AMA-Bilmente, assalto al Monte Rosa

«Lo scopo del progetto è di trasmettere un importante messaggio sociale sia alle persone diversamente abili che alle persone normodotate. Come ben noto, l’invalidità non è solo un concetto fisico, ma un’ideologia ben radicata nel pensiero comune, che vede il disabile come una persona emarginata e dalle poche possibilità fisiche. Lo scopo è di abbattere l’immensa montagna psicologica della disabilità affrontando la vera montagna». A parlare è Moreno Pesce, anima del progetto AMA-Bilmente vedrà 6 sportivi con un arto artificiale salire lungo il percorso della Monte Rosa SkyMarathon AMA, la gara più alta d’Europa, fino alla Capanna Margherita a 4.554 m sul Monte Rosa.

Il gruppo partirà il 15 giugno raggiungendo la Capanna Gnifetti. Il giorno dopo si partirà al mattino per l’ascesa verso la Capanna Margherita. Il cronometro non sarà importante tanto quanto invece il risultato del gruppo.

Moreno Pesce, 46enne, appassionato di montagna, amputato in seguito a un incidente motociclistico ha ideato il progetto con la collaborazione degli organizzatori della gara e un gruppo di Guide alpine ed è stato recentemente anche in vetta al Gran Sasso. Nel 2019, in un analogo tentativo di salita alla Capanna Margherita, aveva dovuto fermarmi al Cristo delle Vette con 40 centimetri di neve fresca. Il suo sogno è quello di realizzare una scuola di alpinismo per i disabili. Perché bisogna provare prima di dire non ce la faccio. 

Del gruppo di AMA-Bilmente fanno parte sei team composti da uno sportivo amputato, un accompagnatore (una sicurezza in più in caso di rottura delle protesi) e una Guida alpina.

Gruppo TRANSTIBIALI

Cesare Rocco + Chiarolini Cristina - GUIDA Simone Elmi

Lino Cianciotto + Luigia Marini - GUIDA Leandro Giannangeli

Massimo Coda + Massimo Vialardi - GUIDA Luca Montanari

Salvatore Cutaia + Angelo Santucci - GUIDA Abele Blanc

Gruppo TRANSFEMORALI

Loris Miloni + Paola Frigiolini - GUIDA Paolo Della Valentina

Moreno Pesce + Martina Scussel - GUIDA Lio De Nes


La Réunion di altitudini in Val Terragnolo

L’Isola de La Réunion è un piccolo paradiso dell’arcipelago delle isole Mascarene, di cui fa parte la più famosa Mauritius. Posta nell’Oceano Indiano a 700 km dal Madagascar il 40% del territorio è tutelato a Parco naturale, caratterizzato da valli, boschi, gole e falesie che formano un paradiso naturale in gran parte incontaminato.

Il Masetto è un puntino nel bosco, fuori dai sentieri battuti, a metà strada tra Rovereto e Folgaria, tra i monti della Valle trentina di Terragnolo. Il Masetto, gestito da Gianni Mittempergher, come un’isola tra i boschi è un luogo pieno di cultura, un rifugio creativo e ospitale.

Isola, riunione e arcipelago sono sembrate tre parole perfette attorno alle quali organizzare il primo incontro di altitudini aperto a chi ama le storie e i luoghi fuori traccia, occasione per conoscere i vincitori del Blogger Contest 2020, di cui Skialper e la nostra casa editrice sono media partner.

Ecco il programma:

I vincitori e i premiati del Blogger Contest 2020 si racconteranno attraverso un oggetto, un disegno, una mappa, un pezzo di motore, una foto: Francesca Nemi (premio PalaRonda Trek), Marco Ranocchiari (premio Giro del Confinale), Federico Balzan (premio La montagna dal vivo), Erica Segale (3° posto web comics); Stefano Lovison (2° posto web comics); Marco Rossignoli (1° posto web comics), Antonio G. Bortoluzzi (3° posto racconti brevi); Silvia Benetollo (2° posto racconti brevi); Luciano Caminati (1° posto racconti brevi, premiato da Skialper).

E come negli incontri importanti ci saranno alcuni ospiti speciali: Andrea Nicolussi Golo (scrittore e poeta) parlerà di grandi montagne e piccoli popoli; Laura Bortot (scrittrice e traduttrice) di tradurre in mezzo alle montagne; Eva Toschipresenterà il suo libro Per la mia strada edito da Harper Collins Italia e Simonetta Radice direttrice di MonteRosa edizioni parlerà di Sciare in modo fragile.

Durante la camminata di sabato mattina, attraverso gli insediamenti storici di Terragnolo, ci si fermerà ogni tanto a parlare con Alice Martinelli della Mudeda e della vita in rifugio, con Daniele Ceddia del suo progetto Sulla Faglia e con Andrea Carta della sua Cima Undici e di quella dei famosi Mascabroni.

Ad accompagnare gli ospiti ci saranno Luisa Mandrino (presidente della giuria del BC 2020, autrice e sceneggiatrice) e Davide Torri (editor di altitudini).

Per partecipare è necessaria la prenotazione: redazione@altitudini.it


La rinuncia di Kilian e David

«No, no, no. No, non abbiamo scalato l’Everest. Finalmente, dopo aver atteso tanto che passassero i cicloni tropicali e che la neve smettesse di cadere, abbiamo lanciato un tentativo, ma mentre stavamo raggiungendo il Colle Sud abbiamo deciso di fermarci entrambi». A scrivere è David Göttler sui suoi account social nella giornata di ieri. Dunque, dopo settimane complicate a causa del meteo e della pandemia, il duo Kilian Jornet - David Göttler non ha raggiunto la vetta dell’Everest nella finestra di tempo lasciata dal passaggio del ciclone Yaas. Una rinuncia nata non solo per cause esterne come il meteo, ma soprattutto ‘interne’. Kilian è partito dal campo base e David dal campo 2 e, dopo avere scalato tutta la notte, si sono ritrovati al Colle Sud. «Tutti e due non ci sentivamo bene e non avevamo le forze necessarie . «È stato un momento bizzarro quando ci siamo ritrovati al Colle Sud e ci siamo detti che non stavamo bene, entrambi abbiamo vissuto esattamente la stessa esperienza. Quindi è stato facile decidere di non proseguire. Sarebbe stato folle continuare a salire più in alto in quelle condizioni. Non puoi scalare l’Everest nel nostro stile se non ti senti al 100% e per fortuna entrambi sappiamo benissimo come dovremmo sentirci a quelle quote. Per questo siamo scesi. Anche se potevamo dare la colpa al vento per averci impedito di proseguire (al Colle Sud ce n’era abbastanza), non è stato per il vento o il maltempo o le cattive condizioni sulla montagna. La causa i nostri corpi e come ci sentivamo, ed è altrettanto importante ascoltare il proprio corpo e saperlo rispettare». Kilian e David sono saliti dalla via normale. Durante il loro allenamento in quota erano arrivati fino a sfiorare quota 8.000 sulla via per il Lhotse. Tra le ipotesi iniziali del duo sembrava esserci proprio la traversata Everest - Lhotse. 


