Le stagioni invernali non si sa mai quando farle finire. Se uno ha passione vera per lo sci, uno strascico di inverno da qualche parte lo trova sempre. Uno, se vuole, può andare avanti tranquillamente a sciare fino a metà dell’estate, fino a giugno o a luglio, ma è chiaro che quello che sta facendo, da un certo momento in poi, è tirare avanti. Trascinarsi, e le passioni non bisogna mai trascinarle. A giugno si è in quella terra di mezzo che è il passaggio di stagione, periodo bellissimo, per carità, si può sciare ma si può anche correre e pedalare, arrampicare, camminare, fare un sacco di altre cose divertenti e anche niente, si può mettersi in spiaggia con una bella rivista di sci sotto l’ombrellone e godersi l’estate aspettando un altro inverno ancora. È per queste ragioni, per il bisogno di farla finita, che quando sai di dover andare a sciare alle Svalbard a giugno capisci che quella che sta per succederti è una cosa diversa. È un bypass delle stagioni, una circonvallazione del tempo. Tra l’inverno (anzi, la primavera inoltrata) e l’estate si inserirà un altro inverno ancora, uno vero, una stagione breve laterale ortogonale al trascorrere ordinario dei mesi. Cielo blu o nebbia che non si vede un tubo, neve, pelli di foca umide, scarponi bagnaticci e puzzolenti, il clack degli attacchi che si chiudono, gambe sudate, orecchie gelate, firn o polvere, diagonali e dietro-front, quel sapore amarognolo della borraccia, aria fredda della cima, sudore ghiacciato giù per la schiena, il caldo confortante dei guanti asciutti prima di scendere, insomma inverno. Vero. Scialpinismo vero. Le Svalbard – tu lo sai, ci sei già stato due volte – sono un mondo a parte. Una deviazione magica della linea spazio-temporale.

©Berre.no/Topturfestivalen

L’occasione per andare a giugno alle Svalbard è un festival. Esatto, un festival, proprio come la Skieda o la Scufoneda, quegli eventi insomma dove ci si incontra e ci si ritrova tra amanti dello scialpinismo e del telemark e si sta insieme, si fanno delle belle gite e si scia, ciascuno al proprio ritmo. E si fa anche un po’ di festa, certo, quella senza distinzione di livello tecnico e di capacità, a fare festa siamo tutti bravi uguali, non serve neanche impegnarsi. Basta avere voglia di stare insieme. La caratteristica del Topturfestivalen (così si chiama l’evento, l’organizzazione è norvegese) è che questo festival è itinerante e mi spiego: nel caso non lo sapeste le Svalbard sono isole relativamente vicine al Polo Nord e a primavera il ghiaccio che le ricopre e che riempie i fiordi si scioglie. Questo significa che si può navigare intorno alla terraferma e al pack. Vi serve una barca, se fate un grosso festival vi serve una grossa barca, cioè una nave. I ragazzi che hanno ideato il Topturfestivalen, che si svolge in questa modalità dal 2016, ne hanno trovata una che si chiama Nordstjernen e che è una nave da crociera artica costruita nel 1956 e recentemente restaurata e hanno deciso di farla diventare il campo base itinerante del festival. Avete capito bene: il campo base del festival è la nave. E la nave, naviga. Per capirci: è come se andaste alla Skieda a Livigno e invece che dormire in albergo (ammesso che andiate mai a dormire, alla Skieda) dormite in una cabina. Invece che guardare fuori dalla finestra della camera da letto, guardate fuori da un oblò. Invece che vedere Livigno fuori dall’oblò e il Mottolino, vedete delle montagne senza nome e in buona parte dei casi mai salite o mai sciate prima. Magari vi capita di vedere anche delle balene di Baluga o delle orche.

