VUT a Franco Collé e Giuditta Turini

La coppia d’oro del trail running italiano Franco Collé e Giuditta Turini si aggiudica la terza edizione della Valmalenco Ultra Trail Distance. Per la serie non c’è due senza tre, i due valdostani hanno messo la loro griffe nella ultra disegnata all’ombra del Bernina, dopo avere vinto Licony Trail e Dolomyths Ultra Run. Alle ore 23 di venerdì, dalla piazza centrale di Chiesa Valmalenco e simultaneamente da Lanzada, ha preso il via una delle competizioni più tecniche e del panorama nazionale.Il percorso, disegnato sull’alta Via della Valmalenco, anche quest’anno è riuscito ad attirare nella provincia al centro delle Alpi oltre 300 atleti provenienti da 5 differenti nazioni. Gli atleti si sono misurati su due format gara che condividono lo stesso percorso: la prova principe da 90 km e 6000 m D+ e la formula staffetta a 3 elementi partita da Lanzada. Tutti gli atleti hanno dovuto affrontare ben quattro scollinamenti a oltre 2600 metri passando per i quindici rifugi disseminati sul percorso. Ad accompagnarli un pubblico numeroso

GARA MASCHILE - Pronti, via e la gara si è subito incendiata con la progressione di Franco Collé. Il valdostano del team Crazy, ha imposto il proprio ritmo prendendo così lo scettro della corsa. Il re del Tor de Géants ha sempre mantenuto un discreto margine sul primo inseguitore, l’azzurro di trail Christian Pizzati. Tra i due è andata in scena una vera e propria sfida a distanza che si è protratta per tre quarti di gara. A Caspoggio il primo a tagliare il traguardo è stato proprio Franco Collé che si aggiudica la terza edizione della VUT con un tempo di 12h34’04” dopo avere vinto quella dell’esordio nel 2017. Seconda posizione per un ottimo Pizzati che, nella parte finale, ha gestito energie e vantaggio su chi lo inseguiva terminando con un crono di 13h21’49”. Per il gradino più basso del podio invece è andata in scena una vera propria bagarre che ha visto coinvolti Luca Schenatti, Dino Melzani e il vincitore dell’edizione 2018 Saverio Monti. Alla fine l’ha spuntata il ‘local’ Schenatti con un super timing di 13h29’21”.

GARA ROSA - Al femminile, come da pronostico, la gara ha visto primeggiare sin dalle prime battute Giuditta Turini che proprio una settimana fa si è aggiudicata la Dolomyths Run Ultra Trail. La valdostana non ha lasciato spazio alle rivali ed ha tagliato il traguardo in solitaria con un tempo di 16h04’09”. Seconda Serena Piganzoli (18h14'45"), terza piazza per Scilla Tonetti (18h18'45").

STAFFETTE - Nella gara a staffetta dominio del Ghiaccia Team capitanato dai fratelli Alessandro e Mattia Bonesi che, al fianco del fedelissimo Valentino Speziali si sono ripetuti dopo aver già vinto la prima edizione della VUT. Per loro un tempo di 11h11’51”.Secondo posto per il Team i Puffi (Gabriele Schena, Walter Dell’ Andrino e Ugo Pedrolini)con un finish time di 11h32’05” minuti. Chiude il podio composto da Jeaua Gaviria, Jaime Lopez e Catalina Beltran (11h58’07”).
Al femminile successo di giornata per il Team Mountain Girls di Francesca Galli, Elena Peracca e Lisa Rossatti che si aggiudica la prima piazza in 15h39’48”

ATTENZIONE ALL’AMBIENTE - Valmalenco Ultra Trail 2019 è stata Plastic Free. Grazie allo sponsor tecnico Scott tutti gli atleti sono stati dotati di un apposito bicchiere che ha consentito di dissetarsi lungo il tracciato senza intaccare l’ecosistema di questa area tanto bella quanto delicata. Per l’occasione sono stati eliminati tutti gli altri supporti plastificati.


Integrale di Peuterey in meno di 16 ore per Cazzanelli-Steindl

Dopo le quattro creste del Cervino nel 2018, si riforma il tandem François Cazzanelli-Andreas Steindl che nei giorni scorsi ha chiuso l'integrale di Peuterey, sul Monte Bianco, in meno di 16 ore, con partenza e arrivo dal camping Peuterey. Lungo il percorso, a fotografare, Marco Camandona e Luca Rolli. Ecco come descrive l'impresa Cazzanelli in un post su Instagram.

© Instagram/François Cazzanelli

«Prepariamo il materiale e il pomeriggio portiamo i nostri zaini alla base della cresta sud della Noire e ritorniamo a valle! Il mattino dopo (venerdì 19 luglio) alle 3:30 partiamo dal Campeggio Monte Bianco la sorgente Peuterey! Tutto gira perfettamente e dopo 5 ore siamo in vetta alla Noire facciamo le doppie e ripartiamo verso la Blanche. Senza intoppi dopo 9 ore e 30 minuti siamo al colle di Peuterey pronti ad attaccare il Pillier d’Angle e la cresta di Peuterey. Dopo 11 ore e 50 minuti dalla partenza siamo sul Monte Bianco di Courmayeur e dopo 12 ore e 12 minuti sulla vetta del Monte Bianco di Chamonix! Ci abbracciamo, arrivano anche @tetostrad e @heromeperruquet che hanno salito la cresta in due giorni un momento stupendo! Restiamo in vetta 10 minuti poi ripartiamo! Non è finita ci tocca ancora ritornare a valle! Per la discesa abbiamo scelto la via normale Italiana dal rifugio Gonella. La stanchezza si fa sentire lo zaino con dentro tutto il materiale sembra sempre più pesante! Stringiamo i denti e dopo 15 ore e 55 minuti facciamo ritorno al camping Peuterey la sorgente da dove siamo partiti alle 3:30 della mattina (per scendere abbiamo impiegato 3 ore e 33 minuti). Per darvi i numeri in 15 ore e 55 minuti abbiamo salito e sceso 4276 m di dislivello con uno sviluppo di 45,37 km».

© Instagram/François Cazzanelli

 


DoloMyths, Davide Magnini primo nel vertical

Cambia il format del DoloMyths Vertical Kilometer, ma il padrone è sempre lo stesso. Il ventiduenne di Vermiglio Davide Magnini, dodici mesi dopo la sua prima vittoria sulla Crepa Neigra, concede il bis anche nella dodicesima edizione della competizione della Val di Fassa di sola ascesa, che per la prima volta si è disputata nella formula a cronometro con partenze individuali. Vittoria assoluta, con il tempo di 32’54”, di 19 secondi superiore rispetto a quello fatto registrare nel 2018 e di 1 minuto e 20 più alto rispetto al record che aveva stabilito l’altoatesino Philip Götsch nel 2016.
Stessa trionfatrice dello scorso anno anche al femminile, al termine di una gara disputata invece nella tradizionale formula mass start. La prima a giungere sul traguardo di Spiz di Crepa Neigra, dopo 2.400 metri di sviluppo e 1.000 metri di dislivello, è stata la trentenne svizzera Victoria Kreuzer, che ha staccato tutte le avversarie fermando il cronometro sul tempo di 39’12”, superiore al primato di Axelle Mollaret del 2017 (37’39”).
Giornata straordinaria per il secondo atto dell’evento trentino DoloMyths Run della Val di Fassa, con 200 partenti in rappresentanza di 24 nazioni per la competizione di sola ascesa che prevedeva la partenza ad Alba di Canazei a 1.465 metri e arrivo a Spiz di Crepa Neigra a 2.465 metri. Sfida caratterizzata dal cambio di formula, che è piaciuto a metà, al pubblico presente nei vari tratti del tracciato sicuramente, ad alcuni atleti invece un po’ meno, perché sono stati costretti a tenere sempre un ritmo elevato e a tenere quale riferimento unicamente gli atleti che li precedevano con una tattica di gara difficile da interpretare. E in quest’ottica Davide Magnini probabilmente è stato avvantaggiato, visto che il rivale Remì Bonnet è partito 40 secondi prima di lui e così per il solandro è stato più agevole gestire la gara, monitorandolo metro per metro. Sul traguardo con splendida vista sul Gran Vernel e sulla Marmolada Magnini ha chiuso con il tempo di 32’54”, precedendo di soli 11 secondi lo svizzero Remì Bonnet, quindi sul terzo gradino del podio è salito l’altoatesino di Appiano Hannes Perkmann del team Dynafit a 1 minuto e 8 secondi. Ottima prestazione anche per il bellunese del team Scott Manuel Da Col, a soli 23 secondi da lui, mentre un altro dei favoriti, il trentino di Roncone Patrick Facchini, ha terminato in quinta piazza con il tempo di 34’53” (1'58” dal vincitore). Seguono in classifica il marocchino Elhousine Elazzaoui, il francese Yoann Caillot e il giovane sci alpinista vicentino di Zanè Mattia Sostizzo, che ha staccato un grande tempo (36’37”) aggiudicandosi la categoria junior: ottavo assoluto. Nono Christoph Wachter, quindi ecco lo svizzero Micha Steiner e il piemontese di salice D’Ulzio Simone Eydallin.
Perentoria l’affermazione in campo femminile di Victoria Kreuzer del team Adidas, capace di precedere di 1’23” la bresciana di Temù Valentina Belotti, quindi sul terzo gradino del podio troviamo la finlandese Susanna Saapunki a 3’09” dalla vincitrice. Seguono fuori la svizzera Amelie Bertschy, la lombarda Corinna Ghirardi, la laziale Raffaella Tempesta, quindi la fiemmese già vincitrice di quattro edizioni di questa competizione (settima), quindi la spagnola Silvia Lara e l’atleta di casa, la fassana di Campitello Giorgia Felicetti. In gara anche la campionessa di sci alpino Chiara Costazza (vincitrice dello slalom speciale di Coppa del Mondo di Lienz nel 2007) che si è cimentata per la prima volta in una vertical race, chiudendo 24ª con il tempo di 59'30", sotto la soglia dei 60 minuti, come si era prefissata di fare prima del via.