Transap

C’è chi si porta in spalla il fornelletto e prepara l’asado, chi gira in bretelle. C’è chi cammina tutta la notte senza fermarsi mai e chi non vede l’ora che finisca. La Transappenninica è una prova di avventura e di montagna attraverso l’Appennino, lungo le antiche vie che l’uomo ha usato per centinaia di anni per trasportare il sale necessario alla conservazione dei cibi verso la Pianura Padana e sui sentieri dei Partigiani tracciati durante la Seconda Guerra Mondiale, dalle colline della bassa padana fino al Mar Ligure. Tutti percorsi che toccano i crinali e non le valli come le strade moderne, per sfuggire a briganti, interminabili guadi dei fiumi o soldati tedeschi. Non è una gara di trail running. Non è a pagamento. Ciò che conta non è vincere. La Transap è una corsa al mare, un’intensa esperienza di strada. Si fonda su valori di resistenza alla fatica, ironia, fair-play, sostenibilità e un pizzico di follia. La sfida si svolge durante l’ultimo weekend d’estate (che quasi sempre coincide con il terzo fine settimana di settembre) e prevede di coprire ampie distanze in poco tempo, con notevoli metri di dislivello (da 3.000 a 7.000 tra salite e discese) e chilometri di sviluppo (dai 55 ai 110), variabili a seconda dell’itinerario scelto.

Per essere classificati è fissato un tempo limite, all’incirca 32 ore. Chi, pur sforando l’orario massimo, giungesse ugualmente all’arrivo, può in ogni caso considerarsi un vincitore. Solo che le birre saranno già finite. La partecipazione è gratuita e a proprie spese: ogni squadra, composta obbligatoriamente da due persone, deve procurarsi da sé tutto l’equipaggiamento necessario. L’organizzazione stabilisce solo i punti di partenza e di arrivo, variabili di anno in anno. Alcuni luoghi del campo di gara sono segnalati come checkpoint e stabiliscono il punteggio che determina il risultato finale della squadra» si legge sul sito. È necessario fornire le prove dell’avvenuto passaggio ai checkpoint, attraverso selfie, disegni, video… L’elemento sorpresa è fondamentale: partenza, arrivo e checkpoint vengono comunicati solo poche ore prima del via. 

La scelta del percorso, assolutamente libero, dipende dal gusto personale e dalla capacità di lettura dei sentieri. Per partecipare è necessario munirsi di mappe dettagliate della zona, che sono fornite via mail agli iscritti. La prova non consente l’utilizzo di GPS, navigatori e applicazioni di navigazione di altro tipo. Il primo premio della Transappenninica è riservato alla squadra che totalizza il maggior numero di punti, in considerazione dei checkpoint raggiunti. A parità di punti, vince la squadra che impiega meno tempo. Ogni anno cambiano il percorso, i checkpoint e le regole (non tutte) e varia leggermente il numero delle coppie in gara (tra le 40 e le 45). Sono ben accetti contributi spontanei, anche di beni in natura, per coprire i costi della festa inaugurale e della logistica. Ci si iscrive a coppie. I posti sono limitati e si è ammessi per ordine di iscrizione. Per partecipare basta spedire il modulo che si trova sul sito (https://transap.tumblr.com/iscriviti) all’indirizzo transappenninica@gmail. com. Gli ammessi vengono contattati telefonicamente o via mail.

© Nicola Damonte

Marinai d’Appennino.
Transap 2018

Sono quasi le otto di sera e osservo Giulio tuffarsi in mare a Sori. Lo guardo e sono contento. Il senso di tutta questa corsa era racchiuso nel farla insieme, cavandosela, sostenendosi e continuando ad andare avanti fino a mettere i piedi sulla spiaggia e poi in acqua. È stato come essere un piccolo equipaggio in una minuscola barchetta tra le onde verdi dell’Appennino. Eppure abbiamo rischiato di saltare e di andare alla deriva quasi subito per colpa mia, per le gambe vuote e per lo stomaco sottosopra. Ma abbiamo tenuto, un po’ per la testa dura e un po’ per un pizzico di fantasia, o sana follia, chissà… I detrattori direbbero che non si fa, ma va bene lo stesso per noi. Non abbiamo mollato nello sconforto della nebbia che il mitologico Alfeo ci buttava addosso, carica di pioggia, di vento e di pessimismo. 

Ci siamo rincuorati e rimessi in sesto con i sorrisi e le parole di Giovanni e Giulia al rifugio Antola (anche con le birrette e i panini, ok...). E la strada passava, intrecciando le nostre storie con le memorie del passato, dei villaggi, dei boschi profondi e delle antiche speranze di chi si metteva in viaggio verso il mare. Poi incontrare un amico fa la differenza. Già, Davide, che ti aspetta vicino a Torriglia, dopo essere partito di corsa proprio dal mare per poi ritornare a ritroso insieme, con te. E così corri ancora, cammini, fatichi, corri di nuovo, corri in tutte le sue declinazioni possibili fino al limite del semplice un piede dietro l’altro e poi arrivi a Sant’Uberto al tramonto, con il sole che sfonda e spacca in un grido cremisi tutto quello che c’è in giro. Scalinate ripide, odori di fiori, le voci che arrivano dalla spiaggia; è la Liguria di chi sbuca dal retro bottega come noi ora, nell’incandescenza di una sera interminabile e preziosa come le cose rare. Siamo arrivati adesso, io e Giulio e Davide dietro che ci scorta, con cura. Magari non belli da vedere, ma efficaci, come quando sai dove stai andando e ci vai. Alla fine per terra c’era scritto ecco il mare. I marinai d’Appennino hanno bisogno di saperlo, sempre.

Niki Gresteri

Una canzone semplice.
Transap 2019

Le cose più belle della Transap sono quelle che non si vedono con gli occhi, sono quelle che non puoi toccare e quantificare materialmente. Credo sia un aspetto positivo non avere oggetti o riconoscimenti che definiscano il valore delle motivazioni e delle azioni. Non ci servono cose per essere e per fare. Nel caso della Transap, tutto ciò che ha un significato, almeno per me, rimane immateriale. A dare un senso alla Transap non sono certo i chilometri (non pochi), né tantomeno il dislivello (non male), anche se ci devi fare i conti, e magari dopo un po’ li maledici, come se fossero diventati delle vespe sotto la maglietta o delle tarme nelle scarpe bucate. Sudi e soffri, a volte sbocchi in mezzo al bosco, sbuffi come un vecchio motore a gasolio sfatto, ma vai avanti perché nella Transap c’è un perenne senso di attesa nei confronti di qualcosa che sta per accadere. Mi piace pensare alla Transap come a un viaggio ideale, che in realtà non si compie, ma ridefinisce ogni volta una meravigliosa aspettativa. Perché è sempre difficile cogliere il senso di un’attesa, visto che la sua magia è proprio il non compiersi, ma aspettare che nasca. Ci vuole impegno e il giusto atteggiamento per capire la semplicità.

