Skialper Archive / Jules Berger, local hero
Quando Marco Siffredi è sceso dal Couloir Cordier, Jules Berger aveva appena cinque anni. Era, a tutti gli effetti, un bambino e quel nomignolo gli è rimasto, the Chamonix kid. Nato e cresciuto ai piedi del Monte Bianco, per la precisione proprio sotto l’Aiguille Verte, fin da giovanissimo ha portato avanti uno scialpinismo d’esplorazione o per ripercorrere itinerari di pregio. Nelle ultime stagioni ha messo la firma su veri e propri exploit ben lontano dalle masse, magari scegliendo con cura le condizioni, anche in periodi dell’anno non propriamente sciistici. E così l’anno scorso, a vent’anni dall’impresa di Marco Siffredi, Jules Berger è andato a ripetere una linea mitica, così vicina eppure quasi inaccessibile, nel bacino dell’Argentière: un giorno speciale tra seracchi imponenti e i pendii vertiginosi del Couloir Cordier, sulla parete nord dell’Aiguille Verte. Giusto sopra a casa.
A Chamonix va così… Anche se a volte arriva il giorno in cui passiamo le nostre personalissime Colonne d'Ercole.
Spesso passiamo da Chamonix per lavoro, non penso che sia un caso, Cham è la Mecca dell’alpinismo e dello ski de montagne. Sei d’accordo? «Come posso non esserlo? Però Cham è ancora e soprattutto il punto di riferimento per l’alpinismo, più che per lo sci. Forse per lo sci estremo, ma non direi per lo sci alpino classico e forse neanche per lo scialpinismo inteso in modo tradizionale. Anche se il Monte Bianco offre un 86 terreno fantastico».
Ti chiamavano Chamonix kid, penso che sia quasi superfluo chiederti perché...
«Sono nato a Chamonix, 26 anni fa. Mia mamma fa parte di una famiglia di Guide locali, i Symond; papà è svizzero, ma comunque di una Svizzera non distante (ride, ndr). La montagna è ovvio che faccia parte di me in maniera naturale, non ho comunque iniziato molto presto, diversa- mente da altri. Da quando avevo sette anni fin verso i quindici ho gareggiato nello sci di fondo, in montagna e a sciare ci andavo, ma solo prendendo gli impianti. Verso i diciassette anni ho iniziato con l’alpinismo classico e lo scialpinismo, un percorso che mi ha portato via via ad aumentare la pendenza del terreno d’azione. Ora sono Maestro di sci alle Grands Montets, d’estate invece faccio il giardiniere e mi occupo di tree climbing. Non nascondo che mi piacerebbe provare il percorso per diventare Guida alpina, magari il prossimo anno».
Ci piace parlare con sciatori veri, non necessariamente professionisti nel senso stretto del termine. A dire il vero, se uno guarda bene oltre la cortina di fumo dei social, forse di veri professionisti ce ne sono ben pochi. Tu come ti definisci?
«Concordo in pieno. Sei un professionista quando sei pagato per sciare e spingi per portare un’evoluzione nella disciplina. Io non lo sono. È più corretto dire che sono un grande appassionato, uno sciatore appassionato. Mi piace cercare nuove linee, esplorare, conoscere posti diversi. Porto avanti a modo mio una ricerca. Poi in montagna mi piace fare tutto, in ogni stagione, dall’arrampicata, agli itinerari classici in puro stile chamoniard, al parapendio. Se mi chiedi cosa preferisco, ci penso un attimo, ma ti dico sciare».
Chamonix è il riferimento, ma immagino che non sia sempre così facile la vita alpinistica: competizione, anche tra gruppi differenti di sciatori – o gang, se vogliamo esagerare – pareti affollate, specie con la polvere, una corsa all’oro bianco e ai pochi grandi obiettivi stagionali. Esagero?
«No, assolutamente, è vero. Basta pensare all’Aiguille du Midi: è l’esempio perfetto. Venti, anche trenta persone giù dalla nord, da itinerari come la Mallory nei giorni di polvere in primavera, quasi fosse una gara alla prima traccia, che difficil-mente sarà la prima. È due anni che non ci vado per questo motivo. Non riesco ad avvertire l’atmosfera giusta per quello che faccio: hai gente sulla testa, sotto. Una corsa che ha dei rischi e non mi fa stare tranquillo. Nei giorni della riapertura della Midi, l’inverno scorso, con i miei compagni siamo andati volutamente a provare l’Aiguille de Bionnassay. Abbiamo sciato una nuova linea in neve fredda ed eravamo soli. Mi piace di più questo tipo di situazione».