Trekking al fronte

La Guerra Bianca. Un nome affascinante. E quell’aggettivo, bianca, evoca un non so che di candido e pulito. Eppure 100 anni fa, nei luoghi che fecero da scenario alpino alla Prima Guerra Mondiale, quel bianco fece più morti del nemico. Perché qui, nelle prime linee di confine, ad ammazzare furono la neve, il freddo, la montagna. Prima ancora che la pallottola del soldato austro-ungarico. E pure quella, a dirla tutta, non mancava. Ma nella stagione più fredda, negli anni di guerra tra le nevi del Parco Nazionale dello Stelvio e dell’Adamello, l’esercito aveva a che fare non con uno ma con due nemici: l’uomo e anche l’ambiente ostile. A vederlo oggi, il comprensorio Pontedilegno-Tonale, con le sue numerose attrazioni turistiche, sembra un angolo di paradiso. Passo Paradiso, con l’omonima cabinovia, per alcuni rappresentò invece l’inferno.

L’intera zona, un tempo confine tra Regno d’Italia e Impero Austro-Ungarico, fu uno degli scenari di quella parte di conflitto mondiale che si svolse sulle Alpi, a quote elevate. In questi luoghi i soldati furono messi a dura prova da temperature estreme ed equipaggiamento che nulla aveva a che fare con quello degli alpinisti moderni. La vita al fronte, soprattutto quando il fronte si trovava a 3.000 metri di quota, richiedeva resistenza e grandi capacità di adattamento. Oggi quel passato rivive grazie ai numerosi itinerari storici che conducono ai resti di trincee, fortificazioni e villaggi militari. Ma per arrivarci bisogna fare un po’ di fatica, come i nostri soldati poco più di un secolo fa…

Il Sentiero dei Fiori

Percorrere il Sentiero dei Fiori, che si snoda sulle creste tra il Passo del Castellaccio e il Passo di Lago Scuro e sui ghiaioni sottostanti, significa camminare nella storia. O meglio, sulla storia. Tra un sasso e l’altro si può trovare davvero di tutto: dal filo spinato ai pallini di piombo degli ordigni bellici, dal legno usato per costruire le baracche dei soldati ai pezzi di stoffa delle divise. Materiale conservato nel ghiaccio e che ora, con il ritiro del limite delle nevi, riemerge. Proiettili così come scatolame che, con un po’ di fortuna, riporta ancora la data di scadenza o di confezionamento. Il Sentiero dei Fiori, la cui partenza è raggiungibile con la cabinovia che da Passo Paradiso conduce fino a Passo Presena, ripercorre infatti i camminamenti, le gallerie e le trincee della prima linea italiana durante la Grande Guerra. A fare da cicerone su questo itinerario dove gli aspetti naturali si fondono con la storia, la Guida alpina Uberto Piloni, che conosce le montagne come le sue tasche. Camminare insieme a Uberto è come avere una enciclopedia a portata di mano: la sua cultura del territorio spazia dagli aspetti geomorfologici a quelli relativi alla Prima Guerra Mondiale, senza tralasciare la flora e le splendide fioriture di piante endemiche che, specialmente nel mese di luglio, fanno capolino tra una roccia e l’altra. E così, senza accorgersene, si passa da una lezione di geologia a una di botanica, dalla placca europea (che infilandosi sotto a quella asiatica ha dato vita ai giovani rilievi dell’Adamello) al ranuncolo bianco o alla genziana, la cui radice amara è l’ingrediente principale del celebre e amarissimo liquore.

©Matteo Pavana

Da Passo Paradiso, salendo con la nuova cabinovia che porta fino a Passo Presena (quota 3.000 metri) si possono anche notare i teli bianchi posati a protezione del ghiacciaio, il cui scopo è limitarne l’inesorabile scioglimento. Un ghiacciaio in costante ritiro, il Presena. Al suo posto è emersa la nuda roccia. «Qui fino agli anni 1994/95 si praticava ancora sci estivo, mentre oggi non sarebbe più possibile» commenta Uberto mentre ci indica, ancora dalla cabinovia e proprio di fronte a noi, il Cornicciolo del Presena, più noto come Sgualdrina. Una volta scesi dalla cabinovia, davanti a un caffè caldo allo skibar Panorama 3000 Glacier, ci godiamo lo spettacolo di Adamello, Lobbie, Presanella e Pian di Neve, il più vasto ghiacciaio delle Alpi italiane. Da qui un sentiero che procede quasi in piano conduce, in un’oretta di cammino, fino a Passo Lago Scuro: una piccola Machu Picchu, ricchissima di testimonianze della Grande Guerra. Una vera e propria cittadella in quota, con le sue trincee e fortificazioni, con gli spazi un tempo adibiti a dormitorio, la chiesetta e la mensa degli ufficiali. A terra i resti delle baracche e di telo catramato che facevano da copertura isolante alle stesse. Da qui, percorrendo la ripida scalinata costruita dai nostri soldati al fronte un secolo fa, si sale in direzione del sentiero attrezzato, percorribile sia in questa direzione che il quella opposta. Sebbene non particolarmente impegnativo, è consigliato indossare il kit da ferrata. Cavi e catene aiutano a tenersi sempre in sicurezza. Percorrendolo si incontrano le varie postazioni dei soldati lungo la cresta. In una mezz’oretta durante la quale lo sguardo non manca di spaziare su tutto l’arco alpino, si arriva al Bivacco Amici della Montagna-Capanna Faustinelli, vecchia baracca militare e punto più alto dell’escursione (3.160 metri). Proseguendo si giunge fino al Gendarme di Casamadre e alle due spettacolari passerelle metalliche il cui attraversamento è senza dubbio uno dei momenti più emozionanti del tracciato. Già esistenti all’epoca della guerra, lunghe rispettivamente 75 e 55 metri, sono state oggi risistemate e messe in sicurezza. Se proprio non volete camminare nel vuoto, sono comunque aggirabili grazie a una galleria lunga circa 70 metri, anch’essa memoria delle terribili fatiche del 1918. Nei diversi punti strategici la cartellonistica illustrata racconta, tramite le date salienti, le varie fasi della guerra e degli avvenimenti su questo fronte.

«È stata la guerra più alta della storia e il freddo arrivò a toccare i 30-40 gradi sotto lo zero, con 10-12 metri di neve caduta. Con queste condizioni i rifornimenti erano davvero faticosi, nonostante i 7-8 chilometri di teleferiche tirate per rendere più agevoli gli approvvigionamenti - racconta Piloni. – La guerra non portò solo morte, ma anche un sacco di evoluzioni. Ad esempio condusse alla diffusione del cibo in scatola, fino ad allora quasi sconosciuto; lo sviluppo di una concezione moderna di rampone e di occhiale da ghiacciaio; delle divise bianche che permettevano un maggiore mimetismo nel bianco della neve; di mille piccoli accorgimenti per cercare di sopravvivere ai climi rigidi dell’inverno a quota 3.000 metri».