C’è l’attesa che precede la partenza e poi quella di vedere il mare. L’attesa di un versante che cambia e della notte che ti avvolge. L’attesa che una crisi passi e che la strada termini il prima possibile, anche se poi alla fine ti dispiacerebbe. Ci sono incertezze e dubbi che si trasformano in scoperte. Ma so che, nonostante tutto - la fatica, i dolori e il dolce desiderio di abbandonarsi al sonno - so che vale sempre la pena arrivare in fondo. Perché la cosa più bella resta il momento in cui vedi brillare gli occhi del tuo compagno o dei tuoi compagni e hai vissuto per tutto il giorno l’attesa di vederli felici, ancor prima di esserlo per davvero anche tu. Così, al mattino presto, lentamente, ciascuno con la propria idea in testa di cammino e di sentiero, ci siamo diretti verso un’intuizione di orizzonte e di memorie marine, a Sud. Ognuno a suo modo è ispirato da qualcosa. E da qui, da Borgo Val di Taro, il mare è per davvero ispirazione, promessa e idea, ma in alcuni momenti del nostro viaggio ci è sembrato quasi un miraggio, una chimera e una condanna, soprattutto quando la testa ti porta in un loop di malessere e di pensieri negativi. È come essere impigliato nei rovi e nelle ortiche senza venirne fuori (e magari a qualcuno è successo, più zecche optional). Ma il momento nero passa sempre, basta saper aspettare. E si tratta di capire che fa parte del gioco mettersi a nudo, saltare per aria e ripartire. È questo il bello.

Alla fine siamo sempre rimasti in cinque, siamo partiti e arrivati tutti insieme: io, Giulio, Edoardo, Eva e Ombra. Una lunghissima giornata di condivisione, di sguardi, di parole e di silenzi, che quasi sempre raccontano perfettamente lo stupore. Sempre insieme, camminando nel respiro dei faggi più alti e poi correndo sugli assolati crinali battuti dal sole pomeridiano. Insieme a cercare acqua, non trovarne, aspettare, chiedere a un contadino, trovare una locanda aperta al passo e rinfrescarsi finalmente! Sempre insieme, con le gambe adesso più stanche, prima di arrivare in cima a Prato Pinello nell’ora d’oro e fermarsi a osservare l’arco ideale di montagne disegnate con i piedi fino a quel momento. Pensi alla generosità e alla dedizione dei tuoi amici, di chi ha razionato l’acqua e ne ha portata in più per gli altri e per Ombra, il fedele amico a quattro zampe. Pensi che sia il posto giusto e il momento giusto.

E diventa più facile correre di nuovo, almeno per un po’, incontro alla luna che cresce dietro montagne placide ma adesso oscure, relitti abbandonati in una terra di alberi a volte storti, a volte dritti e luminosi come se esplodessero di luce. Torni indietro con la mente fino al mattino quando, lungo un tratto di Via Francigena, una vecchietta ci ha chiamato da un pugno di case in pietra ed è uscita fuori. C’era il sole fragrante e l’odore dell’Appennino profondo, quello che scivolando nell’autunno ti lascia con un nodo alla gola. Abbiamo firmato il diario dei pellegrini e annusato i porcini essiccati al sole, poi siamo ripartiti. Era di nuovo il posto giusto e il momento giusto, era l’attesa che precedeva altre cose belle. La Transap porta ancora avanti la propria idea originale, pulita ed essenziale, spesso selvatica e anarchica, e chi si mette in cammino non cerca premi e classifiche. Chi si mette in viaggio non cerca di essere migliore, ma cerca di essere se stesso e di condividere un pezzo di strada (e di attesa) con qualcuno. È come una canzone semplice che ascolti di notte davanti al mare, con gli amici che si abbracciano e sorridono per tutte quelle cose che ci sono state e che non si possono vedere. È come una canzone semplice che avevi in testa e che hai saputo aspettare.

Niki Gresteri

© Nicola Damonte

Chi arriva per primo aspetta.
Transap 2019

Fine estate 2019. È molto buio. Sono le tre di notte e da diverse ore mia sorella e io camminiamo completamente sole nel bosco. State attente ai lupi ci hanno detto gli organizzatori alla partenza, anche se, in realtà, l’animale non è pericoloso per le persone, anzi tende a evitarle. Da queste parti può anche capitare che, tra la lapide all’eroe russo Fëdor e un paesino abbandonato, si incontrino gli occhi gialli di un lupo che sta seguendo il tuo stesso sentiero. Appena gli alberi lasciano spazio ai pascoli erbosi ci accoglie la luna piena. Camminiamo da diciassette ore e ci si chiudono gli occhi. Il suono del silenzio regna incontrastato e ci sembra, laggiù oltre le montagne, di intravedere il mare. Forse è solo un’allucinazione. Tiriamo fuori i sacchi a pelo e puntiamo la sveglia dopo mezz’ora.

Ci rannicchiamo testa contro testa: sembra che qualche folletto abbia modellato il sentiero sulla sagoma dei nostri corpi. È comodissimo! esclama mia sorella. Due secondi dopo sta già dormendo. Quando ci svegliamo inizia a piovere. Cerchiamo la traccia per la salita, ma di notte, sotto la pioggia, non la troviamo. Guadiamo più volte un fiume. La batteria della mia frontale è scarica, ne abbiamo una in due. Le cartine sono bagnate, scarabocchiate e spiegazzate. Ci perdiamo. Siamo partite alle 6,30 di ieri mattina da una cascina incantata, sulle colline dell’Emilia Romagna, che ci ha accolti e ospitati in tanti, curiosi, sorridenti e scalpitanti. Venerdì sera abbiamo picchettato le tende al buio, una vicina all’altra: la notte prima della partenza, quando si dorme tutti insieme sotto le stelle, e il ritrovo in spiaggia la domenica, sono dei momenti davvero magici. Intanto abbiamo trovato la strada. Siamo sole sul crinale.

Le prime salite, in verticale, sono state toste. Barcollo. Penso che sono tutti matti. Francesca mi dice che è importante chiacchierare per distrarsi: uso il poco fiato che ho per mandarla al diavolo. I gruppi che si erano formati alla partenza piano piano si dividono. Passo dopo passo il mio respiro si regolarizza: sto imparando la strada e mi piace un sacco. Attraversiamo parchi naturali, vette, fiumi e torrenti favolosi. Schiviamo un serpente e percepiamo i cinghiali che ci scrutano nella penombra del sottobosco. Sono le 8,30 di domenica mattina, siamo in vetta a un meraviglioso monte checkpoint e abbiamo fame. Rapida sosta rifocillante: focaccia ripiena di pomodorini secchi, scamorza affumicata e uova sode. Destra o sinistra? Rincomincia a piovere. Arriviamo al cimitero checkpoint, selfie al volo, e ci rimettiamo in marcia accompagnate dalle ultime gocce. I piedi fanno male e sono fradici. Ormai è una corsa al mare, tra salite e discese. Siamo partite insieme, camminiamo insieme, dobbiamo arrivare insieme. Viaggiare è la nostra passione, ma non avevamo mai viaggiato a piedi. Siamo molto puzzolenti, però quando arriviamo in spiaggia i nostri compagni d’avventura ci abbracciano lo stesso e ci mettono in mano delle birre ghiacciate. Francesca e io abbiamo camminato per circa ventisette ore. Arriviamo a un quarto d’ora dal termine, con diverse zecche su varie parti del corpo. Bottiglia di vino per tutti e rapida premiazione. Abbiamo fatto tante nuove amicizie e ci salutiamo con la voglia di ripartire. Il detto dice che l’avventura comincia sulla porta di casa: queste colline, valli e montagne, per me e per noi della Transap, sono diventate casa. Spero che lo diventino anche per voi. Buona strada!