In questa ottica, qual è il tuo spot preferito nel massiccio del Monte Bianco?
«Assolutamente il versante della Brenva, il lato più selvaggio del Bianco. Mi era capitato di salire lo Sperone della Brenva per poi scendere in parapendio. Poi ci sono tornato con gli sci, entrando dal Colle della Brenva e andando a prendere lo Sperone».
E fuori dal Bianco?
«Dopo la discesa della parete nord del Lyskamm orientale ho capito che
il Monte Rosa ha un grande potenziale. Ci voglio tornare. Così come il Vallese, in Svizzera: che montagne e che pareti! In inverno mi piace esplorare la zona di Arolla, un sacco di potenziale, terreno tecnico e poca gente».
Agli sciatori spesso chiediamo cosa cercano nelle linee, cosa
li spinge verso una determinata discesa. Sembra banale, ma cerchiamo di entrare nella vostra testa.
«Come per molti, quello che mi attrae di una determinata parete è l’estetica della linea, la sua logica, che a mio avviso non viene preclusa dalla presenza di salti e dal dover attrezzare tratti alpinistici, magari facendo delle doppie: a me non dà fastidio. E poi c’è il fascino per la storia delle montagne e di alcune imprese: è quello che è successo per la discesa del Cordier alla Verte. Lo conoscevo da molto tempo, ma più come un luogo tetro e minaccioso: basta pensare al numero di incidenti dovuti alla caduta di seracchi nel canale. Per anni ho provato diffidenza verso questo itinerario, poi la sua storia ha iniziato ad affascinarmi. Marco Siffredi è stato un modello per i giovani chamoniard come noi e siamo rimasti subito colpiti dagli scatti della sua discesa del Cordier nel giugno del 2000. La mia visione è cambiata. Ho iniziato a pensarci e poi ci sono andato. Una discesa bellissima e impegnativa».
L’Aiguille Verte, raccontaci
del tuo rapporto particolare con questa montagna.
«È vero, dire che è la mia preferita è quasi riduttivo. Trovo più corretto dire che è la montagna di casa, ci abito sotto, la vedo dalla finestra, è lì, sempre. Ci son stato ben otto volte, non sempre con gli sci. Per esempio, il Nant Blanc l’ho risalito per ricognizione e per iniziare a conoscerne i passaggi. È estetica, è bella, la più bella perché offre una miriade di linee e di possibilità».
Allora ti faccio una domanda interessata: il Couloir Couturier, versione originale, passando dove negli ultimi anni rimane il ginocchio di ghiaccio, secondo te un giorno sarà ancora sciato? «Mmmmm... non so, più no che si. C’è sempre ghiaccio ultimamente, non si è coperto neanche nelle ultime annate più nevose, quando era quasi tutto in condizione lì intorno. Non male la variante della Z aperta da Vivian Bruchez, si passa bene ed è un’alternativa perfetta».
Parliamo di Marco Siffredi: chi è per te? A Chamonix si avverte ancora il peso della sua personalità? Che cosa ha lasciato?
«Marco per me è un idolo, come Jean-Marc Boivin, mi ha ispirato fin da ragazzino. Vivendo qui, ho davanti il loro terreno di gioco: è uno stimolo. È stato un esempio e una motivazione. Poi ha fatto tutti i suoi exploit giovanissimo, come ero io con i miei amici quando mi sono avvicinato a questo mondo: è stato pazzesco: il Perù, l’Everest nel 2001, nel 1999 il Nant Blanc, a vent’anni appena compiuti. Il Nant Blanc! E quella foto! Un monumento! Quell’immmagine di Marco in mezzo alle strisce di neve tra
il ghiaccio verde... Ah la Verte!».
Veniamo alle domande tecniche: il tuo set-up?
«Uso sci Black Crows: gli Orb Freebird per i terreni più tecnici e dove c’è maggiore probabilità di trovare nevi dure. Il mio sci preferito però è il Navis Freebird: mi trovo bene ovunque, dalle curve di tutti i giorni alle pareti ripide. Gli attacchi sono Plum e gli scarponi Salomon».
Ora una curiosità: sappiamo che siete molto amici, parlaci di Michael Bird Shaffer: un personaggio eccentrico.
