Se dovessi descrivere la passione, direi con certezza che per me ha l’aspetto di un volto stropicciato e l’odore di sonno. Sonno rubato al confortante tepore del proprio letto, a un sacco a pelo buttato da qualche parte al lato della strada o nel baule di un’auto corazzata di ghiaccio. Niente numeri, tempi, record o calorie consumate. L’amore per la montagna e per l’inverno si misura solo con i cinque sensi, nelle aree più profonde e antiche della corteccia cerebrale. L’olfatto appunto, quello inebriato del primitivo raggomitolarsi in un bozzolo di calore, che si converte poi nel profumo del caffè senza orari precisi. L’udito, disturbato dal suono di una moderna sveglia digitale e successivamente rigenerato dal silenzio della notte, nei passi felpati per uscire di casa o nel regalare qualche minuto ai compagni che ancora riposano. La vista, che appena desti può essere traditrice. Per quanto ci sforziamo, non siamo più animali da foresta e nel buio andiamo facilmente a sbattere da qualche parte. 

Il gusto, smorzato dalla bocca impastata di primo mattino ed esaltato da una buona colazione in via di partire, che rende un lusso anche il giaciglio più scomodo e improvvisato. Infine, il tatto: bruscamente messo all’opera dal repentino cambio di temperatura, è forse il senso più importante in questa fase. Ci si muove a tentoni nell’ora antelucana, le mani sono ancora tiepide mentre allacciano gli scarponi e chiudono lo zaino, i gesti sono consuetudine ormai, basta toccare gli sci per sapere cosa fare. Probabilmente si tratta di un compendio di sensazioni, una si lega all’altra, dando vita a un momento armonico che in qualche modo caratterizza sempre i preparativi per una salita. Ovunque essa sia. 

Ma la passione ha anche un altro aspetto. Quello dei momenti che gli altri ci donano nelle settimane, che scorrono sempre più veloci. Il ritmo scandito dal metronomo è al massimo ogni giorno: sveglia, colazione, bimbi a scuola, lavoro, riunioni, allenamenti, spesa, incombenze domestiche, di nuovo lavoro, giochi, impegni dei bimbi, contrattempi e ancora lavoro. Negli anni da bradipo del liceo e dell’università credevo che avessimo tutto il tempo del mondo, invece ci ritroviamo a vivere in apnea, arrancando nell’impossibilità di afferrare tutte le occasioni possibili. E soprattutto di non trascurare qualcuno. I bambini capiscono subito che domani andrò in montagna, non c’è bisogno che glielo dica. In giro per casa sono parecchi gli aggeggi strampalati con cui giocano sotto lo sguardo sospettoso del papà, e ancor di più i suoni onomatopeici verso i quali ormai hanno familiarità.
Il tintinnio dei moschettoni, lo strappo delle pelli incollate, il clac più o meno pronunciato di agganci vari. Ma solo le cerniere dello zaino sanciscono definitivamente il programma del giorno dopo, in una tacita comunicazione alla piccola tribù. Essere figli di un appassionato alpinista e sciatore è un destino che, come altri, non si può scegliere, ma forse più di tanti influenza enormemente la propria vita, spesso – io credo – in positivo. Pur non essendo unica nel suo genere, la montagna è una passione assoluta- mente totalizzante, che richiede uno sforzo intenso e costante per essere perseguita. In primis, vi è il benestare e il benessere di coniuge e figli, faccenda tutt’altro che scontata, considerato che per diversi motivi le uscite possono essere programmate in anticipo solo fino a un certo punto. Subito dopo, i doveri quotidiani: alcuni si possono anche rimandare, altri, come il lavoro, invece devono trovare il giusto incastro. 

A seguire, lo studio scrupoloso del meteo e delle condizioni ambientali, che sia neve, ghiaccio o roccia. Eccezionalmente si può anche azzardare, magari sulle montagne di casa delle quali conosciamo i capricci e le abitudini, però solitamente io tendo a sconfinare nell’eccessiva prudenza. Ultimo ma non meno importante dettaglio è la ricerca di compagnia. A volte, si rivela necessario fare un giro da soli, con ritmi conosciuti e in compagnia unicamente dei propri grovigli mentali. Più spesso, è fondamentale avere almeno un compagno, con cui smezzare fatiche, dubbi e quell’indescrivibile senso di liberazione nell’aver raggiunto un obiettivo a lungo sognato. La maggior parte delle volte, appunto, si rivela più complicato organizzare l’uscita che effettuare la salita stessa, nonostante l’ingaggio tecnico del terreno o la somma di sforzi richiesti sul campo. 

Per nostra fortuna, ogni tanto arriva il momento: le contingenze sono favorevoli, non abbiamo ancora deciso dove andare, ma a nessuno importa troppo, di progetti in testa ne abbiamo a volontà. L’ennesima notte persa è quella che dà più soddisfazione, mentre chiudo la porta cercando di fare più piano che posso. Le montagne di casa sono ancora carenti di neve, qui l’inverno è dispettoso: ci sono annate in cui tentenna e altre che butta giù carichi sproporzionati di neve, da dicembre a marzo. Oggi andiamo 300 chilometri a Nord, verso le amate Alpi, e in men che non si dica eccoci teletrasportati dal buio verso l’alba: siamo in un altro contesto meteo, una nuova stagione. Secondo caffè al volo e via a scaldare le gambe in salita, avidi di fatica, in debito di gelida aria pura. Le giornate trascorse sulla neve al freddo sono le più belle, impagabili nella loro semplicità. Il vento, il ghiaccio, le cornici sporgenti, le rocce scivolose, la barba incrostata, le dita doloranti, l’immobile e sconfinato panorama di vetta… Adoro elencare a voce alta i nomi di ogni rilievo attorno a me, stupefatto ancora una volta che sia proprio lì, dove dicevano le mappe.

Tutto è così meraviglioso tra le montagne, tutto è passione.