Marta Manzoni

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 131 

© Nicola Damonte

Il 28 agosto la prima edizione di SkyClimb Mezzalama

«È un progetto che era nel cassetto e che la particolare situazione che stiamo vivendo ha tolto dall’ombra» ha esordito il patron del Trofeo Mezzalama Adriano Favre presentando ieri sera in una diretta Instagram SkyClimb Mezzalama by Dynafit, la gara che sabato 28 agosto prenderà il via dalla frazione di Saint Jacques (Ayas) e porterà gli skyrunner fino ai 4.226 metri di quota della vetta del Castore. La partenza e l’arrivo saranno nella frazione di Saint Jacques, in Val d’Ayas. Il tracciato, impegnativo, severo e molto tecnico, misura 25 chilometri con un dislivello complessivo di oltre 5000 metri.

«La caratteristica principale della SkyClimb Mezzalama - ha raccontato Favre - sarà quella che le squadre si dovranno confrontare con un terreno alpinistico e in alta quota. Si dovrà affrontare quella parere Ovest del Castore che tutti conoscono per le immagini del Trofeo Mezzalama dove le pattuglie salivano ramponi ai piedi e sci nello zaino. Questa volta i team, che saranno composti da due elementi, utilizzeranno gli stessi strumenti, corda, imbraghi e ramponi, ma non avranno gli sci nello zaino».

«Il percorso, - ha detto Favre - dopo la partenza a Saint Jacques per raggiungere la vetta del Castore passerà per il Pian di Verra, il Lago Blu, il Rifugio Mezzalama, il Rifugio Guide di Ayas per immettersi nel percorso classico del Trofeo Mezzalama con il passo di Verra e infine la parete Ovest del Castore. Dopo aver toccato la quota di 4228 metri le squadre scenderanno lungo la cresta Est verso il ghiacciaio del Felik passando per il rifugio Quintino Sella. Da qui la lunga discesa porterà gli atleti al traguardo di Saint Jacques toccando, il passo della Bettolina, il Colle della Bettaforca, e i rifugi Ferraro e Guide Frachey».

Per questa prima edizione il numero massimo di squadre ammesse sarà di 80, come succede per il Trofeo Mezzalama i curricula degli atleti saranno esaminati da Adriano Favre tenendo conto anche dei punti ITRA (600 per gli uomini e 450 per le donne) e dei piazzamenti nelle prestigiose competizioni de La Grande Course.

Durante la presentazione è intervenuta Rossella Monsorno, marketing specialist Dynafit per l’Italia, confermando che il rapporto di collaborazione tecnica con la Fondazione Mezzalama, per il trofeo invernale e la gara estiva, andrà avanti almeno fino al 2025. La data scelta prevede la possibilità di recupero il giorno successivo, domenica, in caso di maltempo. L’organizzazione non ha comunicato la cadenza dell’evento che sarà probabilmente biennale, come il Trofeo invernale, e alternato con il Trofeo Kima che solitamente si svolge nello stesso fine settimana, mentre quest’anno si sovrappone all'UTMB, che si rivolge in larga parte a un target di atleti diverso, Kilian escluso, che è uomo da UTMB e SkyClimb. Ma di Kilian ce ne sono pochi…  www.trofeomezzalama.org

IL PERCORSO (25 km circa - 2.533 mt D+)

Partenza da Saint Jacques, una prima salita in un bosco di larici porta al piccolo abitato di Fiery (1.878 m). Da qui la salita è meno ripida e di traverso verso destra si raggiunge il Pian di Verra (2.050 m). Attraversata la piana, la mulattiera conduce al Lago Blu (2.215 m). Si segue poi il ripido filo della morena glaciale che porta al Rifugio Mezzalama (3.036 m). Oltre, il terreno si fa tipicamente pre-glaciale e roccioso ed una facile lingua di ghiaccio pianeggiante conduce ai piedi delle ripide rocce di Lambronecca, alla cui sommità sorge il Rifugio delle Guide di Ayas (3.400 m).

Al Rifugio Guide di Ayas, primo rifornimento (organizzato nel rispetto delle norme anti COVID19) e cambio di assetto. Si indossa l’imbrago, si calzano i ramponi e ci si lega in cordata, pronti per affrontare il ghiacciaio con le sue insidie. Le pendenze sono moderate fino al raggiungimento del Passo di Verra (3.848 m). Teatro della parte più tecnica ed impegnativa della gara sarà l’ascesa al Castore (4.226 m) per la parete Ovest, sulle tracce del Mezzalama classico.

La discesa seguirà la cresta Est ed il ghiacciaio del Felik fino al Rifugio Quintino Sella (3.585 m). Zona rifornimento e cambio di assetto. Si tolgono corda e ramponi. Un’aerea cresta rocciosa ben attrezzata porta alle pietraie che rapidamente conducono al Passo della Bettolina (3.000 m circa).

Da qui si abbandona il comodo e frequentato sentiero che conduce al Colle della Bettaforca e per ripide tracce si guadagna il Pian di Verra inferiore, mille metri più in basso. Un bosco di larici offre riparo al comodo sentiero che conduce ai Rifugi Ferraro e Guide Frachey (2.060 m) a Résy, poi un’ultima ripida picchiata porta all’arrivo a Saint Jacques.


Suunto 9 Peak è il più sottile smartwatch della storia della casa finlandese

Arriva Suunto 9 Peak: lo sportwatch più sottile, potente e resistente nella storia del marchio finlandese, ispirato a Suunto 9 Baro. Tra le feature, fino a 170 ore di capacità di registrazione GPS in modalità Tour, misurazione della saturazione dell'ossigeno e carica totale della batteria in un’ora. «Abbiamo scoperto che molti desideravano tutte le caratteristiche di Suunto 9 Baro, ma in un orologio più piccolo e semplice, senza rinunciare alla durata della batteria ed all’approccio tecnologico avanzato» ha detto Heikki Norta, presidente di Suunto. Suunto 9, più sottile del 37% e più leggero del 36% rispetto a Suunto 9 Baro, ha oltre 80 modalità sport come corsa, escursionismo, mountain bike, sci e nuoto, le schermate personalizzabili che mostrano i dati più pertinenti per il tipo di allenamento, un sistema di gestione della batteria intelligente, il monitoraggio accurato della frequenza cardiaca al polso, informazioni meteo dettagliate e funzionalità complete di navigazione nell'orologio. 