Il giro dei Forti

Se la quota del Sentiero dei Fiori è un po’ troppo impegnativa, oppure se si desidera affrontare un itinerario più rilassante ma comunque molto interessante, è possibile visitare alcuni resti del complesso sistema di fortificazioni realizzate dagli austriaci al confine italiano presso Passo Tonale. Uno degli itinerari, per i più sportivi affrontabile anche sulle due ruote gommate, porta alla scoperta di Forte Mero e Forte Zaccarana, realizzati ai primi del Novecento, già in sentore di guerra. Ad accompagnarci, questa volta, la Guida Mauro Fioretta. Il percorso, che attraversa la prima linea austro-ungarica e la terra di nessuno, offre una splendida veduta delle cime dell’Alta Val di Sole. Si parte dall’Ospizio di San Bartolomeo a poca distanza da Passo Tonale, dove un cartello in legno indica la direzione per Forte Mero. Su strada comoda, si prosegue in leggera discesa. Tutt’intorno pascoli, mucche, piante e fiori, silenzio. I rumori della strada sono sempre più lontani. Tronchi tagliati e ben posizionati, che saranno legna da ardere durante il freddo inverno. In circa mezz’ora si raggiungono i resti di Forte Mero, costruito tra il 1911 e il 1913 al fine di rinforzare il confine austriaco. Un tempo organizzato come una cittadella autonoma, ora a fare capolino tra un pezzo di muro e l’altro ci sono le marmotte, che hanno colonizzato questa tana che pare fatta dall’uomo appositamente per loro. In posizione strategica, il forte tiene sott’occhio Passo Paradiso e la conca del Presena. Mauro fa notare come su alcune pareti siano ancora presenti le macchie di colore realizzate per mimetizzare le mura del forte.

©Matteo Pavana

Proseguendo si oltrepassano i resti, recuperati ad arte, delle caserme di Strino, un tempo adibite a magazzini e ospedale da campo. La strada che porta al Forte Zaccarana sale dolce, seguendo i tornanti che si snodano lungo il bosco. Zaccarana era la fortificazione più moderna, realizzata tra il 1907 e il 1913, con tanto di cupole di acciaio girevoli, oggi non più visibili in quanto fatte saltare dai cosiddetti recuperanti che dopo la Prima Guerra saccheggiavano quanto rimasto per ricostruire i paesi che erano usciti, chi più chi meno, distrutti dal conflitto mondiale. Da qua, per pascoli e panorami bucolici, in un’ora di cammino si fa ritorno al punto di partenza. Prima di andarsene è interessante dare un occhio anche al Forte Strino, posizionato lungo la strada che dalla Val di Sole giunge in Tonale e quindi raggiungibile anche in auto. Molto antico, realizzato nel 1862, è stato recuperato e adibito a museo storico della Guerra Bianca.

www.pontedilegnotonale.com

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©Matteo Pavana

Presentati i Campionati Italiani Mountain e Trail Running 2019

Sono 1.500 i runner attesi sui sentieri delle Piccole Dolomiti dal 25 al 28 luglio per i Campionati Italiani Mountain e Trail Running 2019. Nella sede del main sponsor CMP a Romano d'Ezzelino si è svolta la presentazione con organizzatori, amministratori e partner: sono intervenuti Alice Testi (responsabile marketing della Fratelli Campagnolo), Denis Bagnara (presidente Ultrabericus Team), Enrico Pollini (direttore di gara), Christian Zovico (presidente di FIDAL Veneto) e diverse autorità locali. Il programma 2019 prevede quattro ben gare che assegneranno i titoli tricolori, con due prove aggiuntive che allargheranno il programma della ormai classica Trans d'Havet.
Si parte giovedì 25 luglio alle 18.50 con la Maistrack Summano Vertical sulla direttissima Santorso - Cima Summano e i suoi 1.000 m D+ racchiusi in appena 3,2 km. La prova sarà valida per il Grand Prix Eolo Vertical Cup. Venerdì 26 e sabato 27 ci si sposterà a Valdagno, teatro di gara delle due prove della Trans d'Havet, che assegneranno i titoli di campione italiano del trail lungo e del trail corto. Partenza allo scoccare della mezzanotte di venerdì da Piovene Rocchette per il trail lungo di 80 km e 5.500 m D+, e da metà percorso al Pian delle Fugazze alle nove del mattino di sabato per il trail corto di 40 km e 2.500 m D+. Traguardo a Valdagno in giornata per entrambe le prove dopo aver percorso tutto l'arco delle Piccole Dolomiti Vicentine.
Domenica, infine, gran finale nel segno della corsa in montagna classica con i tre percorsi del Campogrosso Mountain Classic. Per le categorie Pro/Sen partenza da Recoaro Terme con un tracciato di 13,4 km e 1.200 m D+. Partenze da Staro con un tracciato di 6,4 km e 800 m D+ per gli Junior e di 8,5 km e 850 m D+ per gli Open. Per tutti la grande festa all'arrivo al passo di Campogrosso.
Enrico Pollini, direttore di gara di Ultrabericus Team, che ha seguito e promosso fin dall'inizio il progetto di unire Trail Running e Corsa in Montagna in un unico grande evento italiano, ha spiegato che si tratta del primo test che anticipa il nuovo format che la Federazione Internazionale di Atletica IAAF ha messo in campo per le discipline dell'outdoor running a partire dai campionati mondiali del 2021. Non più manifestazioni dislocate in un arco temporale ampio e su diverse location, ma un unico grande evento di più giorni in cui inanellare le diverse prove che assegnano i titoli. Per Ultrabericus Team è indubbiamente una conferma della qualità delle proposte agonistiche rappresentate non solo da Trans d'Havet, ma anche da Maistrack e Staro-Campogrosso e dalle rispettive organizzazioni coordinate.


Gilles Sierro, lo sci come arte

Parlare a quattr’occhi con chi hai sempre incrociato solo virtualmente è un piacere che ritengo fondamentale per poter conoscere qualcuno, specie al giorno d’oggi che mettersi in contatto con altre persone è questione di un click. Quando poi incontri un grande sciatore, diventa un privilegio. Vedere dove abita, come vive, gli occhi con cui guarda le sue montagne, ti fa capire un mondo di sfumature che si perderebbero tra i filtri di un più asettico scambio di mail. Gilles Sierro è un grande sciatore. Vive di sci e per lo sci. Non usa frasi fatte e ti basta uno sguardo per capire che la sua vita è veramente votata a questa disciplina. È cresciuto e vive nei pressi di Hérémence, Vallese, vicino ad Arolla. In linea d’aria pochi chilometri dal confine italiano. Con condizioni di neve migliori per raggiungerlo avremmo fatto prima con una pellata forse. Ce lo hanno detto anche gli operai al tunnel del Gran San Bernardo, chiuso.

Al Bianco sono sempre gentilissimi e accettano i quaranta e più euro anche se sono stropicciati. Poi il Col des Montets con la prima neve e i larici rossi, vuoi mettere? La schilometrata passa che quasi ti chiedi perché lo hanno fatto il Gran San Bernardo. Alla domanda invece di perché forse eravamo gli unici a non sapere della chiusura una risposta ce la siamo data dopo un secondo e faceva rima con… leoni. Poi le luci di un pomeriggio di novembre in un villaggio di chalet in legno svizzeri annullano o quasi i sensi di colpa. Per trovare quello di Gilles l’indicazione è poi ineccepibile: lo riconoscerete dalla buca delle lettere fatta con gli sci. Dopo circa mezz’ora passata a visitare ogni cortile della borgata, Gilles ha capito che era meglio se ci veniva incontro anche se il nostro navigatore si stava ostinando a indicarci una strada (in effetti corretta) che poi abbiamo scoperto essere la più innevata di tutto il vallese. È arrivato in retromarcia. Dopo un caffè abbiamo iniziato a conoscerci.

Una casella della posta decisamente da... skipper ©Federico Ravassard

 Gilles, la prima domanda che ci si fa tra sciatori in questo periodo: Sei carico per la stagione? Hai voglia di sciare oppure hai ancora voglia di altro?

«È vero! È la domanda classica del periodo tra chi scia! In realtà ho già iniziato questa settimana qui sopra. Con un amico ho testato un po’ il drone per fare delle riprese. La Magic Valley (come chiama la Val d’Hérens) è la mia casa, in stagione il comprensorio qui vicino è collegato con Verbier. Non posso lamentarmi. Anche se quando mi chiedono quale sia il mio spot preferito sono sempre in difficoltà perché in realtà il posto preferito è dove scio in quel momento, perché sto facendo proprio ciò che mi piace!».

Montagnard o sciatore? Ti piace vivere la montagna anche nelle altre stagioni?

«Posso ritenere di essere entrambe le cose, specie per il genere di sci che pratico. Sono diventato Guida proprio per poter sciare il più possibile, per vivere la mia passione quasi dieci mesi l’anno, tra clienti, spedizioni, viaggi e attività personale. Generalmente in luglio e agosto pratico attività più alpinistiche. I miei periodi preferiti per lo sci sono l’inizio dell’estate per la pente raidee il pieno inverno, quando riesco a godermi senza stress lo sci: freeski nel pieno della sua definizione, vivere la sensazione di gioco, di scivolare».

In una parola, facci capire che cosa è lo sci per te?

«Sembra banale ma posso dire che è vita: nel senso che la mia vita è orientata allo sci in modo totale. Perché è la cosa che mi è sempre piacito di più fare. Sono uno ski addicted nel senso più puro del termine. Ad esempio, quando a maggio finisco la stagione invernale con i clienti, stacco una settimana, vado al mare, faccio bici, libero la mente e mi preparo per iniziare la mia stagione dello sci. Lo faccio per lo sci».

