Arranco lentamente, ogni venti passi mi fermo e, appoggiato sui bastoni, con un paio di respiri più lunghi, cerco di rimettere il fiato a posto con i tempi. Poi riparto spingendo gli sci in un mare di bianco accecante. Il pendio non è ripido e la neve non è brutta, ma la quota trasforma ogni singolo movimento in una fatica immonda. Mi fermo più e più volte, e ogni volta lo sguardo si fissa sulle mie due lame nere che trascino con i piedi e che fendono, anche cromaticamente, il manto candido della montagna che mi ospita. Non sono uno scialpinista e gli sci accoppiati sotto il mio respiro affannato mi ricordano solo anni passati, dove gli stessi, di altre forme e uso, giacevano inermi in attesa di affrontare le discese libere per le quali ero portato. Discese libere intese come attività sportiva di scorrimento veloce, tra salti e curve affrontate a oltre 100 chilometri orari, su nevi tendenzialmente dure o ghiacciate, un altro sci insomma, lo sci di un ragazzino che sognava i cinque cerchi olimpici, lo sci di un giovane esuberante che amava l’ebbrezza della velocità e un altro tipo di montagna. Poi i tempi passano, i cinque cerchi sfumano e l’amore per la neve cambia, più e più volte.
SEI AMICI AL BAR Alla fine, pochi mesi fa, un incontro fortuito al bar, un’idea che sembrava buttata lì tanto per parlare, un progetto che silenziosamente prende piede, che diventa realtà e che ora mi fa contare una ventina di passi tra una sosta e l’altra. Il bar era uno qualunque, con un arredo qualunque, in un pomeriggio qualunque, l’incontro quello con Cala Cimenti, l’unico Snow Leopard italiano. Cala è un ragazzone torinese di 41 anni che con la conquista del Peak Communism (7.496 m), nell’estate del 2015, è stato insignito dell’onorificenza del leopardo, che viene riconosciuta dalla Federazione di Alpinismo Russa solo a chi ha scalato tutte le cinque montagne di 7.000 metri delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale. Cala mi propone di salire il Peak Lenin (7.134 m), nel sud del Kirghizistan, senza dubbio tecnicamente la più facile delle cinque vette sorelle, ma innegabilmente anche quella con più vento, parametro questo che ne abbassa drasticamente la percentuale di riuscita (raggiungono la cima solo il 20-25% dei pretendenti). Spingo e conto, mi fermo e respiro, ogni tanto mi guardo intorno e ammiro la maestosità della parete nord che, sulla mia sinistra, scende omogenea e apparentemente liscia verso una valle grigia. Sotto i colori slavati e secchi dell’alta quota estiva si allungano a perdita d’occhio fino a spegnersi nell’infinito. Sto risalendo la via principale, quella della cresta ovest, sono a metà strada tra il campo due, a quota 5.300, e il campo tre, che andremo a montare ai 6.100 metri. Sono sotto il peso stremante di uno zaino enorme, imposto dalla scelta dell’autosufficienza nei campi avanzati. Con me, chi davanti e chi dietro, oggi ragionevolmente slegati, i miei compagni d’avventura, tutti amici ‘da bar’ che, al momento di decidere la trasferta, si sono trovati nel posto giusto al momento giusto e hanno deciso di unirsi alla spedizione. Un gruppo di amici normali con la passione per la montagna e per lo sport endurance, un sestetto che si conosce e si frequenta specie nelle gare di trail running e che ha deciso di condividere un’emozione forte chiusa da tempo nei relativi cassetti dei sogni. Maurizio Basso, 27 anni, è un serramentista che lavora in proprio, pratica scialpinismo agonistico e corsa in montagna di buon livello. Joseph Sassano, 45 anni, un cuoco con un infinito amore per la montagna. Flavio Ferrero, 52 anni, un dirigente d’azienda che impegna ogni minuto libero della sua vita in attività fisiche legate ai monti. E poi lei, la cucciola del gruppo, Natalia Mastrota, 21 anni, figlia del televenditore Giorgio Mastrota e della bella attrice Natalia Estrada, che al cemento di Milano ha preferito la vita più sobria e montana di Chamonix dove lavora come cameriera/barista. Un sestetto, tutto affiliato al CAI di Bra, in cui l’unico a non aver mai spinto gli sci con le pelli sono io, ma in un paio di prove tecniche mi tolgo le formalità di risalita mentre per la discesa non vedo problemi. Il pendio s’inasprisce e quella che fino a ora era una linea di percorrenza retta, si trasforma nel classico zig zag da escursione scialpinistica. Virata su virata approdo al piattone adibito a campo tre dove una quarantina di tende, per lo più momentaneamente disabitate, colorano e ravvivano un ambiente quasi troppo bianco. Il sole è alto e caldo, il vento sembra avere concesso una pausa, le speranze sono buone, domani si tenta la vetta.