Non è fantastico? Longyearbyen è lontana. È proprio su, su, a guardare la carta geografica la trovate molto oltre la Scandinavia. In volo da Tromsø servono altre due ore e mezza ma è tempo speso bene, fidatevi. Quando ci arrivate, a Longyearbyen, nel vostro orologio biologico sembra esserci qualcosa che non funziona, il sole a giugno è sempre molto alto nel cielo ed è sempre giorno. Pieno giorno. La luce non è tenue e slavata come ve la aspettavate, è forte e abbagliante, cristallina, riflessa ancora con forza dalla neve e dal ghiaccio che hanno appena iniziato a sciogliersi. La cittadina in effetti è polverosa e sporca, un po’ come una stazione di sci a chiusura impianti, ma in fondo a voi cosa ve ne importa, voi nel tempo di qualche ora sarete a bordo della nave. Andrete via. Alle Svalbard latente nei vostri sensi ci sarà sempre, almeno nei primi giorni, quella sensazione bizzarra di svarionamento che la mancanza di buio notturno e la carenza di melatonina insinuano nel sistema nervoso. È un po’ come se foste in bilico tra un paio di birre di troppo, l’iperattività promossa da svariate Red Bull bevute una dietro l’altra come un adolescente eccitato e quei colpi di sonno che vi colgono nei dopo pranzo a casa di parenti che visitate di rado mentre vi mostrano le diapositive dell’ultima vacanza al mare. Il tempo di uno spuntino in uno dei locali del paese (andateci piano con gli spuntini, la luce continua vi fa venire una fame atavica e continua) e poi via, verso il porto e verso la vostra barca. Chiamarla barca è profondamente inesatto. Riduttivo. Quella su cui state per salire è una nave, piccola, ma nave. La differenza tra una barca e una nave, anche se non siete dei marinai, dovrebbe esservi chiara. La lunghezza complessiva della nave è di 88 metri. La Nordstjernen è una barca da crociera artica ed è attrezzata per rompere il ghiaccio se necessario fino a uno spessore di trenta centimetri; per resistere all’eventuale impatto con pezzi di ghiaccio vagante ha uno spessore dell’acciaio a prua di circa quarantacinque centimetri, perlomeno questo è quello che mi hanno raccontato. E io ci credo. Quarantacinque centimetri sono uno spessore rassicurante, per me che non ho un grande rapporto con le navi, lo ammetto. Soffro il mal di mare anche sul traghetto Piombino-Portoferraio per via del mio sistema propriocettivo che (così mi hanno detto) è così sensibile che alla minima variazione di stabilità sotto i piedi, vado in sofferenza. E sto male. Non so se è vera la storiella della sensibilità che mi hanno raccontato, però io mi ci consolo. Comunque il Mar Glaciale Artico, guardandolo dalla banchina del porto, non mi sembra agitato.

©Berre.no/Topturfestivalen

Salgo a bordo con la mia sacca, i miei scarponi e i miei sci da telemark che deposito sul ponte della nave. Il personale di bordo è molto gentile e simpatico, sono quasi tutti ragazzi e ragazze filippine, tra loro c’è solo qualche lupo di mare vichingo. Gli altri partecipanti alla crociera, a parte il mio amico Keith che è inglese, sono tutti norvegesi. Un norvegese si riconosce da tre cose: perché è grande e grosso come e più di un olandese (sono molto più grandi di un italiano medio); perché è molto gentile e quasi sempre porta la barba (a parte le ragazze, parlo della barba); e poi perché parla norvegese. Quella cosa che nei Paesi scandinavi parlano tutti tranquillamente inglese, credetemi, non è mica vera. I norvegesi parlano norvegese ed eventualmente, se proprio devono e sono costretti, anche inglese. I briefing informativi sono in norvegese, le istruzioni di cabina e i menù sono in norvegese, le conversazioni al bar in norvegese. Voi dovete accontentarvi di cercare di capire cosa fanno gli altri e intercettare le espressioni del volto o i gesti. Nel caso non abbiate capito, siccome i norvegesi sono gentili, vi spiegano meglio in un inglese ben scandito e comprensibile. Una volta a bordo la vita è semplice: mangiare, bere, dormire, mangiare, farsi trasportare con il gommone sulla terra ferma, pellare, pellare, pellare, sciare, pellare, sciare, pellare, sciare, eccetera, tornare a bordo in gommone, bere, godere del panorama a poppa, fare la doccia (a bordo, in piccolo, ci sono tutti i comfort) mangiare, chiacchierare con gli altri croceristi, bere, bere, dormire. E ricominciare da capo. Il trasferimento sulla terra ferma per sciare è abbastanza semplice, una volta a terra la vostra gita di scialpinismo comincia, c’è quasi sempre un breve avvicinamento pianeggiante da fare, ottimo per il warm-up, e poi si sale. Si trova di tutto, dai pendii ampi e morbidi ai pendii più ripidi e impegnativi, mai estremi a meno che uno li vada intenzionalmente a cercare.

