In questi giorni in cui siamo confinati in casa, ecco il racconto del giro della Valle d’Aosta con gli sci ai piedi. Un’avventura per la quale saremmo tutti pronti a partire, ma che dovremo rinviare. Le montagne rimarranno lì ad aspettarci…
Fra i legni lunghi due metri e dieci e i palettoni da 106 millimetri sotto il piede scivolano via cinquant’anni. Come niente fosse. Decenni di vite, senza che la montagna se ne sia neppure accorta. Corse, salite, discese, gare, neve, pioggia e sole. E lei sempre uguale a se stessa. Sempre lì, a due passi da casa. Corrono via cinquant’anni, ma gli orizzonti restano immobili. Vicinissimi a tutto, ma lontanissimi dal mondo. E i ricordi di allora si fondono con quelli di oggi. Raccontando come tutto sia cambiato. È il 1970, i legni sono altissimi e stretti, fardelli sugli attacchi capaci di alzarsi non oltre un paio di dita. Pelli fissate a tre ganci laterali, una tenuta approssimativa, nello zaino l’attrezzatura per sistemarle nei momenti peggiori. Nello sconfinato bianco della Val d’Aosta, in condizioni di neve perfette e abbondanti, tre ragazzi. Guido, Ruggero, Carlo. Ad aprile, primi di sempre, tracciano il loro sogno: attraversare la regione sugli sci, da Champorcher a Gressoney. Tredici tappe, due giorni di sosta per maltempo, 37.000 metri di dislivello. Quando arrivano alla meta, il giorno della Festa del Lavoro, a unirli non è solo la sensazione di aver fatto qualcosa di mai visto. È la certezza di aver fissato un’amicizia. Di averla messa alla prova. Nelle difficoltà e nelle risate. «Resterà sempre uno dei ricordi più belli della mia vita» dirà uno di loro.
Cinquant’anni si dileguano in vapore. Ma le cose belle diventano cemento. Anno 2017, mese di maggio. La storia si ripete. Sulle stesse linee che ogni anno decine di persone ripercorrono, sugli stessi passi che gli atleti del Tor des Géants inanellano frenetici, il sogno di Guido, Ruggero e Carlo rinasce. È lo spirito a dettare le regole: nessuna sfida contro il tempo, nessun bisogno di leggerezza per correre più veloci. Lì, a due passi da casa, Shanty Cipolli e Simon Croux decidono semplicemente di ripercorrere quel che qualcuno ha già fatto. Per raccontare a tutti, senza esibizionismi alpinistici, che «per esplorare non si deve per forza andare lontano». Perché quando parti, come puoi apprezzare quello che trovi, se non sai quello che lasci?. Sono le montagne su cui si affaccia la camera da letto, rimaste lì nel tempo ad osservare, senza dire parola. I luoghi di una vita. Shanty Cipolli, nome sanscrito portato in dono da un viaggio paterno in Nepal, qui ci scia da sempre. Ventisei anni, maestro di sci di Antey, porta sulle gambe giganti e gare di skicross con i colori della nazionale, prima di approdare al mondo freeride e ai Qualifier per il World tour. «Studiavo da geometra, ma ho lasciato perché non era compatibile con tutti questi impegni» ammette. E lo sguardo a un futuro professionale si è ridisegnato di conseguenza: «Ora punto alle selezioni per diventare Guida alpina» non nasconde. E intanto, si scia. Un po’ la stessa storia di Simon Croux, ventunenne di Courmayeur, nato in Svizzera e posato sugli sci all’età di tre anni da una famiglia titolare di un locale sulle piste ed erede di una lunga tradizione di Guide alpine (il trisnonno Laurent era fra i consueti accompagnatori del Duca degli Abruzzi). Anche per lui gare di gigante, poi un salto alle competizioni freestyle e l’arrivo a soli 14 anni al Freeride World Tour junior. «Anche io ho dovuto lasciare la scuola: frequentavo il liceo sportivo, ero riconosciuto come atleta nell’ambito di una classe de neige. Ma niente: la mia attività non era vista alla pari dell’agonismo più classico, da sci club. E questo non mi ha aiutato». Oggi, tanto per chiarire com’è finita, è nei Qualifier del Freeride World Tour.