GIORNO X 25 luglio 2016, ore 3,30: fuori da una delle due tende arancioni Ferrino preparo le ultime cose, tra le quali gli sci appesi allo zaino, monto i ramponi sugli scarponi e parto seguendo un tracciato illuminato dall’esile fascio di luce che esce della mia frontale. Abbiamo deciso partenze scaglionate per provare a essere in cima tutti insieme, scelta difficile per chi come me non è avvezzo a certe situazioni che quindi deve affrontare da solo, ma decisione unanime che avrà nei fatti la sua ragione. Ben distanziate nella notte si intravvedono una trentina di luci ciondolanti, il freddo è di quelli importanti (percepito -35°) ma l’adrenalina riscalda gli animi, spingendo le gambe in un’andatura decisa. I soliti 20-30 passi, poi un piccolo recupero e poi ancora movimento. Verso le 5,30, anticipati da sfumature viola e arancioni, i primi raggi di sole colorano il cielo. Uno spettacolo mozzafiato che mi godo in compagnia di Natalia. The Knife, il coltello, una cresta particolarmente esposta alla furia dei venti, è la parte più tecnica dell’intero percorso, l’unica dove è richiesto l’uso della piccozza, almeno per sicurezza. Appena prima violente folate di aria gelida ci hanno fatto abbandonare lo zaino con gli sci, lasciandoci quindi spogli e leggeri, con meno vela da offrire alla violenza delle raffiche e più possibilità di continuare. Poi lunghi traversi e mammelloni nevosi che sembrano non finire mai e alla fine lui, che sotto forma di piccola testa bronzea rappresenta il vertice del monte che gli hanno dedicato: Lenin. Il sole oramai alto illumina il mondo e il mondo, visto da qui sopra, sembra essere ancora più infinito. Mi vengono in mente le parole con cui Richard Parks, in Oltre l’orizzonte, descrive una situazione simile e le faccio mie: «Quassù l’orizzonte è più lontano che in qualsiasi altro luogo, e trovarsi a contemplarlo significa contemplare quanta più terra possibile senza staccarsi dalla sua superficie. Per questo motivo penso che ti faccia sentire più vicino al pianeta e, in qualche modo, a qualsiasi cosa ci possa essere di superiore a noi esseri umani». Cala e Mauri, mostrando esperienza e forza fisica fuori dal comune, a differenza di noi, arrivano in cima con zaino e sci al seguito e, come da programma, ridiscendono sciando l’immenso versante nord. Un’enorme parete di 2.700 metri di dislivello tagliuzzata da un’infinità di crepacci e lucidata nelle sue parti più esposte. Natalia purtroppo, causa geloni ai piedi, non ce l’ha fatta a salire e appena prima del coltello ha dovuto rinunciare, come peraltro ha fatto anche almeno un terzo della trentina di alpinisti provenienti da tutto il mondo che ci ha provato in questa gelida notte di fine luglio. Io, Flavio e Joseph, fatte le consuete foto di rito, ritorniamo ripercorrendo l’infinita cresta ovest che, dopo alcune ore, ci riporta al campo 3.