Veniamo al tuo sci preferito, allo ski de pente, sinceramente non mi piace molto la definizione di sci ripido, o estremo, sei d’accordo?

«Non mi piace la parola estremo, ormai non ha più senso. Su qualsiasi rivista e ancor peggio sui diversi canali social dove ormai gira l’informazione tutto viene passato per estremo: usano termini come leggenda, enorme, ogni fatto viene galvanizzato. È talmente tutto leggendario che ormai lo sci estremo ha perso di significato perché il termine stesso è stato abusato e banalizzato. Se ci riflettiamo, il livello di estremo dipende dal limite soggettivo di ognuno. Paradossalmente anche una pista rossa può risultare estrema per un principiante. Un altro problema che vedo in questo mondo è che sono pochissimi quelli che sciano solo per se stessi. Grazie anche alla facilità di accesso alle informazioni sta diventando un circo in certi posti. Mi è capitato di parlarne con Davide Capozzi. Vedi il bacino di Argentière: è un posto dove le linee classiche sono indiscutibilmente bellissime, ma si riempie all’inverosimile perché sono conosciute, hanno nomi spendibili. Un piacere anche maggiore, senza anima viva intorno, lo si può trovare su una linea sconosciuta, ma appunto: non la conoscerebbe poi nessuno (ride)».

La tua idea di skieur de pente quindi quale è?

«Per fare veramente pente raidese condo me sono necessarie tre cose: bisogna essere buoni sciatori, e ce ne sono sempre di più in giro. Devi essere un alpinista e, cosa veramente importante, paziente. La pazienza! Sulle linee davvero impegnative le buone condizioni sono fondamentali. È veramente difficile trovare quelle perfette. Per sciarle in un bel modo, con una sciata estetica, è necessario aspettare il giusto momento. Ad esempio, prendiamo l’anno scorso: avete presente la parete nord della Pigne d’Arolla, qui sopra casa mia? È stata scesa, ma con doppie e derapate tra le rocce per cento e passa metri. Ed è una parete che diventa buona quasi tutti gli anni. Basta aspettare. Per me una discesa di quel tipo è inconcepibile. Anche su progetti più impegnativi sto aspettando da anni il momento giusto, ho visto bianche certe pareti in autunno mentre la parte bassa era impercorribile. Oppure, sempre qui in zona, il Mont Blanc de Cheilon è stato sceso per adesso non dalla punta. Ma secondo me potrebbe arrivare il momento. Mi piace aspettare, per cercare di scendere le pareti nel momento perfetto. Ci vuole pazienza».

 Quello che ritieni il tuo più bell’exploit?

«La Dente Blanche sud-sud/ovest, dalla punta con due miei amici di qui, con cui ho condiviso l’attesa e la speranza di poterla sciare proprio come abbiamo fatto. Con le condizioni del 2013 e solo una doppia di meno di quaranta metri. Questo è proprio l’esempio di cosa intendo per ski de pente».

Ho letto che di cercatori di linee in realtà pensi che ce ne siano pochi, una decina tra Chamonix, Vallese e Valle d’Aosta? Chi sono?

«Senza dubbio tra questi posso citarti Davide Capozzi, Pica Herry. Anche Fransson, che purtroppo se ne è andato. Penso che abbiamo lo stesso modo di intendere questo tipo di sci. Personalmente mi piace cercare linee il più possibile pulite, possibilmente senza doppie o dry ski su cui alcuni si sono specializzati. Non è quello il mio modo di sciare».

©David Carlier

Abbiamo parlato anche con Pierre Tardivel nell’intervista dello scorso mese dell’attuale tendenza della ricerca della massima fluidità e velocità possibili nello scendere certe pareti. Negli ultimi anni sono usciti parecchi video e immagini di questo tipo. Cosa ne pensi? Credi che sia, come ritengono alcuni, qualcosa di rivoluzionario, oppure no?

«Vedere sciare certe pareti in quel modo è senza dubbio impressionante, per la velocità stessa intendo. Non per la linea. Se si vuole parlare di rivoluzione bisogna specificare che è relativo alle linee classiche e più aperte. Non sono nuovi problemi, linee inedite o molto tecniche».

Però forse è stato messo nero su bianco come sciatori professionisti possono sciare pareti - sono d’accordo - classiche. Per un’attività libera come lo ski de pente dove anche lo sciatore della domenica, se preparato, può confrontarsi, se vuole, sullo stesso terreno di gioco del professionista, si è visto quale sia il livello e il margine dei professionisti! Si sono messi un po’ in ordine i valori tra tutti quelli che fanno discese e si spacciano per pro o ambiscono a esserlo.

«Su questo posso concordare. Però secondo me non si può parlare di rivoluzione nello sci ripido. L’evoluzione, per come la vedo, passa nella ricerca della linea. Sia chiaro, nutro molto rispetto per sciatori come Jérémie Heitz: ha spinto in avanti il limite del freeride. Però la mia visione di sci ripido, forse anche per questioni di età, ritengo sia differente».

Pensi che lo sci estremo nel futuro continuerà a progredire sulle Alpi oppure si sposterà in alta quota? Vedi dei limiti in questo?

«A mio avviso continuerà sempre sulle Alpi e le discese classiche vedranno sempre più sciatori, complici l’evoluzione dei materiali e le migliori capacità e preparazione. Questo discorso vale per le classiche. Su linee nuove non penso che ci sarà mai molta gente: per uno sciatore la preparazione e la ricerca delle condizioni è più complicata e ci si deve investire molto più tempo. Nella quota invece non vedo seriamente un limite. Prima o poi ci sarà qualcuno che ci mostrerà come fare e allora proprio quel limite non ci sarà più. Proprio come per certe salite se pensiamo a Ueli Steck o alle ascese in velocità di Kilian».

Un lato affascinante degli sciatori come te è il loro rapporto con i rischi e la paura durante l’azione.

«Io dico sempre che bisogna distinguere tra rischi e pericoli. I primi capita di prenderli, di accettarli e devi sempre cercare di minimizzarli. Tra i secondi invece non si deve dimenticare di considerare anche la pressione, le aspettative che uno ha intorno, la social pressure: sono come i seracchi. Personalmente anche con i miei sponsor cerco sempre di minimizzare e gestire al meglio questi aspetti. Poi l’aspetto mentale è importantissimo: ad esempio due anni fa in primavera avevo per la testa troppi pensieri. C’erano buone condizioni in montagna, ma non nella mia testa. E ho preferito tagliarmi fuori da questa situazione proprio perché non ero al 100 per cento mentalmente».

Che ruolo gioca la paura in quello che fai. Pierre Tardivel ci diceva che in realtà si mantiene sempre un margine.

«È importante prima e dopo, non durante l’azione. Bisogna essere focalizzati. Si deve sempre scendere mantenendo un margine di sicurezza: se sali e magari capisci che non ci sono le condizioni, devi saper rinunciare, anche se poi non posti nessuna foto su Facebook (ride)».

Gilles, quali sono stati i tuoi miti?

«Senza dubbio Dédé Anzévui, Guida e sciatore fortissimo di questa zona. Poi Stefano De Benedetti. Una linea che ho sognato a lungo e che mi piacerebbe sciare è proprio la sua parete est della Aiguille Blanche de Peuterey

Veniamo alle domande tecniche che ci si fa tra sciatori: che materiale usi, quali sono i tuoi setting?

«Generalmente scio con assi da 100-110 millimetri sotto il piede: così lo scarpone non tocca mai e poi sono gli sci che anche per lavoro uso di più, con i quali ho più confidenza: non ci sono sorprese. Scarponi tipo TLT6 o affini: non mi pongo particolari limiti per il peso dell’attrezzatura. Però gli sci devono essere facili, non esageratamente rigidi o duri. Generalmente 177 centimetri di misura circa. Attacchi tipo pin montati un centimetro indietro rispetto al centro scarpone: ho meno coda quando giro nello stretto e davanti ho la sensazione che galleggino meglio. Comunque ribadisco, non sono un fanatico del peso, anche se cerco di portare il meno possibile compatibilmente con ciò che faccio. Ad esempio preferisco i ramponi con le punte frontali in acciaio e la talloniera in alluminio».

I tuoi posti preferiti per sciare nel nostro paese?

«Senza dubbio Helbronner, è assolutamente fantastico! E poi Dolomiti, dove è tutto così vicino, di facile accesso e ci sono linee bellissime».

Come ti vedi tra 20 anni, quale potrà essere il tuo modo di sciare?

«Tra vent’anni? Spero di far conoscere alcune linee classiche, magari ai miei figli. Ah, dimenticavo, certamente non su uno snowboard!»