L'app Suunto si integra perfettamente con Suunto 9 Peak, consentendo agli utenti di programmare gli itinerari in maniera efficace con mappe di calore specifiche per lo sport e punti di partenza popolari, che possono essere creati e trasferiti nell'orologio per la navigazione offline. L'app per dispositivi mobili consente agli utenti di scoprire nuove località, creare punti di interesse e rivedere le attività precedenti con mappe di calore personali. Inoltre, la velocità di sincronizzazione tra Suunto 9 Peak e l'app Suunto è ora raddoppiata grazie a Bluetooth 5, la più recente evoluzione nella tecnologia Bluetooth. Suunto 9 Peak sarà disponibile in due diversi stili e quattro colori ispirati alla natura: Granite Blue Titanium e Birch White Titanium, realizzati con cristallo in zaffiro e cassa totalmente in titanio di grado 5, prezzo 699 euro; All Black e Moss Gray, realizzati con cristallo in zaffiro e cassa in acciaio inossidabile, prezzo 569 euro.


Ararat amaro per Nico Valsesia

Nico Valsesia ci ha abituati a imprese titaniche a suon di pedalate e passi di corsa per raggiungere le cime più alte della terra partendo dal mare. Imprese che il cinquantenne di Borgomanero con un secondo e terzo posto nella Race Across America di ciclismo ha sempre affrontato con disinvoltura. Solo il Monte Ararat l’ha respinto. Il D-Day era previsto sabato scorso, 22 maggio. Partenza da Hopa, una piccola cittadina affacciata sul Mar Nero, e dopo 500 chilometri e 8.000 metri di dislivello da pedalare in completa solitudine, arrivo ai 2.200 metri della base dell’Ararat, con ancora altri 3.000 metri di dislivello da scalare a piedi per raggiungere la vetta. Una montagna, l’Ararat, tecnicamente facile da salire in estate ma ancora ricca di neve e ghiaccio in questo periodo. Con in più le difficoltà della pandemia, con la Turchia sottoposta a pesanti restrizioni. Per non farsi mancare nulla Nico ha pensato bene di raggiungere la destinazione in auto, aggiungendo altri 4.000 chilometri non proprio agevoli. 

Cronaca di un tentativo

La partenza sabato alle 12.33. La strada, quasi sempre ben asfaltata, scorre prima in una valle e poi inizia una lunga e massacrante salita di oltre 100 chilometri, quindi prosegue su e giù per altipiani prima molto verdi e poi dalle tonalitа più aride. Il vero problema sono i cani randagi che attaccano più volte Valsesia, costringendolo anche a scendere dalla bicicletta e usare la stessa per difendersi. Poi sarа l’auto al seguito a mettersi in mezzo e a fare da deterrente per i tanti cani incarogniti contro il ciclista. La notte, fredda e molto ventosa di suo, con gli agguati improvvisi di questi branchi di pericolosi randagi, diventa un tormento. Alle prime luci dell’alba e con il cambio di zona il cielo diventa grigio e le temperature iniziano a salire. Una foratura e alcuni posti di blocco militari, in un’area contesa con la vicinissima Armenia, rallentano leggermente il ruolo di marcia, mentre bar, market e qualsiasi tipologia di negozio sono chiusi, mettendo a dura prova il pianificato reintegro alimentare. Arrivati a Dogubayazit, la piccola cittadina sulla piana ai piedi dell’Ararat, giа base logistica per la prima ascensione conoscitiva e d’acclimatamento con salita in vetta, dei giorni precedenti, si decide per un reintegro energetico importante. Dopo un riposo di un’ora e mezza, Valsesia cambia anche la bicicletta, una gravel, per gli ultimi 20 chilometri che portano allo spiazzo da cui partono tutte le ascensioni al monte. Una salita flagellata dal vento e con il cielo che diventa sempre più nuvoloso e scuro. La frazione ciclistica termina dopo 25 ore e 31 minuti. Dopo un paio d’ora di marcia, Nico, accompagnato dal figlio Felipe e da un Guida locale, è costretto a un riparo di fortuna sotto una roccia per evitare una forte grandinata e i tanti fulmini che saettano in cielo. Un altro spostamento verso l’alto in un momento di apparente calma, mentre il nero della notte si è impossessato della montagna e un secondo stop forzato da un’altra grandinata spinta da un vento fortissimo. A quota 3.200 metri l’ospitalitа in una tenda di un gruppo di escursionisti. anche loro bloccati dalle avversitа meteorologiche, un riparo che servirà per tutta la notte. Questa mattina, con il vento leggermente in calo e nessuna precipitazione, un ultimo tentativo fino ai 3.800 metri dove li avrebbe dovuti attendere una tenda di servizio, purtroppo distrutta dalla forza della natura. Restano comunque la vetta dell’Ararat conquistata nei giorni precedenti e un tentativo di record portato nuovamente al limite da un atleta che a 50 anni ha ancora qualcosa da dire.


Translagorai Classic FKT Run

Ha senso creare un evento per stabilire un fastest known time che potrebbe venire facilmente superato da un atleta professionista lungo un percorso che tutto sommato è già conosciuto? Sì, ha senso, specialmente se nella propria vita e sfera sociale si attribuisce alla corsa un ruolo che va al di là dell’allacciarsi le scarpe e uscire a fare attività fisica, che è poi quello che pensa la maggior parte delle persone normali. Per iniziare a capire il perché nove semi-sconosciuti si siano trovati una sera a Passo Rolle per attraversare di corsa (o il più possibile di corsa, ecco) il Lagorai bisogna fare un passo indietro e partire dall’ideatore, Francesco Paco Gentilucci: uno che la corsa la prende parecchio sul serio e contemporaneamente ne rifiuta la mercificazione, una reazione comprensibile per qualunque cosa uno ami. Paco è quello che se ne va a correre cento miglia semi-sconosciute in California e non scatta neanche una foto, per intenderci: però è probabile che conosca per nome tutti i volontari incontrati lungo il percorso, o perlomeno quelli incontrati in uno stato di apparente lucidità mentale. Oltre che quella personale, la corsa per Paco ha anche una dimensione sociale: non importa solo quanti chilometri fai, conta anche con chi li fai e perché li fai.

Ecco che allora stabilire un fastest known time sulla Translagorai ha pienamente senso: primo, si dà una dignità propria a un percorso - e a un modo di percorrerlo, con un minimo di regole - che non c’era. Un po’ come stilare la relazione di una via alpinistica: non che prima non esistesse, ma da ora sarà più facile conoscerla e provare a percorrerla. E, contemporaneamente, si crea un archivio storico di tentativi con i quali confrontarsi o, semplicemente, per informarsi su tempi e logistica. Esattamente come i portali che raccolgono resoconti di ascensioni in montagna. Secondo, la scelta del luogo: la Translagorai non è un sentiero buttato lì in mezzo ad altri, messo in programma perché faceva comodo per la logistica o per le foto panoramiche. No, l’FKT in Lagorai serve anche per far parlare di un luogo controtendenza per gli standard trentini, dove impianti sciistici, strade e grosse infrastrutture turistiche non la fanno ancora da padrone. Potremmo parlare per ore dell’imponenza maestosa delle Dolomiti, ma sarebbe ipocrita descriverle come selvagge o incontaminate: il Lagorai, a fatica e forse ancora per poco, lo è. Il terzo motivo, forse intrinseco nella concezione stessa di corsa secondo Paco, era quello di voler prima di tutto creare qualcosa per condividere una passione con gli altri, non per forza persone già conosciute, e contemporaneamente cercare di trasmettere una visione di sport e di relazione con la natura che andasse al di là dei chilometri corsi tra Passo Rolle e Panarotta. Insomma, quello che si è fatto è stato lasciare una traccia: ora bisogna sperare che qualcuno la segua.