IL SOGNO NEL CASSETTO Ho camminato e sciato piano, pianissimo, ho fatto soste su soste, ho allestito e smontato campi, ho mangiato e fatto i bisogni in situazioni per me assolutamente nuove e decisamente estreme; sono stato aiutato, più psicologicamente che fisicamente, specie dall’amico Joseph, con cui ho condiviso l’ultima parte dell’ascesa finale, ho avuto un principio di congelamento ai piedi e annebbiamento della vista, probabilmente, a causa dell’aria rarefatta e della disidratazione. Sono anche stato momentaneamente incosciente perdendomi sfumature che non troverò più, ma alla fine ce l‘ho fatta. Con tanto sacrificio, un po’ di sana sofferenza e un pizzico di fortuna, fondamentale come sempre, ce l’ho fatta. Ce l’ho fatta io, un non alpinista e ce l’hanno fatta i miei amici scialpinisti. Ce l’abbiamo fatta e abbiamo portato a casa il nostro sogno nel cassetto. E la sera dell’ultimo giorno, nelle verdi e respirabili quote del campo base (3.500 m), guardando il grosso massiccio granitico ricoperto di neve e arrossato dagli ultimi raggi di sole che precedono la notte, seduto nella mia tenda, stanco e sorridente, rubando nuovamente una citazione a me cara (di Tiziano Terzani) ho semplicemente pensato: «Buonanotte signor Lenin».
Andata e ritorno in 13 ore e mezza
Dopo la salita dalla Normale, Cala Cimenti ha salito e disceso in velocità e in solitaria la via Arkin sulla difficile parete nord del Peak Lenin, per oltre 2.700 metri di dislivello. Ecco il racconto dell’impresa.
Sono le cinque del pomeriggio del primo agosto, neanche a farlo apposta guardo l’orologio che segna le 17.00 spaccate. Attraverso fasci di polvere di neve sollevati dal vento osservo il profilo del busto di Lenin. Reciprocamente ci guardiamo sornioni. Sono in cima al Peak Lenin (7.134 m) per la seconda volta in una settimana e quattro anni dopo la prima salita, quando questa cima ha dato il via al mio Snow Leopard Ski Project che è poi durato tre anni. Mi tornano alla mente immagini, emozioni, amicizie che mi hanno arricchito in questo arco di tempo sovietico e inevitabilmente vado con la mente anche a sette giorni prima, quando cinque amici festeggiavano in questo stesso luogo con grandi pacche sulle spalle e mille foto. È stato bello mettere a disposizione la mia esperienza a queste quote e la conoscenza della montagna per aiutare un gruppo di amici ad arrivare in cima alla loro prima montagna di settemila metri. In più, con Maurizio, siamo scesi da questa immensa parete nord con gli sci calzati direttamente dalla cima. Questa volta però è diversa, sono inginocchiato a 7.134 metri di quota e sono felice, sereno, volevo congedarmi da questa montagna con qualcosa di speciale, mi sarebbe piaciuto salire la sua parete nord attraverso la via Arkin in velocità, senza l’ausilio di campi intermedi e senza bivacchi, in giornata e da solo. Ovviamente volevo salire la nord in giornata per poterla poi ridiscendere con gli sci. Volevo regalare tutto a questo luogo un po’ speciale per me e mi sarebbe piaciuto che questa impresa rappresentasse la degna conclusione del mio periodo da leopardo delle nevi. Mi sarebbe piaciuto e speravo che la montagna me lo concedesse. Così la notte tra il 31 luglio e il primo agosto, alle 4.40 del mattino, sono partito dal campo a 4.400 m alla volta della cima, 2.700 m più in alto. È stata una salita dura, resa ancora più difficoltosa dall’abbondante neve caduta nei giorni precedenti, ma alla fine, dopo 12 ore e 20 minuti, ho raggiunto la cima in un ambiente surreale.
La discesa è stata meravigliosa: nonostante la fatica, che inevitabilmente non ti permette di avere quella continuità nella sciata che hai a quote meno elevate, sono riuscito a godermi una neve a tratti farinosa, sorprendentemente molto meglio di quella che mi aspettavo. La degna conclusione di tutto. Un’ora e dieci minuti dopo ero di nuovo giù, ai piedi del ghiacciaio. 13 ore e mezza dopo la mia partenza. Non mi restava che attraversare per l’ultima volta la grossa morena che mi divideva dal campo da cui sono partito e tornare all’agglomerato di tende gialle con gli sci in spalla. A metà strada mi è venuta incontro la piccola Natalia ed è stato un piacere incontrare, prima di tutti, i suoi occhi sorridenti nonostante proprio quel giorno avesse fallito il secondo tentativo di arrivare in cima. Insieme siamo andati al campo base e dopo è stato tutto un susseguirsi di strette di mano, sorrisi, complimenti e vodka.
Cala Cimenti
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