Chissà come mai lo avevamo capito già dalla cassetta della posta…

Chi è Gilles Sierro

Svizzero, classe ’79, Guida alpina, alpinista, Istruttore di sci certificato. Se chiediamo a lui: sciatore, punto. Cresciuto nel villaggio di Hérémence, non distante da Arolla, nel cuore delle Alpi Svizzere, tra Chamonix e Zermatt. Ha fatto le prime scivolate ad appena due anni, per poi praticare prima sci agonistico e quindi freestyle con l’arrivo dell’adolescenza fino a competere in Coppa del Mondo di halfpipe. La scelta di diventare alpinista e quindi Guida è stata presa per poter sposare il più possibile la sua passione per lo sci. Balzato alle cronache nel 2013 per la fantastica nuova discesa diretta dalla parete sud-sud/ovest della Dent Blanche (4.364 m), non smette di fare progetti e di riempire di neve le sue giornate in attesa delle condizioni perfette per poterli portare a termine.

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Gilles Sierro con i suoi sci ©Federico Ravassard

Da Est a Ovest

Bianco. Nessun colore ci accompagna, mentre seguiamo l’ago della bussola che ci conduce a Ovest-Nord-Ovest. Whiteout. Niente suoni, tranne il vento che per fortuna oggi soffia più leggero. Per il resto, solo il ritmo degli sci e il nostro fiato. Abbiamo lasciato il fiordo di Isortoq da qualche giorno e siamo in pieno deserto bianco. Tento di interpretare le forme della neve, quando è il mio turno a battere traccia. Creste, buchi, sculture traforate dal vento. Una zampa d’orso. Che ci fa qui, a quasi cento chilometri dalla costa? Chiamo i compagni dietro di me, a loro non sembra. Mostro le unghie che hanno grattato il ghiaccio, ma ribattono che è uno scherzo di neve, nessun pericolo di incontrarlo stamattina. Però i norvegesi, che hanno il fucile, controllano che la cartuccia sia in canna. Non è un orso? Mah. Già abbiamo incontrato, ancora in vista del mare, piume, ossicini e peli che ha vomitato sul ghiaccio, liberando lo stomaco dai resti delle prede di qualche settimana. Erano freschi, non era transitato da tempo. Via di nuovo, per la cronaca non incroceremo alcun orso fino al termine della traversata, ma quelle orme, sono sicuro, erano sue.

Groenlandia, 14 agosto-10 settembre 2017, autunno a quelle latitudini. La traversata della più grande isola ghiacciata della Terra è un sogno fin da bambino, quando ho letto e riletto un libro sui grandi esploratori e fra tutte mi è rimasta in testa l’avventura di Fridtjof Nansen, ventisettenne di Christiania (Oslo), il suo viaggio da costa a costa del 1888, nella stessa stagione, da Est a Ovest come lo stiamo ripetendo noi. Un po’ più a sud il suo, un centinaio di chilometri in meno, ma rimane straordinaria l’impresa. Undici giorni di peregrinazioni in mezzo ai ghiacci a bordo di due scialuppe sbarcate dalla nave Jason, bivacchi sugli iceberg, la rotta contesa all’acqua gelata a colpi di ascia. Poi l’inlandsis, le barche abbandonate per proseguire con due sole grosse slitte del peso di oltre cento chili ognuna e allora un mese di odissea per raggiungere Godthåb, l’attuale Nuuk, capitale dell’isola. La fame. E finito il ghiaccio, ancora acqua da attraversare su una barca costruita con pezzi di slitta e, raggiunta una colonia danese, l’intero inverno in attesa di una nave per rientrare in Norvegia. Per loro una marcia verso l’ignoto, in un’immensità glaciale che gli inuit dicevano abitata da mostri. Per noi la ripetizione di un itinerario duro per le condizioni atmosferiche, faticoso e lungo, ma in fondo quando hai dubbi basta accendere il gps e trovi la traccia verso Kangerlussuaq (ma abbiamo proceduto sempre con la bussola).

E però se alla sera, rintanato tra le piume, rileggi le pagine del suo libro - un bestseller per la borghesia appassionata di montagna a cavallo del secolo, tradotto in ogni lingua europea salvo in italiano, quello che fece scoprire in tutti i Paesi alpini lo sport dello sci - ritrovi le stesse emozioni, i paesaggi, le difficoltà di un territorio che nonostante i mutamenti climatici è rimasto sostanzialmente uguale ad allora. Anzi lo scorso autunno, a causa di un’anomalia termica registrata solo in Groenlandia, le temperature erano crollate più ancora che ai tempi di Nansen: notti a -35° e una media diurna tra gli 0° e i -10°. I venti catabatici, che si rinforzano a Ovest sulle pianure canadesi e dall’Islanda sull’oceano Atlantico a Est, ci hanno frullatoper l’intero viaggio, in continuo contrasto, tanto da avere, dal mattino alla sera, bufera da ogni direzione.

Non è cominciata a metà agosto, la nostra traversata. È partita qualche anno fa con il tentativo di convincere gli amici delle precedenti spedizioni in giro per il mondo, poi una settimana sugli sci in Finnmark, nord della Norvegia, in febbraio per testare materiali e noi stessi nel grande freddo. In un inverno particolarmente mite, abbiamo cercato l'angolo d’Europa più gelido in quella stagione ed è risultato lassù. È finita con il congelamento di tre dita per Giorgio Daidola, fortunatamente temporaneo. Non ho idea se la visione delle falangi gonfie e annerite abbia convinto gli altri a sfilarsi, ma così è stato. È rimasto Matteo Guadagnini, scialpinista di lungo corso, e sono cominciati gli allenamenti seri, tabelle da maratona, montagna e soprattutto quella che Borge Ousland, il grande esploratore polare, chiama «la nobile arte del trascinare pneumatici», per abituarsi al traino delle slitte. A metà 2016 è toccato a me arrendermi, fermato da un elettrocardiogramma sotto sforzo del dottor Massimo Massarini. Matteo è partito lo stesso, affidandosi all’organizzazione di Ousland, io ho dovuto rimandare all’anno seguente. Ce l’abbiamo fatta entrambi, pur con spedizioni diverse, Matteo ci ha pure scritto un piacevole racconto pubblicato da Fusta editore, Groenlandia sulle orme di Nansen.

© Leonardo Bizzaro

Ci vogliono almeno ventotto giorni per lasciare la traccia degli sci dalla costa Est alla costa Ovest. Ci si può mettere meno, ma diventa una gara contro il tempo, da impostare in maniera totalmente diversa da una spedizione alpinistica. Per sopravvivere a quella che è una delle più lunghe traversate sul ghiaccio - Antartide a parte, è ovvio - occorre trascinare almeno settanta chili di attrezzatura e cibo divisi fra due slitte. Cibo soprattutto, ché nel corso della giornata ingurgiti di tutto, per tirare avanti. Difficile correre, con un peso del genere attaccato alle spalle. Se però si affronta con spirito agonistico, è un’altra cosa. A metà giugno 2016, i norvegesi Ivar Tollefsen, Trond Hilde e Robert Caspersen hanno impiegato 6 giorni, 22 ore e venti minuti per coprire 560 km da costa a costa. Il primato precedente durava da tredici anni. Trond e Ivar c’erano già riusciti in poco più di nove giorni in autunno. In entrambi i casi non hanno utilizzato sci da fondo escursionistico come i nostri e pelli di foca, ma stretti e leggerissimi attrezzi nordici sciolinati, trainando un’unica slitta di pochi chili e stringendosi in una sola tenda. Roba da norvegesi, per i quali il tempo è buono e quindi si può andare se il vento cala appena sotto i 100 km/h. E la temperatura ideale è attorno ai meno venti. E infatti preferiscono partire a metà agosto, quando già comincia a farsi sentire il morso del gelo invernale e tradizionalmente si attraversa l’isola da Est a Ovest, mentre in primavera, dopo metà maggio, le temperature sono più alte, i venti meno impetuosi e la direzione usuale è l’inverso. C’è un vantaggio però a farla nella stagione meno favorevole: i crepacci nella prima e nell’ultima parte dell’inlandsis sono più chiusi, le seraccate meno tormentate e i canali di fusione, che in primavera assomigliano a fiumi in piena, in autunno si possono percorrere senza bagnarsi troppo, lasciando galleggiare le slitte.

Un viaggio straordinario nel tempo, prima ancora che attraverso le latitudini. Un’avventura che vale un pezzo di vita, per chi ama le solitudini glaciali. Un grazie ai miei compagni Thomas Kober, Beate e Martin Klein, Grete Karin Saetervik, Bård Helge Strand e Sindre Sivertsen.

ATTREZZATURA ARTICA

Preparare l’attrezzatura per una spedizione polare o subpolare di un mese è un lungo lavoro di scelta e di eliminazione spietata. C’è da scegliere tutto il materiale in base alle proprie necessità, ai consigli di chi già l’ha fatta, alle visite dei saloni specializzati e alle lunghe navigazioni su internet. Poi ne va lasciato a casa metà. Sarà comunque troppo per le vostre povere spalle, troppo poco per le necessità durante la traversata. Qui mi limito a indicare l’attrezzatura meno usuale rispetto alle più comuni uscite alpine.