Federico Ravassard

© Federico Ravassard

Ossessione

Esistono le gare, o almeno, esistevano fino a qualche tempo fa e, a livello teorico, dovrebbero esistere ancora in futuro. Gare di cui spesso sento la mancanza, ma che - non l’ho mai nascosto - mi annoiavano già da tempo. Il problema è che l’atteggiamento bulimico dei corridori, sfruttato dalle leggi di mercato, ha portato alla nascita di tante, tantissime, troppe, gare mediocri, senza personalità né ragion d’essere, se non economica. Tolta la scusa di vedere un posto nuovo, il più delle volte la routine corro-faccio la doccia-torno a casa mi ha stancato. Insomma, l’annullamento del calendario agonistico mi è dispiaciuto fino a un certo punto e non mi ha destabilizzato più di tanto. Al netto di tutto soffrivo il fatto che in giro ci fossero tantissimi sbirri (in divisa e non) che potevano multarmi o fermarmi, sanzionando quello che ho sempre considerato come un diritto inalienabile per una persona nel 2020: correre da solo su un sentiero partendo da casa. Per il resto, tolta una 100 miglia nell’Oregon che sognavo da una vita, ho accolto la gran parte degli annullamenti del calendario con un’alzata di spalle. In Italia siamo ossessionati dalla competizione.

Per qualche ragione scegliamo le gare sulla base della classifica e degli atleti élite che le corrono e abbiamo bisogno di categorie, premi, medaglie, servizi e foto/video. In poche parole: abbiamo bisogno di acquistare sempre un prodotto e di sentirci appagati, fino all’acquisto del prodotto successivo. Perché questa premessa? Per il fatto che l’attitudine che vedo in giro verso i fastest known time sta prendendo la piega di cui sopra, che li priva del significato profondo che secondo me hanno.

Si chiamano FKT perché non sono gare

Un FKT non è l’esaltazione di un’impresa singolare. Per quello esistono gli avventurieri che tanto vengono utilizzati nei talk motivazionali delle aziende. Saltare da un aeroplano in paracadute e correre in un deserto non è un FKT e credo sia chiaro a tutti. L’idea di FKT è inoltre lontana da quella di atleti che come soldatini vanno a correre un segmento nel tempo più veloce che possono. Gli FKT esistevano molto prima che esistessero i segmenti di Strava, per capirci. Gli everesting sono un prodotto (molto interessante) nato da Strava in tempo di quarantena, ma tuttavia lontano dalla concezione classica dagli FKT nati nell’ultrarunning, ovvero l’obiettivo del dislivello a prescindere dal percorso, che invece negli FKT è una parte fondamentale.

Un FKT deve come prima cosa poter essere ripetibile, da tutti. Deve poter essere logico e, per quanto mi riguarda, non è volto all’obiettivo di ricevere pollici alzati dagli amici virtuali, visto che esistono già i record e i progetti personali. Trovo assurdo vedere striscioni e gonfiabili montati alla fine di un FKT perché, ancora una volta, sono record di un singolo atleta volti alla performance e non alla ripetibilità e condivisione. Gli FKT si basano infine sulla lealtà e onestà dei corridori. Potresti farne un pezzo in bici e nessuno lo saprebbe mai. Potresti fare registrare un record mondiale essendo un atleta dopato e in questi casi dovresti, secondo me, vergognartene.

Arrangiati

Translagorai Classic FKT Run nasce in modo piuttosto semplice. Ordino 50 adesivi pagandoli a mie spese e decido che sono il premio per chi arriverà in fondo alla traversata in meno di 24 ore. Servono a rendere l’idea che se sei a caccia di un riscontro materiale importante è meglio che aspetti che ricomincino le gare. Attenzione, la Translagorai esiste da sempre come percorso, io non ho inventato assolutamente nulla. Esisteva la traccia e, intuendo da ciò che in molti mi hanno scritto, in tanti hanno un cugino o un conoscente che aveva già stampato un tempo strabiliante.

Però mancava l’ufficialità, ma soprattutto qualcosa che rendesse questa traversata un vero FKT, un percorso condiviso, ripetibile e che facesse sognare anche i non local. Abbiamo quindi creato la traccia cercando di individuare il concatenamento più logico e lineare. Possiamo dire che è uno standard collaudato, non esclusivo, e ovviamente aperto alla creatività personale di ognuno.

Per me era la terza volta su questo percorso e non ero mai riuscito ad arrivare in fondo nell’arco di una giornata sola. Il nostro obiettivo è quello di creare un archivio degli intertempi, di consigli per chi vuole ripeterlo, oltre alla salvaguardia di questo posto che è perfetto così, nella sua imperfezione. In un FKT è giusto avere una visione diversa da quella che si ha su un percorso tracciato con le fettucce di una gara, senza pubblico e senza materiale obbligatorio: insomma, devi arrangiarti. 

Sabato 11 luglio 2020 - ore 22

Per chi si è posto la domanda, non c’è stato un motivo reale dietro la scelta di partire con il buio. Da un punto di vista della performance non ha senso, ma anche il fatto che ci fosse ancora neve sul percorso non ne ha se l’obiettivo è la velocità pura. In tutta onestà ho ritenuto che sarebbe stato più divertente e che avrebbe allontanato la possibilità di correre due notti se qualcosa fosse andato storto. Per qualche ragione in 9 persone hanno deciso di essere lì quel giorno, e in 9 siamo partiti, dopo esserci mangiati una pizza insieme e avere fatto due chiacchiere al parcheggio del Passo Rolle. Abbiamo passato una nottata memorabile. C’è chi si è perso, chi ha deciso di ritornare indietro superata la metà e chi è arrivato in fondo. Luca Forti ed Enrico Scanavin sono riusciti ad arrivare a Panarotta dopo 16 ore e 56 minuti; un tempone, soprattutto conoscendo i retroscena e l’atteggiamento scanzonato con cui hanno affrontato la Translagorai.

Il vero motivo per cui Luca Forti è, secondo me, la persona più rappresentativa della giornata però non è tanto il tempo, quanto il fatto che il giorno prima avesse fatto preparare da sua madre un chilo di pasta (il pasta party per l’arrivo) che ha servito a tutti sul parcheggio della Panarotta, insieme a una bella cassa di birre, che ci siamo bevuti raccontandoci la giornata passata sulle gambe. Quanto ci ho messo io? Posso rispondere meno di 19 ore, ma la vera risposta è: chissenefrega. È stata una giornata bellissima e spero che qualcun altro voglia provare questa esperienza, chiunque era presente quel giorno è pronto a mettersi a disposizione per aiutarlo. Questo è ciò che per me è un FKT. Poi chi sarà il più veloce si vedrà, ma conta fino a un certo punto.