Per Shanty e Simon, stuzzicati dal filmaker Michel Dalle, di Grobeshaus Production, l’idea di ripercorrere quel sogno lungo cinquant’anni, ritrovando lo spirito di quei lontani giorni scoperto per caso in un libro, è la scintilla. L’innesco di un’avventura diventata film con la voglia di mostrare a tutti cosa c’è là dietro. Dietro le cime di sempre. Oltre lo sguardo. A due passi da casa. Ma tra il fare per conservare e il fare per raccontare passano differenze immense. E dove Guido, Ruggero e Carlo scivolavano senza guardarsi indietro, pensando solo alla loro avventura, Shanty e Simon si trasformano in protagonisti. Accompagnati dal regista-snowboarder in split e illuminati dal volo di perlustrazione effettuato con l’amico Cesare Balbis, pezzo di storia del Soccorso Alpino valdostano, cercano soluzioni, inquadrature, momenti, luci e pensieri da cristallizzare. I chilometri si susseguono, i metri di dislivello scattano. «Ma i pesi dell’attrezzatura sono di per sé il segno che quel che si voleva non era la performance, piuttosto una forma di ricerca» chiarisce Michel. Il desiderio di dire qualcosa. Di vivere i luoghi della vita in modo diverso. Venti chili di materiale foto-video, sacco a pelo, fornellino, bombole, attrezzatura alpinistica, tende, cibo, acqua, sci, scarponi. Addosso a ciascuno c’è più di una ventina abbondante di chili. E da Courmayeur Arp, dove tutto inizia, le giornate si fanno pian piano sempre più dure. Sveglia alle 6 del mattino o giù di lì, pelli e sciolina fino alle 16, poi sosta. Se serve in tenda, dove la zanzariera deve restare aperta per evitare che tutto condensi, se si può in rifugio. Giorno dopo giorno, per ventidue albe e tramonti, corrono sotto le lamine La Thuile, il Rutor, la Valgrisa e il col Bassac Déré, il rifugio Benevolo, la Val di Rhêmes con la Punta Basei, la Valsavarenche con i Piani del Nivolet, il Miserin e Champorcher, Gressoney e il Colle Bettaforca, Champoluc e il Col di Nana, Torgnon, Saint Denis, Saint Barthélemy e il col Vessona, la Valpelline, il Gran San Bernardo e il Col Malatrà. La birra finale evapora qui, seduti fianco a fianco ad ammirare i 4.810 metri che sovrastano ogni cosa. E la mente corre veloce a tutto quel che è stato in così poco, ma anche tanto tempo: la salita durissima verso La Thuile e il Deffeyes, la volpe che curiosava in tenda e poi accettava uno spuntino, il caldo opprimente della Valgrisa. La giornata di relax totale sul ghiacciaio Goletta, all’ombra del Granta Parey. La voglia di uscire di rotta e salirlo, la decisione di farlo davvero. La fatica della parete dura e ripida. La bellezza della sciata fuori programma. E poi la polvere che solleticava le ginocchia sotto il Città di Chivasso, la durezza della salita al Miserin, la tappa a Chamois e Antey, con la grigliata a casa di Shanty e la parentesi di una notte nel letto di sempre. La polverella fine al Vessona, le tracce di lupi verso la Valpelline. Tutto si accavalla, tutto torna. Ma è tutto troppo caldo ancora. E giù dal Bonatti scalpita la voglia di dire basta alla fatica. «Era ora di arrivare – ricorda Simon -. E ho tirato giù una linea dritta sulle pigne del bosco. Era fatta».
Venticinque minuti di film, poco più di un minuto per ogni giorno, un anno dopo sintetizzano e fermano nel tempo quelle emozioni. Campi larghi, silenzi, parole scelte con attenzione. E un racconto che non risparmia dettagli sulle difficoltà. Shanty e Simon che osservano la mappa, che scendono a fuoco nell’immenso del bianco. Che attendono in tenda. Che scherzano sul cibo. Sono i momenti televisivi. Dietro ai quali si nascondono le discussioni sulla scelta dell’itinerario, le rotte decise in base alle condizioni del momento, i consulti con gli amici di ogni valle, gli sguardi ai bollettini valanghe. La consapevolezza di percorrere una linea logicamente contraria all’usuale, sempre in partenza da ovest per scendere ad est, dal cemento del mattino alle insidie del pomeriggio. La speranza che il tempo regga, la fortuna di vedere che sarà così. I tratti più critici, i traversi a rischio. I momenti di confronto sulla scelta delle inquadrature. I tempi di assetto del regista nei punti strategici e più magici. Ma la neve si offre stabile. Perfetta. Ed è lei a legare ogni pezzo all’altro. Un giorno, due. «La camminata fin da subito si rivela più lunga e faticosa del previsto – recita Shanty, voce narrante sullo sfondo delle immagini -. Ma ormai non si torna più indietro. Adesso siamo qui, solo noi con le nostre forze». Ed è lì, nell’attimo della consapevolezza, che il vero sogno di Guido, Ruggero e Carlo riprende forza. «Gli spazi si fanno sempre più ampi – spiega Shanty -. E noi ci sentiamo piccoli». Puntini nel bianco. Proprio come cinquant’anni prima, pur sorretti da materiali, idee, attitudini e propositi molto lontani, i pupilli del CAI Guido Fournier, Carlo Vettorato e Ruggero Busa avevano immaginato. «Il nostro non voleva essere solo un esercizio fisico – ricorda Guido quasi cinque decenni dopo -. Era qualcosa di più. Che aveva in sé anche una componente estetica e naturalistica». Un’esperienza. «Un ricordo fantastico – chiarisce Carlo -. Che se avessi cinquant’anni meno, o anche solo 30 o 40, rifarei subito. Anche se so che non sarebbe più la stessa cosa».
