She did it. Courtney Dauwalter, statunitense del Team Salomon, nel 2018 prima donna alla Western States, ha vinto lo scorso fine settimana la classifica femminile alla MIUT-Madeira Island Ultra Trail (115 km, 7.200 m D+) del circuito Ultra-Trail World Tour, piazzandosi al decimo posto assoluto. Per 17 minuti e 5 secondi (15h17’05’’ il suo tempo) non ha battuto il record di gara di Caroline Chaverot (anche se le due prestazioni non sono confrontabili in quanto il percorso 2019 era leggermente più lungo e con circa 300 metri di dislivello in più), ma si tratta di un’altra prestazione nella top ten assoluta per la trentaquattrenne che in ben undici gare della sua carriera è arrivata prima assoluta, davanti agli uomini. Veronica Balocco l’ha intervistata per noi. Un’intervista inedita, realizzata qualche mese fa, che pubblichiamo a seguire.

Quando la filosofia incontra gambe e muscoli, grandi cose possono succedere. In una donna, poi, ancora di più. Le scarpe che per cento miglia pestano veloci la terra, poi rallentano all’improvviso. Quando il traguardo è tagliato e la vittoria decisa. Le ore di gara che scorrono con un senso, ben oltre la banale e semplice voglia di arrivare prima. Courtney Dauwalter lo sa, che lei è così. Incapace di correre solo per competizione, assetata di profondità anche quando fa ciò che di più fisico esista al mondo. E poi brava. Dannatamente brava. Talmente oltre da stupire tutti: prima lo scorso giugno alla storica Western States 100 californiana, la gara mito dell’endurance, chiusa con le sue 100 miglia in 17 ore e 27 minuti, secondo tempo femminile di sempre, oltre un’ora prima della seconda classificata e solo venti secondi dietro all’undicesimo uomo. E poi, alla Run Rabbit Run 100 e alla Moab 240. Nella seconda delle due, una molotov lanciata oltre dieci ore prima del maschio più veloce.

Gare mitiche e massacranti, leggende del mondo della corsa di lunga distanza, andate ad arricchire l’infinito curriculum della figlia del Minnesota che, a 33 anni, è ormai considerata una delle top ultrarunner mondiali: oro in 28 classifiche femminili su 53 dal 2011, con il piacere di guardare dall’alto di un tempo migliore il vincitore maschile in ben 10 di queste gare.

Insomma, un fenomeno. Che oggi vince e stravince senza fare della fisicità e del fanatismo la sua religione. E affascinando il mondo intero con un approccio all’endurance tutto personale. Intimo. Estremamente femminile. Assetato di ricerca e risposte, ad esempio sui limiti del corpo umano. Sulle possibilità estreme dell’agonismo spinto ai più alti livelli. E soprattutto, sui riscontri mentali di uno sport capace di sollecitare le fibre oltre ogni capacità. Sui dubbi più umani e normali. Fino a che punto è consentito spingersi? Esiste un confine?

Courtney, è per dare risposta a queste domande che corri? Oppure per cosa?

Sono molto curiosa di capire ciò che il nostro corpo può fare. Ma ancora di più, cerco di comprendere ciò che possiamo mentalmente raggiungere. Quanto lontano possiamo correre? Quanto veloce possiamo andare? Quali barriere possiamo sconfiggere o attraversare? Non credo che abbiamo ancora scoperto tutto ciò di cui gli uomini sono capaci, e io ho intenzione di continuare ad investigatore sulla parte “corsa” di tutto questo. Continuerò a correre per trovare questi limiti del corpo e della mente umana.

Dove nasce il tuo amore per lo sport?

Sono stata competitiva tutta la vita. Quando ero piccola facevo un sacco di sport. Ho due fratelli e spesso mi ritrovavo a fare le loro stesse attività. Il calcio, ad esempio. Dopo il liceo mi sono trasferita in Colorado per frequentare l’Università di Denver, dove studiavo biologia e facevo parte della squadra di sci nordico. Ho iniziato a correre sin da giovane per tenermi in forma per il calcio, ma col tempo ho capito che gli allenamenti e le gare del cross-country e dello sci nordico avevano un fascino incredibile su di me.

