo?

«Credo che più veloce sei, meno tempo passi nei campi in quota, più possibilità hai di raggiungere la vetta e di farlo in maggiore sicurezza, cioè di sopravvivere, perché le finestre meteo favorevoli sono limitate. Passare dal campo 1, 2, 3, 4? Oggi in inverno, con un buon lavoro di preparazione, puoi arrivare direttamente al campo 3».

L’himalaysmo è stato a lungo conquista nazionalistica delle vette, oggi invece unire le forze tra spedizioni può aiutare a raggiungere gli obiettivi, come al Nanga Parbat nel 2016. Però le montagne sono ricche di episodi di rivalità ed è quello che è successo nella tua spedizione al K2 nel 2019 quando non c’è stata collaborazione con la spedizione russo-kazaka-kirghisa.

«Domani (il 14 maggio, ndr) si festeggia il quarantesimo anniversario della prima scalata basca dell’Everest, la quattordicesima bandiera a sventolare sul tetto del mondo, portata dalla Ci sono gli Ottomila invernali, ma ci sono anche i Settemila o i Seimila… «Certo, siamo saliti sul Pumori, l’Ama Dablam, il Laila Peak, il Gasherbrum I, a quote più basse: siamo degli specialisti, non ci ciucciamo il dito e sappiamo quello di cui parliamo».

Come ti acclimati, hai mai usato le tende ipossiche?

«Sì, una volta, aiutano molto, però credo che non ci sia niente di meglio dell’acclimatamento fatto sul luogo, le tende sono un aiuto per chi ha poco tempo».

Limiti, paura, rischio, come ti confronti?

«I limiti, la paura, il rischio li stabilisci tu stesso. La paura, il limite e il rischio sono i compagni della prudenza: più paura, più prudenza. Al contrario di quanto si pensi».

Hai lavorato come cameraman in una trasmissione tv, cosa pensi dell’alpinismo-show e dei mezzi di comunicazione?

«Ci sono anche i social media e io sono attivo, però non sono un appassionato di questo mondo, mi piace ancora leggere sulla carta stampata, invece di premiare l’immediatezza e diventare un consumatore seriale di video, preferisco leggere una rivista mensile e cercare la qualità».

Ali Sadpara, Simone More, Daniele Nardi, Ferran Latorre, Adam Bielecki, Krzysztof Wielicki, Denis Urubko, Tomasz Mackiewicz, Ueli Steck, Reinhold Messner. Le tue strade si sono incrociate con quelle di altri alpinisti, hai qualche ricordo particolare?

«Con tutti, belli e brutti. Ognuno ha la sua strada che ogni tanto incrocia le altre, ma corrono parallele tra di loro e nella stessa direzione. Voglio conservare ricordi positivi di ciascuno di loro».

Ed Edurne Pasaban?

«Questa settimana cade il decimo anniversario della scalata del Shisha Pangma che nel 2010 l’ha fatta diventare la prima donna ad avere salito tutti i 14 Ottomila e sono orgoglioso di avere fatto parte del suo team».

Hai definito il Nanga Parbat la montagna delle montagne, qual è la montagna della tua vita, sempre il Nanga?

«Tutte, tutte le montagne sono spettacolari, tra il Nanga e il Makalu scelgo il Makalu perché è tra le prime che ho scalato e ho dei ricordi particolari, il Nanga Parbat per me è importante come tutte le altre montagne».

Cosa vuol dire essere il tredicesimo figlio?

«Ho sempre dovuto lottare, ogni dettaglio di tutto quello che ho raggiunto l’ho conquistato con il lavoro e l’aiuto degli amici e delle persone vicine, però l’insegnamento più grande che mi ha dato è l’importanza della vita e della forza di volontà, sapere qual è il tuo posto».

La pandemia ha cambiato le nostre vite, anche la tua. Qual è l’insegnamento che ti ha dato?

«Ho lavorato molto, a un nuovo libro, a un film. Ho lavorato quindici ore al giorno, ma ho dedicato il tempo a me invece che agli altri o a stare in aeroporto. Fermarsi, guardare e pensare dove mettere il prossimo granello di sabbia e in che direzione stiamo remando è l’insegnamento più importante».centoquattresima persona, se non sbaglio. Però oggi ognuno scala per sé, per essere più veloce, ci sono gli sponsor: è cambiato tutto. Unire le forze ti dà più opzioni, come è successo con Simone e Tamara, perché noi eravamo in tre, loro in due, e se uno sta male, cosa fai? Credo che per salire un K2 in inverno bisogna unire le forze, costruire e non distruggere».

Qual è la tua filosofia di spedizione? 

«Semplice, che ci sia empatia tra i partecipanti, che tutti siano pagati e che ci sia trasparenza: abbiamo gli sponsor ed è giusto dividere i soldi con gli altri. Devi comportarti bene, devi scegliere l’attività che credi conveniente per sopravvivere e perché il tuo team sia supportato e non ci siano incidenti o morti, ci vuole tutto il necessario per affrontare la sfida».

Nel 2019 volevi provare l’Everest invernale dal versante Nord e poi hai ripiegato sul K2 perché non hai avuto i permessi, perché nel 2020 hai attaccato ancora l’Everest dal Khumbu?