«Ci siamo conosciuti durante una discesa della nord della Midi. C’è stata subito empatia, nonostante fossi molto più giovane. Ne sono seguite altre come il Pain de Sucre, una parete molto ripida e tecnica. Siamo andati insieme e Bird era gasatissimo. Sì, entusiasta è la parola giusta per descriverlo: lo è in tutto, dalle sciate alle feste (ride, ndr)».
Arriviamo al nostro classico:
le definizioni. Descrivi cosa provi in una discesa: una parola.
«È una buona domanda, non così semplice come sembra. Concentrazione: solo dopo arrivano le emozioni. Solo dopo senti il sapore. Quando scendo sono concentrato».
Lo sci in una parola?
«Passione».
Jules in una parola?
«Curioso».
Il futuro dello sci?
«Per quanto mi riguarda spero di continuare a fare belle sciate, su belle montagne e pareti nuove per me. In generale, penso che, nonostante tutto, lo sci possa ancora essere esplorazione».
E a noi sentire questa prospettiva fa crescere solo l’entusiasmo.
A bientôt Jules!
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SI SKIALPER 139 DI DICEMBRE 2021
Skialper Archive / Fulgido Tabone, professione custode del Rocciamelone
La voce si assottiglia e si rompe, quasi volesse farsi piccola per lasciar spazio all’ennesimo ricordo. Le memorie di 45 anni trascorsi tutti quassù, senza mai lasciare un’estate sguarnita, fanno a pugni per essere raccontate. Ma, di tanto in tanto, il cuore prevale. E Fulgido il montanaro si commuove. A 2.854 metri d’altitudine c’è chi fatica a camminare qualche ora. Lui ci ha trascorso una vita. Il Ca’ d’Asti, rifugio alpino più antico d’Italia immortalato dalle cronache sin dal Trecento, oggi non sarebbe nulla senza le sue mani callose. Forse non ci sarebbe proprio più. Quel che dal 1977 Fulgido vi ha messo dentro, di materiali, di lavoro, di equipaggiamento, e di cuore, è tanto. È tutto quel che c’è. Trecento quintali almeno di carichi, trasportati tutti con il motore delle gambe, dice lui: qualcuno ha moltiplicato anni, salite e pesi e poi gli ha fatto il conto. Un numero teorico, certo. Ma alla fine, a guardarsi intorno, mica poi tanto. E dire che a 12 anni Fulgido Tabone, annata 1948, muratore e factotum di professione, pensava che da queste parti non sarebbe mai più tornato. Il Rocciamelone, che butta l’occhio sul Ca’ d’Asti da 700 metri più su, 3.538 sul livello del mare, gli era parso qualcosa da dimenticare, dopo quella prima salita poco memorabile vissuta dopo aver raggiunto la base in Vespa. E invece qualcosa era scattato. Ci sarebbe voluto tempo per capirlo, ma qualcosa era pronto a cambiargli la vita. Solo quest’anno sono 41. In totale, alla data del suo settantatreesimo compleanno, il 10 settembre, erano 1.220. Fulgido Tabone oggi non è solo il rifugista storico che dà un’anima al Ca’ d’Asti del CAI Susa: è anche l’uomo del Rocciamelone.
La persona che ha salito la cima dei torinesi, dedicata alla Madonna, più volte rispetto a chiunque altro al mondo. Dopo l’ormai lontana ascesa da dodicenne, Fulgido ha incrociato di nuovo queste strade nel 1976, quando sul giornale diocesano La Valsusa comparve un annuncio per la ricerca di volontari desiderosi di dare una mano nella sistemazione del vecchio rifugio e del bivacco in vetta. «Quel giorno mi sono presentato in punta, e ho visto che c’erano alcuni ragazzi, insieme al cappellano militare Laterza. Passammo insieme tutta la giornata: alla sera mi chiese di rimanere ancora, e di tornare in settimana» ricorda lui. Quel qualcosa destinato a cambiargli la vita era ormai scoccato. Da quell’anno, il legame con questi monti non si è più dissolto. «La sistemazione del rifugio è stata un lavoro lungo e faticoso, durato più di dieci anni e con tantissime persone che hanno dato un contributo – racconta Fulgido – Nessuno avrebbe scommesso una lira sulla rinascita di quel rudere, e invece guardate qui. Ma nel tempo ho capito che se avessi lasciato, forse tutto si sarebbe perso. E così ho deciso di legarmi sempre più a questo posto». Risultato: oggi qui tutto parla di lui. Non solo le stanze del rifugio, arrivato a contare 80 posti che il Covid ha purtroppo ridotto a una ventina, ma anche la cappella di Santa Maria e il bivacco sotto la vetta: «A tutto questo tengo come fosse casa mia» confida, evitando con modestia di puntualizzare che l’impegno gli è valso il Cavalierato e il premio Penna al merito dagli alpini della Valsusa.