© Leonardo Bizzaro
  • Sci Åsnes Nansen 190 cm
  • Attacchi Rottefella Backcountry Magnum
  • Pelli lunghe e corte
  • Sciolina (necessaria quotidianamente per evitare gli zoccoli, altrimenti vi toccherà usare il burro o la crema solare)
  • Bastoni Swix Mountain (+ almeno uno di ricambio, le rotture sono inevitabili)
  • Scarpe Alfa Polar (abbondanti di almeno tre misure) con solette Woolpower in lana e alluminio
  • Calze in abbondanza, di varia grammatura: ai piedi ne vanno indossate tre, a meno di non preferire i kartansk lapponi in lana cotta
  • Guanti fini + guanti lavoro Ortovox Tour + moffole abbondanti in piuma e Polartec da sovrapporre a tutto
  • Underwear 200 gr. Merino Ortovox o Engel in Merino e seta
  • Underwear 600 gr. Woolpower in lana
  • Giacca Patagonia Nano Air
  • Duvet The North Face L6 Down Jacket
  • Pantaloni Patagonia Powslayer Bib
  • Pantaloni Patagonia Nano Puff
  • Giacca Norrøna
  • Berretti vari lana + balaclava + maschera neoprene + Buff + berretto in pelliccia sintetica 66° North Kaldi Arctic Hat

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65 rose per 65 cime contro la fibrosi cistica

In inglese cystic fibrosis e 65 roses pronunciati da un bambino hanno un suono molto simile. Ecco perché la Lega Italiana Fibrosi Cistica, per sensibilizzare l’opinione pubblica e il mondo della montagna alla lotta contro la malattia genetica ha ideato l’iniziativa 65 rose per 65 cime. Il gioco è semplice: basta portare con sé una rosa, vera o artificiale, su una vetta e farsi un selfie. La foto va poi inviata 65cime@fibrosicistica.it . L’idea è quella di accostare la bellezza della montagna e la purezza dell’aria a una malattia che ha fame d’aria e di vita. Il progetto, voluto dall’artista e scrittore Roberto Bombassei, è partito il primo luglio ed è sostenuto, oltre che dalla Lega Italiana Fibrosi Cistica, da Montura (nei negozi del brand si possono ritirare delle roselline create appositamente per la campagna). La rosa è anche il simbolo internazionale della fibrosi cistica. Il progetto prevede inoltre conferenze e seminari in tutta italia. 65cime.fibrosicistica.it


BUT a Riccardo Borgialli e Basilia Foerster

Riccardo Borgialli e Basilia Foerster sono i vincitori dell'edizione 2019 di BUT Formazza. Borgialli, ha trionfato nei 52 km della Bettelmatt Trail in 6 ore e 51 secondi, lungo un tracciato che ha superato i 3000 metri ed è andato a toccare la Cascata del Toce, con il suo salto da 143 metri, il più alto d’Europa. 8 ore 17 minuti e 23 secondi, invece, per la prima classificata tra le donne: l’italo tedesca Basilia Foerster.
In tutto oltre mille i partecipanti, arrivati da 14 paesi (oltre all’Italia, Belgio, Brasile, Germania, Gran Bretagna, Ecuador, Francia, Norvegia, Olanda, Polonia, Romania, San Marino, Stati Uniti, Svizzera) nel caratteristico borgo walser di Riale, per questa spettacolare competizione che prende il nome dal Bettelmatt, il raro e pregiato formaggio di montagna che nasce tra gli alpeggi piemontesi, al confine con la Svizzera.
Accanto a Borgialli, vincitore della 52 km, Cristian Minoggio si è aggiudicato per il quinto anno consecutivo (sesta volta in totale) la Sky Race da 35 km, con un tempo di 3 ore 54 minuti e 11 secondi. L’ossolano Mauro Stoppini, di 28 anni, ha tagliato invece in 1 ora 31 minuti e 59 secondi il traguardo della Bettelmatt Race di 17, 5 km con un dislivello di circa 880 metri.
Al femminile, accanto alla Foerster vincitrice della 52 km, la rumena Mihaela Marinescu si è aggiudicata la 35 km in 5 ore 28 minuti e 52 secondi, mentre la ventunenne Chiara Vanini, ha tagliato il traguardo della Bettelmatt Race in 1 ora 55 minuti e 25 secondi.
Grande protagonista di quest’anno è stata però la solidarietà: per le tre gare principali è stato destinato un euro per ogni partecipante a Dynamo Camp, la onlus che offre gratuitamente programmi di terapia ricreativa a bambini e ragazzi dai 6 ai 17 anni. Il ricavato della Mini Trail da 8 km, a cui hanno preso parte anche molte famiglie, è stato invece devoluto come sempre alla famiglia di Marco Bacher, un ragazzo di Formazza che necessita di assistenza h24.
«Anche quest'anno la Val Formazza si è dimostrata una gara di altissimo livello, capace di coniugare sport, natura e divertimento - ha affermato Gianluca Barp, Presidente di Formazza Event - Siamo cresciuti del 15% con le iscrizioni rispetto allo scorso anno e abbiamo coinvolto oltre 1000 atleti provenienti da tutta Italia e da 14 paesi del mondo».


DoloMyths Run Ultra Trail a Franco Collè e Giuditta Turini

L’ottava edizione della DoloMyths Run Ultra Trail si risolve in una questione di famiglia fra Franco Collè e Giuditta Turini, che hanno chiuso i 61,2 km davanti a tutti gli avversari, iscrivendo per la prima volta il proprio nome nell’albo d’oro di questa competizione, che si disputa attorno al gruppo montuoso del Sella, con partenza e arrivo a Colfosco. Nella half, sulla distanza dei 26 chilometri, a trionfare sono stati invece il trentino Luca Miori e la danese Ulrikke Evensen. Quattro sfide interessanti, che hanno coinvolto complessivamente 350 runner provenienti da 22 nazioni. Un dato, quest’ultimo, che rappresenta un record, mentre i primati cronometrici sono rimasti imbattuti, forse anche a seguito del cattivo tempo, che ha accompagnato i partecipanti nella prima parte della gara.
Un’edizione dai valori tecnici elevati, per quanto riguarda la sfida ultra maschile, grazie soprattutto alla presenza del valdostano Franco Collè e del suo compagno di squadra del Team Hoka One Marco De Gasperi. Senza dimenticare i due alfieri del Team Salomon, il bergamasco Luca Carrara, vincitore dell’edizione di dodici mesi fa, e il ceco Jiri Petr, alla sua prima partecipazione, con il valtellinese Giovanni Tacchini nel ruolo dell’outsider, mentre non ha preso il via Gil Pintarelli a seguito di un infortunio.
Un quintetto che ha affrontato compatto i primi chilometri del tracciato, 61,2 km con 3.380 metri di dislivello, facendo selezione verso Bec De Roces e proseguendo fino agli 11,3 km di Arabba. Nell’impegnativa ascesa al rifugio Padon Luca Carrara ha perso contatto anche a seguito dell’infortunio al polpaccio, che non gli ha consentito di esprimersi al meglio. Alternandosi al comando i quattro leader sono transitati assieme al Pordoi (dopo 27,5 km), a Canazei (dopo 34,3 km) e al Passo Sella (43,4 km), ma in discesa Collè ha provato ad allungare e De Gasperi è stato l’unico in grado di resistergli. Nella salita verso il rifugio Dantercepies il valdostano è riuscito a prendere il comando, con il valtellinese ad una quarantina di secondi e Tacchini ad un paio di minuti. Nell’ultima discesa verso il traguardo di Colfosco non è cambiato nulla nelle posizioni di vertice. Così Franco Collè ha chiuso a braccia alzate con il tempo di 6h17’01”, una prestazione di 1 minuto e 3 secondi più elevata rispetto al record su questa distanza ottenuto dal gardenese Georg Piazza nel 2016. Marco De Gasperi ha accusato un ritardo di 3 minuti e 1 secondo, mentre il grintoso Giovanni Tacchini è giunto sul traguardo di Colfosco dopo 9 minuti e 21 secondi. Seguono a 12 minuti il ceco Jiri Petr e a 26’13” un stanchissimo Luca Carrara, sesto il russo Kirill Rusin.
Senza storia e senza emozioni forti la sfida al femminile, dominata dall’inizio alla fine dalla valdostana Giuditta Turini, che ha gestito senza patemi la leadership e le proprie energie. Sul traguardo di Colfosco ha concluso con il tempo di 7 ore, 47 minuti e 35 secondi, distanziata di 28 minuti è poi transitata sul traguardo la brasiliana Lara Martins e altri 9 minuti dopo Francesca Perrone.
Da ricordare che Marco De Gasperi e Giuditta Turini si sono aggiudicati anche il premio riservato a chi transita per primo a Selva di Val Gardena, il traguardo 'Sprint Felix', posto al 50esimo km della competizione.
Partecipata anche l’esordiente sfida half sulla distanza dei 26 chilometri e con 1.600 metri di dislivello, che ha visto lo start a Canazei alle 9, ovvero poco dopo il passaggio dei big della competizione lunga. Ad aggiudicarsi la prima edizione è stato il trentino della Valle dei Laghi Luca Miori (Gs Fraveggio), che ha impiegato il tempo di 2h23’31” per domare le due ascese al Sella e alla Dantercepies con relative discese. Al comando dopo la prima salita c’era però l’orientista primierotto Riccardo Scalet, che nella discesa nei pressi del rifugio Comici ha sbagliato tracciato, perdendo tempo preziosissimo e giungendo solo quarto. In seconda piazza è così giunto Vili Crv, quindi terzo Roberto De Gasperi.
Fra le ragazze è giunta l’unica vittoria straniera, per merito della danese Ulrikke Evensen, autrice addirittura del sesto tempo assoluto, avendo chiuso la prova dopo 2 ore 44’ 38”. Piazza d’onore per la brasiliana Silvia Durigon, a 8 minuti dalla vincitrice.
Ora tutta l’attenzione si sposta sul prossimo fine settimana, quello in cui si disputeranno il DoloMyths Run Vertical Kilometer in programma venerdì, la Mini Sky DoloMyths Run in programma sabato e la DoloMyths Run Skyrace di domenica, che porteranno a Canazei tanti campioni provenienti da tutto il mondo.