Francesco Paco Gentilucci

© Elisa Bessega

Lagorai
Così perfetto nella sua imperfezione

Potremmo continuare a parlare del 2020 come dell’anno senza gare, oppure vederlo come l’anno del ritorno all’autonomia e della riscoperta del senso della corsa in montagna. Tolti i ristori, tolti i festeggiamenti all’arrivo, tolte le classifiche, quello che resta è anche ciò da cui tutto è partito: una ricerca di libertà e, soprattutto, un ambiente che ti permette di trovarla. E non c’è luogo più adatto della catena del Lagorai per mettersi alla prova in questo senso. Poche sere fa mi trovavo a Passo Rolle, limite orientale del gruppo che ospita la più vasta Zona di Interesse Speciale del Trentino, una delle meno antropizzate dell’intero arco alpino. Ho visto nove persone partire correndo e scomparire in pochi minuti nell’oscurità del sottobosco, decise a dimostrare a nessuno se non se stesse che avrebbero potuto percorrere l’intera traversata facendo affidamento solo sulle proprie forze. Meno di 24 ore dopo, all’estremo opposto di quegli 80 chilometri di quote, picchi e lastèi (lastroni di roccia inclinata), ne ho viste arrivare appena cinque sulle proprie gambe, ma non ce n’era una che non fosse estasiata, per quanto stanca. Non erano lì per caso, non è lo stesso essere in Lagorai o su una qualunque altra alta via con gli stessi chilometri di sviluppo e dislivello e non è difficile capire perché.

Il Lagorai non è bello, almeno non nell’accezione di bello che si è soliti dare a un territorio alpino. Le cime non superano quasi mai i 2.700 metri, i boschi, oscuro intrico di abeti rossi per buona parte distrutti dalla devastante tempesta del 2018, ti costringono a farti strada attraverso una perenne cortina di umidità. I sentieri, che i ragazzi del fastest known time non smettevano di definire poco corribili, si potrebbero dire addirittura poco camminabili: gran parte del percorso in quota che attraversa l’intera catena si snoda lungo una rete infinita di mulattiere e tracce non segnate di origine militare che spesso scompaiono, perdendosi tra i rododendri.

Vecchie linee di trincea ormai coperte da mucchi di rocce instabili obbligano a tenere un passo sempre cauto, si procede intimiditi e quasi oppressi a ridosso di strapiombi e oscure scogliere porfiriche mentre cumuli di nubi si alzano di continuo dagli oltre cento laghi incastonati tra i tanti ghiaioni e le praterie acquitrinose.

Niente che assomigli ai paesaggi idilliaci con i quali si è soliti promuovere una vacanza in montagna, eppure dopo due Translagorai per due anni di fila resto innamorata di ogni centimetro che separa passo Rolle dalla Cima Panarotta. Per me non è mai stata una corsa contro il tempo, mi sono sempre mossa con il ritmo del camminatore appesantito dalla tenda e dalle scorte di cibo, scarponcini rigidi e zaino in spalla, eppure sempre in totale autonomia, provando a non lasciare tracce del mio passaggio. Non ero un’appassionata di alte vie, ciò che mi aveva spinta a partire era la possibilità di trascorrere quattro giorni in cammino senza incontrare anima viva. E di vivere il rischio di essere una delle ultime a poterlo fare.

Da pochi mesi era infatti stato approvato il progetto di riqualificazione e valorizzazione dell’area. Provincia di Trento, SAT, magnifica Comunità di Fiemme e comuni limitrofi avevano firmato un accordo per Dare nuova vita e valorizzare il percorso Translagorai e [...] rimediare al problema dell’inadeguatezza dei punti-tappa lungo il percorso. Diversamente dalla maggior parte dei cammini di lunga percorrenza dotati di strutture ricettive al termine di ogni tappa, la traversata del Lagorai richiede di saper gestire autonomamente una media di tre o quattro soste. Lungo il percorso si incrocia un solo rifugio con pernotto, per il resto o si scende a valle oppure ci si affida alla tenda e ai tanti bivacchi non gestiti: una peculiarità che le amministrazioni locali e i progettisti definiscono inadeguatezza. Ecco perché è stata prevista la ristrutturazione edilizia di un rifugio già esistente e di altre sei malghe-bivacco per creare nuovi punti ristoro gestiti: i primi lavori sono iniziati e in breve tempo si potrebbero incontrare agriturismi e ristoranti lì dove al momento non ci sono che qualche pastore e molte praterie. Nessuno di questi, tra l’altro, sorgerà lungo l’unico tratto di percorso davvero sprovvisto di punti di appoggio, ma tutti strategicamente vicini a vie d’accesso percorribili in auto dal fondo valle così da garantire livelli di affluenza tali da giustificare l’investimento e, allo stesso tempo, condannare irrimediabilmente l’integrità dell’intera zona.

Un progetto di riqualificazione del genere non servirà a dare nuova vita alla traversata, anzi. Così come gli atleti della Translagorai Classic FKT Run sono sempre di più coloro che si dirigono verso quest’angolo del Trentino attirati dalla possibilità di vivere un’esperienza di outdoor forse più scomodo e più difficile da gestire, eppure proprio per questo più appagante e più reale, soprattutto oggi che gli ambienti alpini, saturi di infrastrutture, finiscono per assomigliarsi quasi tutti. Per quanto l’aura di wilderness che accompagna questi luoghi possa diventare motivo di attrattiva per un pubblico più vasto di visitatori, la stessa ostilità di queste terre sarebbe un filtro sufficiente a regolarne l’afflusso, stabilendo un equilibrio sostenibile tra turismo, ambiente ed economia locale.

Se invece il progetto verrà portato a termine, quella del Lagorai potrebbe rappresentare una delle più grandi occasioni perdute per sperimentare modelli alternativi di valorizzazione del territorio montano. Diversi comitati, collettivi e associazioni si stanno battendo perché questo non accada: già dagli anni ’80 il WWF proponeva alla provincia di istituire un parco provinciale. A livello locale i gruppi Giù le mani dal Lagorai e Vicini al Lagorai si sono da subito impegnati sul fronte legale e amministrativo e attraverso eventi di sensibilizzazione della popolazione, mentre i ragazzi di The Outdoor Manifesto continuano a sostenere e organizzare azioni dimostrative come Translagorai Classic FKT Run per mantenere alta l’attenzione sul tema e promuovere una cultura degli sport outdoor che non sia fatta di soli record e prestazioni. La speranza è che sempre più runner, scialpinisti, trekker e professionisti del settore diventino parti attive in vicende come questa, restituendo così qualcosa a quello stesso ambiente senza il quale non potrebbero vivere le proprie passioni.

Elisa Bessega

© Federico Ravassard

Si chiama Translagorai perché è il percorso della Translagorai, circa 80K e 5.000 metri di dislivello positivo, da Passo Rolle a Panarotta.

Si chiama Classic perché devi farla a piedi, in autonomia e perché è favorevole alla fruizione del Lagorai senza strutture per turisti e senza riqualificazioni inutili destinate a rovinare lo spirito selvaggio di questa catena.

Si chiama FKT perché devi arrangiarti e farla sulle tue gambe.

Si chiama Run perché se vuoi arrivare a farla in meno di 24 ore devi correre.