Eppure, la storia di un amore tanto forte non può non contare anche dispiaceri. Come in ogni cosa umana, quassù, nell’aria più rarefatta, i sentimenti più nobili a volte se la vedono anche con le debolezze. E Fulgido, che per 45 anni ogni estate ha lasciato la sua Caprie per custodire questi luoghi, ripensa con la voce nuovamente rotta al 2006. «Quella volta in cui sfregiarono il volto della statua della Madonna». O alla vicenda del baffo rotto del busto di Vittorio Emanuele II, proprio in cima alla montagna. Le mani da artigiano di Fulgido ci hanno sempre messo su una toppa, ma la tristezza resta. «In tanti anni sono molte le cose cambiate in peggio. La maggior parte della gente è gentile e corretta, ma oggi faccio i conti sempre più con superficialità e maleducazione. Persone che prenotano e non si presentano, cattiveria, polemiche e discussioni per l’obbligo di mascherine: io non ho più vent’anni. E certe cose fatico ormai ad affrontarle». Anche l’ultima botta: il Comune che ha chiuso la strada fino al parcheggio La Riposa per lavori, compromettendo di fatto la chiusura di stagione, lo ha piegato. Eppure Fulgido tiene duro.
E non si spezza. «Il prossimo anno? Vedremo» lasciando intendere che comunque non saprà mai dire no a tutto questo. «Questa montagna non ha più alcun segreto per me» dice con affetto. E il ricordo va alle 1.220 ascensioni, percorse da tutte le vie possibili, dalle più semplici alle più ardite, da vicino e da lontano, senza carichi e con pesi di ogni genere, per piacere e per dovere. «Un ricordo speciale? Forse la recente salita dal canalino verso Novalesa, durante la quale abbiamo ritrovato la croce in legno che nell’800 era posta sulla cappella di vetta. O forse i due giorni e mezzo di cammino da Caselette alla cima, la volta in cui sono partito da più lontano. O ancora il recente incontro con una ragazza svizzera, che ha deciso di salire in punta con me e con la quale ho chiacchierato di tante cose della vita. Un bel momento, un incontro che mi piacerebbe rinnovare».
Insomma, milleduecentoerotte volte, 41 solo nel 2021, tante solitarie, tante scialpinistiche, 8 Natali e 5 Capodanni in cima. Fulgido ricorda ogni momento. Ogni fatica. Ogni attimo di freddo. Ogni chilo trasportato. Ogni pericolo. «E ogni volta in cui mi sono reso conto – dice – che qui bisogna sempre sapere quel che si fa, soprattutto se alla cima si arriva con gli sci ai piedi». Lui, quel che fa ormai lo sa alla perfezione. Banale da dire. Ma ogni giorno resta una scoperta, pure in una storia tanto fedele a se stessa. «Per venire a Fulgido Tabone, meriterebbe non solo qualche frase, ma un intero volume – scrisse un giorno, anni fa, il generale Giorgio Blais sullo Scarpone Valsusino – Ha dell’incredibile quello che lui e la sua impareggiabile moglie Angiolina fanno. Non so da quanti anni Fulgido sia il gestore di Ca’ d’Asti, non meno di una trentina, forse trentacinque. Già in prima linea durante i lavori per la ricostruzione del rifugio e la sistemazione del Santuario in vetta, ne assunse la responsabilità gestionale da quando il rifugio iniziò a funzionare e da allora è sempre là in prima linea, alternando la sua presenza fra l’abitazione e normale attività a Caprie e la nostra montagna.