Anche Shanty e Simon lo dicono. È passato un solo anno, ma la voglia di rifare tutto è già forte. «Un rewind? Potendo farlo, mi muoverei a tappe – spiega il maestro di Antey -. C’è tanto, così tanto da sciare in quei luoghi che scorrere via veloci, in una sola linea di passaggio, sembra un peccato». E allora, chissà. Forse sarà domani, forse tra qualche tempo. Forse ci penserà di nuovo qualcuno tra cinquant’anni. Intanto il bello è ormai dentro al cuore e alla memoria. Una lotta contro il «freddo, il vento, la stanchezza, la fame, la condensa, gli scarponi ghiacciati». Con un finale che non ti aspetti. Perché «quando sei lassù a guardare le stelle, a sentire il silenzio, a vedere la luce del mattino, ti rendi contro che, nonostante tutto, ne è valsa la pena». E forse, a due passi da casa, ne varrà sempre la pena.
1.300 metri al giorno
La traversata scialpinistica della Val d’Aosta portata a termine nel maggio 2017 da Shanty Cipolli e Simon Croux è durata 22 giorni. Queste le tappe: Courmayeur Arp la Balme; La Thuile e Rutor; Valgrisa e Col Bassac Déré; Rhemes e Punta Basei; Valsavarenche e Piani del Nivolet; Miserin e Champorcher; Gressoney e Colle Bettaforca; Champoluc e Col di Nana; Torgnon; Saint Denis; Saint Barthelemy e Colle Vessona; Valpelline e Valle del Gran San Bernardo; Col Malatrà e Courmayeur. I due freerider valdostani hanno coperto circa 1.300 metri di dislivello al giorno, con alcune varianti e soste rispetto al classico percorso del Tor des Géants, facendo affidamento su mappe, cartine e telefonino, oltre a un GPS che però è stato utilizzato solo nei punti più critici. Membri del team Mammut, supportati da alcuni sponsor, hanno percorso la traversata con sci da freeride: per Simon Croux i Line Francis Bacon (104 mm sotto il piede) con attacchi Marker Kigpin; per Shanti Cipolli i Movement Go Strong (106 mm), sempre con Kingpin. Con loro il filmaker Michel Dalle, che ha seguito la traversata con una tavola split. Al seguito, quattro batterie da un chilo l’una, un corpo camera da cinque chili, un computer, caricatori, treppiedi e ottiche, per un totale di circa 20 chili di materiale video. Nel 1970 un itinerario analogo era stato percorso da Carlo Vettorato, Guido Fournier e Ruggero Busa: partiti da Champorcher il 17 aprile, arrivarono a Gressoney il primo maggio, chiudendo la linea in tredici tappe, con una sosta di due giorni per maltempo. Percorsero 37.257 metri di dislivello, di cui 17.842 in salita e 19.415 in discesa.
Il film
Disponibile online su YouTube, La Promenade (25’ 48”) è il film che racconta i 300 chilometri e 20.000 metri di dislivello percorsi da Shanty Cipolli e Simon Croux nella loro avventura scialpinistica. Prodotto da Grobeshaus Production di Aosta, il video è stato scritto e diretto dal filmaker Michel Dalle, maestro di snowboard. Al suo attivo da un paio d’anni anche il film cAPEnorth, realizzato con la comproprietaria di Grobeshaus, Francesca Casagrande, per raccontare il viaggio su un’Ape Piaggio di due giovani aostani fino all’estremo nord della Scandinavia.