Ortles + Tre Cime + Grossglockner uguale North3

«Seguire le orme di uomini che più di vent'anni fa immaginavano il futuro dell'alpinismo è una sfida in sé: ciò che queste persone hanno fatto è semplicemente difficile da credere. Ma il nostro obiettivo non è solo un tributo, una sorta di seconda edizione: vogliamo spingere oltre i nostri limiti. Vogliamo costruire un dialogo alla pari con i nostri precursori e stabilire un nuovo punto di riferimento per l'alpinismo ibrido del futuro». 

Simon Gietl e Vittorio Messini

Arriviamo nel tardo pomeriggio a Solda, sotto all’Ortles. Il tempo è buono. Iniziamo a preparare il materiale mentre Simon e Vittorio stanno ancora riposando, preparandosi all’impresa che li aspetta. Quando si alzano, alle 17, iniziamo con calma misurata a ripassare la logistica della loro impresa. È una sensazione strana: tutto è tranquillo, ma non rilassato, anzi. A guardare i ragazzi sembra di vedere due gatti acquattati in un prato che stanno per saltare come molle. Il tempo inizia a incupirsi poco dopo le 18, ma ancora non piove. Saliamo verso la partenza del sentiero che li porterà alla base della parete, a Solda di Fuori. La cima si vede e non si vede, mangiata da nuvole veloci e scure. Alle 19 Simon e Vittorio hanno gli zaini in spalla, il materiale pronto, lo sguardo concentrato e le gambe che vanno da sole. Un paio di foto e partono. È difficile stargli dietro: non corrono, non possono sprecare energie, ma sono davvero leggeri e veloci. Spariscono nel bosco, ricompaiono, spariscono di nuovo. Tornante dopo tornante macinano metri di dislivello. Il tempo si fa più cupo. In quota si alza un vento teso: la parete, carica di seracchi imponenti e maestosi continua, ad apparire e sparire. Sono arrivati alle pietraie che conducono al canale nevoso. Si sente un rimbombo sordo: una nuvola di neve e di ghiaccio scende veloce, appena a sinistra della linea da cui saliranno i due. La massa non è enorme, ma sembra non finire mai. Scende, scende, come un torrente bianco impetuoso e delicato. Fa impressione.

Simon e Vittorio continuano a salire, mentre iniziano a cadere le prime gocce di pioggia.  Inizia a diventare più buio. A valle la pioggia si fa più intensa, in parete nevica tantissimo. Stando al tracking del GPS Simon e Vittorio dovrebbero essere appena oltre il canale, sotto al primo muro di ghiaccio verticale. Il puntino luminoso continua a salire, lento ma inesorabile. Alle 22 sono fermi sotto a un grosso strapiombo. In parete la visibilità è praticamente zero, la neve arriva da tutte le direzioni, il vento urla. Il puntino sale un po’, qualche decina di metri, poi scende. A valle col fiato sospeso ci chiediamo cosa stia succedendo. Il puntino riprende a salire come prima, lento ma inesorabile.  È passata da poco la mezzanotte quando i ragazzi mandano una foto dalla vetta. Inizia la discesa, lungo la via normale. Il tempo sta migliorando: da Trafoi, in fondo alla valle sul lato ovest della montagna, iniziano a vedersi, ogni tanto, delle piccole luci. Simon e Vitto scendono veloci sugli sci, godendosi la stessa polvere fresca che ha funestato così tanto la salita. La luna è appena tramontata e qualche stella inizia ad occhieggiare, mentre il vento si ferma del tutto. Certo, la salita non è stata una passeggiata, ma in fondovalle siamo tutti un po’ invidiosi. C’è un prezzo da pagare per una discesa così, però una sciata del genere alla fine di maggio è una cosa da gran signori.

© Storyteller-Labs

Le luci scompaiono quando i due entrano nel bosco. Dopo circa un’ora si sentono delle voci, appena dietro alla curva. I led improvvisamente vedono i vapori della notte e sbucano Simon e Vitto, allegri, che chiacchierano tra di loro. Gli scarponi rimbombano sul ponte di legno, mentre tutti i presenti applaudono i due ragazzi. C’è una colazione veloce e frugale, giusto il necessario per rimettersi un po’ in forze. Ci sono i massaggi del fisioterapista, per levare un po’ di fatica dai muscoli. Tempo quaranta minuti e i due sono in sella alle bici: pedalano nel buio fino a Prato allo Stelvio, poi a Spondigna, poi giù per la Val Passiria, nel silenzio rotto solo dal rumore degli irrigatori che annaffiano i frutteti.

L’alba arriva a Castelbello, proprio mentre le biciclette sfrecciano sotto al castello arroccato sulla strada. Il cielo è rosa e terso nel momento in cui i primi raggi di sole lo sfiorano. Poco prima delle otto Simon e Vittorio entrano a Bolzano. La città ha appena iniziato a muoversi, c’è ancora poco traffico e poca gente. Fin qui hanno avuto un sacco di discesa: un ottimo modo per riposare un po’ e recuperare un po’ di energie, in vista dei chilometri e delle pareti che ancora li attendono. Si fermano per un momento in un panificio, in centro: una brioche, un caffè, una spremuta mangiati al volo, una spazzolata al tavolo per levare le briciole e via, di nuovo in sella, prima seguendo il corso dell’Isarco e poi su verso la val Pusteria. Ora la strada è in salita ed il sole batte forte: non è decisamente una pedalata di tutto riposo. Ci vogliono parecchie ore di fatica e sudore prima di raggiungere le Tre Cime. Quando raggiungono Dobbiaco il cielo si rannuvola di nuovo, dando un po’ di respiro a Simon e Vittorio. Una goccia, un’altra, poi le cataratte si aprono. Succede spesso in Dolomiti durante l’estate: un acquazzone potente, di quelli che ti inzuppano fino alle ossa, quelli talmente forti che ti pare di essere preso a schiaffi dall’acqua. Simon e Vittorio, stoici, continuano a pedalare, anche se la fatica inizia a farsi sentire. La prossima sosta è al lago di Ledro, prima di attaccare la ripida salita che porta verso Misurina e poi verso il rifugio Auronzo, sotto alle Tre Cime. C’è poco tempo: uno spuntino veloce, un altro incontro ravvicinato con il fisioterapista e poi via, di nuovo in sella sotto l’acqua battente. Arrivare a Misurina non è una passeggiata, ma la vera e propria sfida è appena dopo, all’imboccatura della strada che sale al rifugio. Sono quasi cinque chilometri, 473 metri di dislivello, con una pendenza media del 10%: una salita breve e spietata che da sola fa una storia. Figurarsi con nelle gambe già centinaia di chilometri, più l’Ortles. La pioggia si calma. Il cielo rimane coperto, ma per lo meno Simon e Vittorio riescono a salire senza cuocersi né inzupparsi. La fatica inizia a essere davvero tanta: Simon sale lento, ma ancora dritto; Vitto invece ha già iniziato a fare curvette per ridurre l’impatto della pendenza.

