Sabato uccisi 10 alpinisti in un attacco terroristico al campo base
Non sono giorni facili per l’alpinismo. Dopo la duplice tragedia sul Gran Zebrù, nello scorso fine settimana anche le cime del Pakistan si sono tinte del rosso del sangue. In questo caso purtroppo si tratta di un attacco terroristico che ha colpito sabato scorso il campo base del Nanga Parbat.
L’ATTACCO – Secondo alcune versioni 10 alpinisti e la loro guida pakistana sono stati fatti uscire dalle loro tende da uomini in uniforme e poi uccisi. Il gruppo comprendeva due cinesi, un lituano, un nepalese, due slovacchi, tre ucraini e una persona con doppia cittadinanza cinese e statunitense. Circa dieci portatori nepalesi si sono salvati perché saliti ai campi successivi per attrezzare la via. Altre versioni differiscono leggermente nel numero delle vittime e nelle modalità, e per molte ore la notizia non era neppure verificabile.
EVACUATI TUTTI GLI STRANIERI NELL’AREA – Oggi il governo del Pakistan è intervenuto per condannare l’accaduto e per evacuare dall’area circa 40 altri alpinisti ed escursionisti irlandesi. americani, italiani, nepalesi, danesi, serbi. Tutte le agenzie che avevano organizzato trekking e salite in zona hanno cancellato i loro programmi.
LE RIVENDICAZIONI – Sono giunte due rivendicazioni. Una generica di talebani, e un’altra più credibile da parte di Jandullah. Il loro portavoce, Ahmed Marwat, ha riferito in un messaggio: «Abbiamo attaccato perché i turisti erano infedeli nemici dei musulmani». Il movimento Jandullah non è nuovo ad attacchi terroristici; nel febbraio del 2012 attaccò un pullman nel Kohistan, uccidendo 18 passeggeri sciiti, ma è la prima volta che le loro azioni si spingono in aree in cui il governo pakistano ha sempre cercato di garantire la sicurezza al turismo internazionale.
UNA PRIMA ANALISI – Secondo Luca Calvi, studioso e appassionato di questioni di montagna, «dal Kashmir sono almeno trent’anni che ci si aspetta una sorta di esplosione che in parte ha già mostrato i propri prodromi. Come il Caucaso e come tutte le regioni di frontiera senza una ‘identità nazionale riconosciuta’, ma con una gran quantità di diatribe etnosacrali e religiose, il Kashmir è da decenni una polveriera, la cui creazione risale allo stesso periodo della creazione di due entità statali oggi conosciute come India e Pakistan. Sono più propenso a credere che la questione vada ascritta alle lotte ricorrenti e cicliche tra India e Pakistan, vedendo piuttosto una escalation in cui le frange estremiste di una società in precarissimo equilibrio tra Shari’a e modernità (Pakistan) hanno gioco facile a creare situazioni di panico che possono portare a danni per l’economia (fuga dei possibili turisti) e, conseguentemente, a facilitare la salita al potere dei potentati dell’antidemocrazia talebana o fondamentalista deteriore.
Non so se le rivendicazioni siano vere o solo uno sciacallaggio a proprio uso di quanto fatto da terzi. La lotta contro l’occidente non è un fine, è solo un mezzo per ottenere il potere ed il predominio nelle zone di confine».