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I dislivelli sono di 800 metri a risalita, se ne fanno quanti se ne vuole. Abbiamo navigato a sud delle isole, in una zona chiamata Hornsund Fijiord. È il classico paradiso per lo scialpinismo classico (scusate il gioco di parole) e le montagne sono bellissime. In salita ogni tanto vale la pena di fare una pausa e sollevare lo sguardo all’orizzonte, il paesaggio è surreale. Ci sono montagne dalle forme alpine, fatte di rocce, pendii ripidi, ghiacciai e perfino delle meringhe di ghiaccio lavorato dal vento e giù, in basso, c’è il blu del mare. Ci sono i fiordi ancora ingombri di ghiaccio, in lontananza. Il cielo è azzurro se siete fortunati (noi lo siamo stati, per tutto il viaggio non abbiamo visto una nuvola) ed è evidente che vi trovate in un luogo ai confini del mondo. Non c’è niente e nessuno per chilometri e chilometri. Beh, a parte gli orsi polari, certo. È per quello che uno di voi, quando andate a sciare, si porta appresso un fucile. La faccenda di andare a sciare con il fucile è un po’ destabilizzante all’inizio. Uno può reagire in due modi: o è veramente preoccupato e ossessionato dalla paura di venire attaccato e sbranato da un orso polare; oppure vede quella dell’incontro come una remota possibilitàdi cui non preoccuparsi minimamente, come se fosse qualcosa che fa parte del pacchetto vacanza. In realtà l’atteggiamento corretto sta a metà strada tra queste due posizioni. Il pericolo di incontrare un orso è concreto e reale, poi gli orsi sono interessati più alle foche di cui si cibano che agli esseri umani ma sono predatori e per questa ragione non bisogna mai sottovalutare i rischi di un incontro faccia a faccia. Il pericolo è più consistente in prossimità del mare, in quota ci si può davvero rilassare e godere dello spazio immenso, della solitudine e dei pendii.

La qualità dello sci è fantastica, a nord si può trovare neve polverosa (il nord, alle Svalbard, è comunque un’esposizione che subisce la trasformazione per via del sole di mezzanotte, il metamorfismo della neve è soltanto un po’ più lento) a sud, est e ovest si scia su ottimo firn e corn snow, che è quella condizione della neve ancora ricca d’aria ma in avanzato stato di trasformazione che è difficile trovare da noi sulle Alpi. Quando sei in cima a una montagna e cominci a scendere il panorama davanti a te è strepitoso. Capisci che stai per affrontare davvero una di quelle discese epiche che ricorderai per tutta la vita. Ecco perché a fine giornata, quando, dopo l’ultima discesa, arrivi in spiaggia e ti ritrovi una grigliata di carne, la musica, una tenda-sauna, birra che scorre a fiumi e gente che balla come all’après-ski del Tonale, capisci che lì, quella sera, si sta per consumare una festa indimenticabile. D’altronde poi per tornare a dormire non devi nemmeno guidare, non devi far altro che un cenno a uno dei gentilissimi conducenti di gommone di riportarti a bordo e poi, una volta in cabina, schiantare dal sonno al piano superiore del tuo letto a castello. È difficile spiegare a parole le ragioni valide per andare alle Svalbard a sciare, io ne ho messe a fuoco tre principali: uno, ogni volta che hai la possibilità di andare a sciare in un luogo della terra dove non c’è nessuno intorno per decine o centinaia di chilometri, bisogna sempre trovare il modo di farlo. L’esplorazione, l’andare a sciare in luoghi in cui non lo ha ancora mai fatto nessuno è una esperienza umana che vale sempre la pena. Due, mare e montagna, sci e navigazione, neve e acqua sono i due estremi che si toccano, non bisogna mai rinunciare alle esperienze estreme, quando per farle non c’è bisogno di mettersi in ginocchio. Tre, dieci curvoni a manetta sulla parete ovest dell’Hornsundtinden che finiscono in spiaggia e nel mare più blu che voi abbiate mai visto, valgono una stagione intera. O forse anche due o tre. O dieci.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 113 di Skialper, acquistabile qui

©Berre.no/Topturfestivalen