Fulgido non è solo il custode del rifugio e del Santuario in vetta. Tabone è l’amorevole custode del Rocciamelone, colui che traccia e mantiene i sentieri, che fissa e controlla le corde che aiutano la salita nell’impervio ultimo tratto sotto la vetta, che va su e giù fra Ca’ d’Asti e la vetta. È lui che si è accorto che l’ultimo nubifragio di giugno e la tempesta avevano danneggiato la Croce di Ferro, facendola precipitare fra i dirupi. L’ha cercata, l’ha trovata, l’ha nuovamente installata, l’ha riportata nelle condizioni precedenti, e tutto in silenzio, senza clamori, senza attendersi un grazie, ma solo per la straordinaria coscienza di gran galantuomo e per l’amore che porta verso il nostro monte, di cui conosce pietra su pietra». Di Fulgido Tabone, in fondo, cosa serve dire di più?
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 138 DI OTTOBRE 2021
Skialper Archive / Ponte di Legno Tonale Outdoor Destination
Su Skialper di agosto-settembre un ampio reportagne sulla localita'
«C’era una volta il Passo del Tonale, che era una stazione di sci e una terra di mezzo, un colle alpino messo di sghembo al centro del versante meridionale delle Alpi. A est le Dolomiti e la loro ineguagliabile bellezza calcarea e ad ovest lontanissimi, al bordo occidentale della conca padana, il granito e il basalto del Monte Bianco e del Monte Rosa. Il gruppo dell’Adamello se ne stava lì in mezzo a fare da velopendulo dell’arco alpino, al centro di tutto, ma in realtà un po’ a margine di tutto. Barriera non soltanto geografica ma anche storica e culturale tra Alpi Orientali e Occidentali, il Passo del Tonale è protetto ulteriormente a nord anche da Ortles e Cevedale, in un certo senso rappresenta un mondo a parte. Da sempre linea di confine - ai tempi della Grande Guerra tra nord e sud dell’Europa e in tempi più recenti tra Lombardia e Trentino - il Passo stava lì più che altro a segnalare la linea di divisione tra due universi, due organizzazioni amministrative e due mentalità, due modi diversi e molto distanti tra loro di pensare al turismo». Era così, come ha ben scritto Emilio Previtali, fino a qualche anno fa, prima che si credesse in una proposta di turismo outdoor a 360 grandi, in inverno e in estate e il Passo proprio come trait d’union della realtà lombarda di Ponte di Legno e di quella trentina di Vermiglio. Le montagne tra Ponte di Legno e Vermiglio da un certo momento in avanti, a partire dagli anni 2000, anziché barriere hanno cominciato a essere una risorsa preziosa, una linea di continuità. Luoghi in cui muoversi ed esplorare in tutte le stagioni, senza avere niente da invidiare a destinazioni classiche e più celebrate delle Dolomiti, della Valtellina, del Piemonte e della Valle d’Aosta. E noi siamo andati a scoprirli come outdoor destination sul numero di agosto-settembre di Skialper.
BIKE DAYS - L’occasione è stata quella dei Bike Days, organizzati la prima settimana di luglio dal consorzio Pontedilegno-Tonale che tra le attività dell’outdoor ha deciso di puntare con decisione in questi anni (e in futuro, sempre di più) sulla bicicletta: strada, mountain-bike, gravity e cicloturismo. Ecco dunque che il nostro Emilio Previtali, accompagnato dalla fotografa Alice Russolo, è salito sulle rampe del Passo Gavia in compagnia di Alessandro Ballan (sì, proprio lui, l’ex campione del mondo di ciclismo), ma anche sui sentieri dell’immensa arena mountain bike in compagnia dell’olimpionica Paola Pezzo per poi buttarsi sulle discese servite dalle seggiovie con lo specialista Lorenzo Suding. Le salite e le strade dei passi alpini sono un vero tesoro del territorio di Ponte di Legno-Tonale. Passo del Mortirolo, Passo Gavia, Passo del Tonale, il tutto moltiplicato come minimo per due perché, non bisogna mai dimenticarlo, i passi alpini hanno sempre due o più versanti, due o più strade asfaltate da percorrere e di cui godere. Ciclisti avvisati… Emozioni su due ruote che si possono vivere anche con le E-bike.
ALPINISMO & TRAIL RUNNING - Non di solo ciclo vive l’uomo ed ecco che siamo stati anche a scoprire il settore trentino del rifugio Denza, porta di accesso alla Presanella e alla Cima di Vermiglio, due classiche dell’alpinismo da queste parti. Ma vi proponiamo anche qualche salita in stile vertical e due tratti del mitico Adamello Ultra Trail per tenervi in forma con le scarpe da corsa. Le nostre guide? Valentina Belotti e Davide Magnini. Più di così…