E il salto all’ultratrail? Com’è successo?

Dopo il college è stato naturale cercare un modo per continuare ad allenarmi e gareggiare. Ho tentato un paio di maratone su strada e mi sono piaciute. Ma con mio stupore ho scoperto che c’erano gare ancora più lunghe: nel 2011 ho provato un trail da 50 chilometri e da allora il mondo ultrarunning mi ha rapita.

Ma da lì a capire che eri una vincente?

Nel 2016 ho corso la Run Rabbit Run 100 a Steamboat Spring, in Colorado. C’erano molte donne forti e nessuno si aspettava vincessi. Nemmeno io. Ma ho vinto. Quella gara mi ha aiutata a capire che potevo competere nell’ultratrail, se ci avessi lavorato su.

Un processo difficile?

È stato molto lungo arrivare a farmi un’idea precisa di questa disciplina. Ci ho messo del tempo per smettere di pensare ai chilometri e fare mie le gare più lunghe. È stato difficile catturare davvero questo sport. E non ho ancora finito di imparare.

 Come ti alleni?

Il cuore del mio allenamento sono la coerenza e l’autodisciplina. Esco ogni giorno a correre. Questo mi aiuta a rafforzarmi fisicamente ma anche mentalmente. Una volta fuori, non so quale allenamento seguirò: lascio che il mio corpo mi guidi. Quarantacinque minuti o 4 ore… dipende da come mi sento là fuori.

Che rapporto hai con il cibo?

Non seguo diete specifiche. Mangio quel che mi va e lascio che il mio corpo mi dica ciò di cui ha bisogno. Può andare da insalata e hamburger a valanghe di nachos e caramelle. Non faccio molta attenzione al concetto di ‘junky food’: a volte mi strafogherei di carne e uova, a volte non posso smettere di pensare al gelato. Qualunque cosa sia, penso che in quel momento il mio corpo ne abbia bisogno. E seguo i miei desideri.

In molte gare hai superato gli uomini più forti. È solo una leggenda che le donne siano il sesso debole?

Più le gare diventano lunghe, più uomini e donne si trovano a competere su un terreno paritario. Conosco donne molto forti che danno filo da torcere a tanti uomini nelle gare più lunghe. Io competo con chiunque allo stesso modo: credo che per le donne sia concretamente possibile reggere il confronto.

Eppure le differenze fra i due sessi sono innegabili. L’approccio alle gare è diverso, da un punto di vista mentale?

Penso di sì. Ci sono studi specifici su questo e trovo sia un campo molto affascinante. Dal mio punto di vista, il lato mentale dell’ultrarunning è un fattore determinante per essere vincenti.

Come ti confronti con la fatica?

Cerco di ignorarla. È fondamentale assumere questo atteggiamento.

 Dunque a cosa pensi mentre corri?

A tante cose. La mia famiglia, i miei amici. Le grandi domande della vita. Penso a quanto sia fortunata ad essere lì a correre un trail, in un posto bellissimo, facendo ciò che amo. Penso alla birra che berrò al traguardo. O a volte non penso affatto. E lascio che tutto sia silenzioso.

 Il momento cruciale in una gara?

Ognuna ha il suo. Alla Western State, ad esempio, il momento nevralgico è stato il miglio 25. Non mi sentivo così forte e il mio corpo non rispondeva al meglio. Il segreto è stato restare positiva: ho pensato che la gara era ancora lunga e potevano cambiare ancora molte cose. E in effetti così è stato.

 Resta il fatto che affrontare certe distanze è una sfida continua, dall’inizio alla fine.

Bisogna affrontare un momento per volta. Non guardo mai il quadro completo, ma lo suddivido sempre in pezzi più piccoli.

Il tuo futuro sportivo. Come lo vedi?

Spero di continuare a far parte di questo mondo ancora per lungo tempo. Continuerò a spingere oltre i miei limiti e a giocare duro finché posso. E quando tutto questo finirà, troverò un modo diverso per farmi coinvolgere. Amo la comunità dell’ultratrail e non voglio abbandonare questa grande famiglia. Per ora, comunque, continuo ad affrontare nuove sfide, sperando di migliorare sempre più le mie capacità. Poi si vedrà.