«Anche quest’anno ci sono stati problemi per i permessi e abbiamo sentito che al K2 ci sarebbe stata tanta gente: non abbiamo voluto trovarci nel gioco del 2019 con i russi. Credo che avessero perso del tutto la testa, che pensassero di essere in una partita contro quelli che erano accanto a loro».

Stazioni meteo portatili e droni, nuovi attrezzi per un nuovo alpinismo? I droni sono utili solo per i soccorsi o anche per le ricognizioni? Invece per il campo base ami costruire igloo, perché?

«Avere i dati reali delle piccole stazioni che puoi portarti dietro e quelli che arrivano da lontano è molto diverso. I droni? No, non li usiamo per la ricognizione della via, ma sono fondamentali per i soccorsi. In uno dei voli alla ricerca di Tom e Daniele (Ballard e Nardi sul Nanga Parbat, ndr) dal campo base li ho visti in modo netto. Però solo guardando al passato possiamo costruire il futuro. Per questo al campo base sono utili gli igloo: ci hanno aiutato tantissimo a mantenere un ritmo cardiaco e una saturazione dell’ossigeno nel sangue migliori, a riposare di più, a essere protetti, ma soprattutto a tenere alta la temperatura; ci sono i dati a dimostrarlo: fuori c’erano meno venti e dentro si stava bene, intorno agli zero gradi».

Tra i tuoi partner tecnici c’è Ferrino, da quanto tempo?

«Da un anno, è una marca che mi è sempre piaciuta molto, già al tempo di Edurne Pasaban, è un’azienda di famiglia che quest’anno compie nientemeno che 150 anni. Sono orgoglioso di fare parte di questa grande squadra e di usare zaini, tende e altri prodotti, ma soprattutto di essere ambasciatore dei valori di Ferrino che vanno a braccetto con i miei. Le tende sono le migliori che ci siano, senza alcun dubbio».

Steve House, Mark Twight, Ueli Steck ci hanno insegnato che si può allenarsi per l’alpinismo, come per qualsiasi sport. House ha scritto che l’alpinismo è all’80% mentale e al 20% fisico. Sei d’accordo?

«Steve, Mark, Ueli sono la punta di una freccia che ha segnato una tendenza, anche a me piace allenarmi duramente, ma la motivazione viene prima di tutto. È la motivazione che mi fa raggiungere gli obiettivi e canalizzare tutte le energie. Ottanta/venti? Sono totalmente d’accordo, io direi settanta/ trenta, però devi avere fiducia, credere in te stesso, altrimenti sei fottuto».

Quel bambino che andava in bici ora ama le moto. Nel 2007 si è comprato una Royal Enfield Line Art con la quale ha attraversato il Nepal da Nord a Sud e che è stata distrutta nel 2015 dal crollo dell’edificio che la ospitava a causa del terremoto. Poi è arrivata una Royal Enfield Bullet Machismo con la quale ha viaggiato da Kathmandu ad Amristar, attraversando l’India. «Questo tipo di moto, la sua storia, mi hanno sempre affascinato, così tre anni fa ho comprato la terza, un modello del 1978. L’ho presa a Nuova Delhi e l’ho completamente restaurata, trasformandola in una reliquia da trattare con cura». Nel 2019 quella Royal Enfield è salita su una nave fino a Barcellona e poi su un camion fino in Bizkaia. «Vederla arrivare a casa e aprire quella cassa mi ha fatto salire le emozioni, tornare a quelle strade nelle quali sono cresciuto, ai suoni e ai ricordi di quegli angoli di India e Nepal. Incredibile».

A PROPOSITO DELLA SPEDIZIONE AL MANSALU

Una sfida umanitaria e sostenibile

Come già accaduto lo scorso inverno, anche questa volta Alex cercherà di offrire il suo aiuto ai popoli delle montagne. In questa occasione avrà con sé centinaia di lampadine solari da distribuire alle famiglie che abitano la regione del Makalu. «Una lampadina cambia radicalmente la vita di una famiglia» il commento di Txikon. «Non ce ne rendiamo conto, ma per questi villaggi avere la luce di notte può significare che i bambini possono imparare a leggere e a scrivere». L’altra finalità è quella di fornire strumenti, come le lampadine solari, che lascino il minor impatto possibile sull’ambiente. La stessa cosa anche al campo base dove verranno installati due pannelli solari (uno verrà poi donato alla locale scuola al termine della spedizione).

I prodotti scelti da Alex Txikon

Alex Txikon partirà per il Manaslu con materiali della linea Ferrino High Lab. Il campo base sarà composto dalle tende Colle Sud e Campo Base, mentre per i campi più alti Alex e compagni potranno contare sulle tende Snowbound, Maverick e Pilier, dormendo nei sacchi a pelo HL 1200 RDS Revolution. Tra le tende della linea High Lab spicca la nuova Pilier. Si tratta di un must di Ferrino che è stato aggiornato per alcuni dettagli e uscirà sul mercato il prossimo inverno. Questa tenda, testata da Alex anche nelle sue precedenti spedizioni, è dotata di un sistema di paleria esterna che permette un montaggio rapido.

© Alex Txikon