Il rifugio è ancora chiuso. I ragazzi si ristorano velocemente con quello che hanno, cambiano le scarpe e partono a piedi. Sarà la breve pausa, sarà il cambio di mezzo di locomozione, ma pare che abbiano ripreso le forze, almeno un po’. Vanno veloci e decisi fino alla chiesetta alla base della Cima Piccola, poi su fino alla spalla da cui il lato nord delle Tre Cime si svela in tutta la sua maestosa potenza. Le vette non si vedono, sono avvolte in una densa nuvola. A terra la neve è bagnata e pesante, e rallenta il passo. C’è da farsi mancare il fiato. Simon e Vitto si fermano un momento per godersi il paesaggio e per guardare le condizioni della parete. Confabulano un po’ tra di loro, poi ripartono. Camminano alla base delle pareti, dove la roccia spunta dalla neve come un dente da una gengiva. Nel mentre ricomincia a gocciolare.

GIORNO DUE

Sotto alla Grande la situazione è complicata. La via Comici-Dimai è completamente fradicia; piccoli rivoli continuano a scendere, infilandosi giù per i polsi e per le maniche di Simon e Vitto, che hanno attaccato il primo tiro. Salgono ancora, ma con meno decisione. Ogni cosa è scivolosa e non è chiaro per nulla quali siano le intenzioni del tempo. Al terzo tiro si decidono: la via non è scalabile. Non in maniera sicura, perlomeno. Ci vuole coraggio a compiere quella scelta: North3, tre pareti nord, l’impresa di Kammerlander ed Eisendle, l’hype mediatico, le dirette in radio… Ma sia Simon che Vittorio hanno bene in mente cosa vuol dire l’alpinismo per loro: è un bel gioco, un gioco che include anche la sfida, un gioco che a volte ti pone di fronte condizioni difficili come la tormenta sull’Ortles. Ma è comunque un gioco, non una crociata. Le condizioni non sono adatte, quindi si torna indietro. Anche se un po’ fa male.

Il progetto non è finito, però: ci sono ancora ore ed ore di fronte, e le energie non sono ancora terminate: perché fermarsi? Simon e Vittorio si spostano sotto alla Cima Piccola, dove corre la via dello Spigolo Giallo. Su quello sperone aereo e affilato corre un’altra via di Comici, una via incredibilmente estetica e ambita. Simon e Vittorio si legano, si guardano in viso, partono. Seguirli da sotto dà soddisfazione: sono poco più che puntini, ma non è difficile immaginarli impegnati e contenti, immersi nel loro elemento. Soprattutto fa sorridere e scalda il cuore la loro resilienza, la loro capacità di tenere in mente quali siano le cose importanti per davvero: fare qualcosa di grande, certo, ma tornare comunque a casa, avere la possibilità di riabbracciare le loro famiglie e di ripartire per altre montagne.

© Storyteller-Labs

Alle ventuno, dopo oltre ventisei ore dalla partenza a Solda, raggiungono la cima. Il record del 1991 rimane, per ora. Ma la vita è lunga abbastanza per riprovarci.  Simon e Vitto scendono lentamente, prima in doppia, poi per ghiaie. Alla base li aspettano complimenti, incoraggiamenti, pacche sulle spalle e le loro biciclette. Sì, perché è ora di ripartire: una cena frugale, poi via, veloci, con il vento che quasi taglia la faccia. Giù fino a Dobbiaco, poi San Candido, Prato alla Drava, l’Austria. Attraversano la frontiera come in un sogno, da soli, accompagnati solamente dal rumore dei pedali e del respiro. È a Lienz che si ricomincia a salire. La strada si infila in una valle stretta, ripida e curva. Poco prima della grandiosa cascata di Heiligenblut si fermano per riposare una decina di minuti, pronti ad affrontare l’ultima rampa. All’alba raggiungono la piccola frazione di Winkl, quattro case abbarbicate su ripidi prati al confine tra Carinzia e Tirolo. Il rituale è lo stesso del mattino precedente: una veloce (e vorace) colazione, un incontro con il fisioterapista (specie per Vittorio, che ha qualche problema a un ginocchio) e poi si riparte. Il tempo è bello; il Grossglockner si staglia in cima alla valle maestoso e innevato, completamente visibile. La stanchezza inizia a vedersi, sono quasi trentasei ore che i due non fanno altro che fatica. Ciononostante vanno avanti. Riusciamo a seguirli fino al ghiacciaio sotto alla parete nord, sul quale si allontanano, apparendo e scomparendo tra le morene laterali. Attaccano la parete, poi scompaiono.

Ci spostiamo in auto a Kals, dall’altro lato della montagna. Seguiamo i loro progressi con il tracking gps, metro dopo metro e passo dopo passo. Certo, è solo un punto su uno schermo, ma riusciamo a intuire la fatica e la difficoltà. Come se non bastasse, inizia a piovere. Saranno di nuovo in mezzo alla neve. Alle 15 il tracking rimane fermo a lungo. Non c’è visibilità, la montagna è nascosta, non sappiamo cosa succede. A Kals è come stare in una sala controllo della Nasa, solo che non seguiamo una missione lunare: seguiamo tutti quanti i movimenti dei ragazzi sugli schermi dei nostri laptop. Raggiungono la cima, si fermano, iniziano a scendere. Stimare i tempi è difficile, per due ragioni: sono bravissimi, e sono stanchissimi. Saranno più o meno di 48 ore?

Iniziamo a salire, ad andar loro incontro. Non riusciamo a stare fermi, ad aspettare e basta. Non abbiamo più i computer e i cellulari non hanno abbastanza segnale per collegarsi al tracking. Abbiamo solo i nostri occhi per capire dove siano.  Poi appaiono. Un tornante dopo l’altro, stanno scendendo. Arriveranno in tempo, ormai è chiaro. C’è un traguardo ufficiale, sì, ma chissenefrega. Li accogliamo festosi, li accompagniamo, scendendo assieme, al termine di questi due giorni di fatica. Ci fermiamo prima del ‘traguardo’: attraversarlo da soli deve essere un momento loro e basta. Simon salta, batte i talloni tra di loro, si mette a ridere e abbraccia Vittorio. Piove di nuovo, ma non importa. C’è dello spumante, ci sono gli amici e le famiglie. Certo, non è stato North3. Ma è stato bellissimo, ed ora è questo che conta.

I NUMERI

Distanza bici + hiking + sci: 391 km

Start: 27 maggio 2018 -19 / 0h00’

Ortles 00:30 / 5h30’

Cima Piccola 21:00 / 26h30’

Grossglockner 16:30 / 45h

Arrivo: 29 maggio 2018 - 18:16  / 47h16’

Dislivello positivo: 9.628 m

Dislivello negativo: 9.535 m

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© Storyteller-Labs

Garmont in Sudafrica per Save The Rhino

Rhino Man – The Movie è il titolo del film-documentario realizzato da Global Conservation Corps(GCC), realtà no profit sudafricana che opera per coinvolgere ed educare le comunità locali al rispetto e all’importanza di salvaguardare la fauna selvatica. Un film che apre una finestra sulla realtà eroica dei ranger, che mettono a rischio ogni giorno la propria vita per difendere la fauna selvatica ed offrire alle future generazioni l’opportunità di vedere queste specie nel loro ambiente. Sono loro l’ultimo baluardo, l’ultima linea fra la sopravvivenza e l’estinzione di rinoceronti, elefanti ed altre specie iconiche. Garmont fornirà ai ranger calzature tecniche di alta qualità per garantire loro comfort e protezione durante le lunghe giornate di lavoro. Ma l’azienda italiana contribuisce in maniera concreta anche al progetto Future Rangers Program, lanciato ufficialmente da GCC nel gennaio 2019. Grazie a questo programma, GCC coinvolge ragazzi dai 5 agli 18 anni provenienti dalle comunità rurali al fine di stimolare consapevolezza ed amore per la natura, introducendoli alla realtà della conservazione, al valore della fauna selvatica e a come diventare custodi di questo patrimonio nazionale. Gli studenti più appassionati riceveranno l’opportunità di incontrare i ranger, partecipare a escursioni e incontrare per la prima volta gli animali simbolo dell’Africa selvatica. «Sembra incredibile, ma sarà un’azienda italiana che permetterà a migliaia di ragazzi sudafricani di formarsi sulla conservazione dell’ambiente e riscoprire il contatto con la natura selvaggia: è qualcosa di cui siamo davvero onorati e orgogliosi» ha affermato Pierangelo Bressan, Presidente di Garmont International. «Da oltre 50 anni, Garmont realizza calzature di qualità per l’escursionismo, il trekking ed altre attività outdoor. Senza natura, senza ambiente, senza quella wildness che ispira il nostro motto Stay Wild, non ci sarebbe Garmont: è qualcosa che non possiamo dare per scontato. Riuscite a pensare che i bambini nati dopo il 2026 potrebbero crescere senza sapere cosa sia un rinoceronte, se non scoprendolo sui libri? È cruda realtà, non finzione scenica: credo che noi tutti dobbiamo fare la nostra parte per evitarlo. È arrivato il momento di restituire qualcosa, alla natura e alle generazioni future».


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