C’è stato un momento in cui i freerider hanno iniziato a montare attacchini sui loro sci e gli scialpinisti cercavano di capire cosa significasse il termine rocker. Entrambi ignoravano che in realtà per alcuni quella pratica altro non era che la naturale evoluzione dello sci che avevano praticato negli ultimi venti o trent’anni. Bruno Compagnet è uno di questi. Un curioso la cui personalità e l’atto dello sciare si sono legati l’uno all’altro indissolubilmente, fino a condizionarsi a vicenda: la sua evoluzione come sciatore riflette quella della persona, e viceversa. Ma soprattutto un trend setter che ha importato nello skialp quello che di bello c’è nel freeride: set-up più discesistici, un’estetica curata tanto nel materiale quanto nell’abbigliamento, un rispetto reverenziale verso la discesa che si tramuta nella ricerca dei pendii e nevi ideali per divertirsi.

© Daniele Molineris

«Se gli fai presente che la sua figura ha influenzato la concezione dello scialpinismo negli ultimi anni, lui fa le spallucce, come se non lo riguardasse più di tanto: effettivamente basta parlarci per pochi minuti per capire che è davvero fatto così, mezzo freak e mezzo artista, amante della neve in tutte le sue forme, del buon vino e del vivere con una certa leggerezza – scrive Federico Ravassard su Skialper 127 di dicembre-gennaio – Se lo conosci capisci che sciare non ha solamente a che fare con lo scivolare sulla neve, piuttosto è un modo di inquadrare la vita e ciò che si è. Parafrasando Palombella Rossa, chi scia male, pensa male e vive male».

© Daniele Molineris

Bruno è un po’ l’icona del freetoruing. «A Chamonix abbiamo sempre usato le pelli, è una pratica che è insita nel DNA di questi luoghi. Anni fa utilizzavamo gli Alpin Trekkers con gli attacchi alpini, ma non percorrevamo mai grandi dislivelli. La transizione è avvenuta in modo graduale, senza momenti di rottura. Poi, con l’età, se si continua a spingere solo in discesa con gli impianti a fine giornata le ginocchia e la schiena vengono a chiederti il conto: il freetouring, se vogliamo chiamarlo così, è invece un modo di sciare più completo ed equilibrato, si fa più lavoro aerobico e lo stress dato dallo sforzo in discesa è più contenuto. E poi è anche più spontaneo, più naturale: con Layla mi piace scoprire nuovi luoghi andandoci con le pelli, senza ricorrere a cartine e gps, e cercare di muoverci in modo logico solo in base alle nostre competenze e a quello che vediamo intorno a noi. La trovo un’esperienza più completa rispetto allo stare in un comprensorio». Su Skialper 127 di dicembre-gennaio un reportage-intervista di 15 pagine su Bruno Compagnet.

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