FB Translagorai Classic FKT Run

 

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Outdoor Guide 2021, 320 pagine per sapere tutto prima di acquistare

Il mondo dell’outdoor estivo in meno di dodici mesi dall’ultima edizione della Outdoor Guide è cambiato profondamente: processi in atto che la pandemia ha accelerato alla velocità della luce. Decine di migliaia di persone che avevano visto la montagna e la natura solo sui loro smartphone si sono riversate in massa nella wilderness. Così anche l’Outdoor Guide 2021 (320 pagine, 10 euro), in edicola a partire dal 13 maggio, cambia pelle. Non ha più senso una separazione netta tra camminare e correre e in parte anche tra camminare e usare mani e piedi per salire. Sono categorie mentali che corrispondono a mondi collegati tra di loro. Abbiamo eliminato le vecchie categorie trail, ultra, sky & vertical, day hiking, multiday hiking e mountain per passare a quattro idee: correre (Speed Race), correre e camminare (Trail), camminare (Hike), salire (Mountain). Ogni categorizzazione porta sempre con sé qualche forzatura, è normale. Ma, oltre la semplificazione nel passare da sei a quattro categorie, c’è una riivoluzione nel modo di pensare e di approcciarsi all’attività all’aria aperta. Non abbiamo più ragionato con schemi rigidi, legati esclusivamente o prevalentemente ad aspetti fisici e misurabili come il peso o il drop dei prodotti testati, ma partendo dalla passione e dalle emozioni di chi frequenta l’outdoor che si traducono in obiettivi, atteggiamento, tipo di movimento e di terreno. Nonostante la rivisitazione delle collezioni estive 2021 a causa della pandemia, là fuori ci sono davvero tante novità e, ancora una volta, si è fatto uno step verso qualità e funzionalità. Prodotti brutti non ce ne sono più, o quasi. E andare a fare sport o attività fisica (per rimanere alle distinzioni dei DPCM) è divertente e fa bene. Meglio un sorriso di una smorfia di dolore. No smile, no gain. 

I PRODOTTI IN TEST

Circa 300 tra scarpe, zaini, bastoni, cinture e marsupi, GPS palmari, sportwatch, smartwatch, lampade frontali, tende, sacchi a pelo, materassini, fornelletti, filtri. Tutti provati.

IL TEAM

Una squadra di esperti e appassionati con un nucleo di veterani e qualche new entry. Trail runner top, amatori, Guide alpine, Accompagnatori di media montagna. Tutti insieme per consigliarti il migliore prodotto per le tue esigenze, come se un amico di cui ti fidi ti dicesse i pro e contro di una scarpa o di uno zaino che vorresti acquistare. Il test è stato reso possibile grazie a: Alessandro Brunetti, Franco Collé, Giuditta Turini, Graziana Pè, Niki Gresteri, Nicola Giovanelli, Silvio Pesce, Michael Dola, Francesco Paco Gentilucci, Sergio Pezzoli, Alessio Alfier, Federico Foglia Parrucin, Lorenzo Cavanna, Alice Arata, Elisabetta Caserini, Guido Chiarle, Carlo Gabasio, Paolo Tombini, Valerio Dutto, Luca Serenthà. Ai testatori si è aggiunta una squadra di fotografi appassionati, pronti a fermare l’obiettivo sui dettagli che contano: Federico Ravassard, Chiara Guglielmina, Lorenzo Bognetti, Matteo Cottardo, Daniele Molineris.

LA LOCATION

Finale Ligure è la capitale italiana dell’outdoor e ci ha consentito di provare nelle migliori condizioni, anche quando poco lontano nevicava. Trail, arrampicata, hiking: tutto nel giro di pochi chilometri e vista mare. Per la parte mountain ci siamo spostati ai piedi del Cervino. 

LE SCHEDE

Abbiamo rivisitato il format e i parametri di valutazione. Le scarpe più interessanti sono state trattate in una pagina con prova a secco, sul campo, diverse misurazioni e test non solo sul terreno ma anche in laboratorio. Più informazioni nelle schede tecniche, dalla taglie disponibili alla possibilità di scegliere una versione con membrana impermeabile. Tra i dati rilevati, l’indice minimalista (che fornisce un parametro di quanto la calzatura influisce sulla naturale biomeccanica di corsa) e il tipo di ammortizzazione. Tra i nuovi test quello del grip in laboratorio, su piastra bagnata a inclinazione costante.

SPEED RACE

Abbiamo inserito le scarpe più leggere e veloci in una nuova categoria pensata per chi sa e vuole correre, possibilmente con appoggio di avampiede o mesopiede. Non necessariamente per fare gare, ma per affrontare l’outdoor alla ricerca della prestazione. 19 calzature, 15 zaini e cinture, 3 bastoni top: tutto quello che serve per chi sa come correre bene, ma niente di più perché ogni grammo di troppo è superfluo. 

TRAIL

Il grande mondo di va in montagna preferibilmente per correre, ma non necessariamente. 48 scarpe, 15 zaini, 16 bastoni per per la maggioranza dei runner della natura. Potrebbero essere una scelta ragionevole anche per qualche escursionista.

HIKE

Camminare, camminare e camminare. Prevalentemente su sentiero, ma anche più in quota e su qualche sfasciume. 27 scarpe, 18 zaini, 12 bastoni: tutto quello che serve per muoversi con sicurezza e in comodità nella natura.

MOUNTAIN

Quando il gioco si fa duro: salire, a volte usando le mani, magari con la vetta di un quattromila come obiettivo, ma anche solo per fare una ferrata o una traversata con passaggi su ghiacciaio. Oppure per avvicinarsi alla parete. 29 scarpe, 12 zaini, 4 bastoni per salire. Le proposte da media montagna, che accettano i semi-automatici e hanno una migliore rullata, sono ormai diventate le migliori per l’alpinismo estivo. E nel mondo dell’avvicinamento i modelli mid e low cut rosicchiano quote di mercato alle tradizionali pedule.

GPS 

Orologi per monitorare il training e le performance in montagna, comunicatori satellitari utili in caso di emergenza, palmari cartografici: il Covid ha rallentato produzione e innovazioni ma non mancano new entry. 10 modelli provati in ogni condizione.

LAMPADE FRONTALI

11 lampade: minuscole e leggerissime da dimenticare nello zaino e un po’ più grandi e pesanti per chi ha bisogno di tanta luce per correre veloce o andare in mountain bike.

BASE CAMP

10 tende, 5 materassini, 11 sacchi a pelo, 4 fornelletti, 2 filtri. Modelli tre stagioni o per un turismo un po’ più stanziale, ma sempre nella natura selvaggia. Dormire in tenda nella natura è la forma di turismo più sostenibile ed è perfetta per mantenere il distanziamento. Una sezione completamente rivisitata con foto dei prodotti nelle condizioni di utilizzo. La riscoperta di una montagna più selvaggia a causa della pandemia ha reso interessanti alcuni prodotti che fino a poco tempo fa acquistava solo chi partiva per la grande wilderness come i filtri per purificare l’acqua e così li abbiamo aggiunti anche noi all’elenco del materiale provato.

FARE SPORT PER ESPLORARE

Fare fatica nella natura è bello ed è un’occasione per andare alla scoperta di nuovi posti. Komoot è un’app perfetta per partire con questo spirito, che consente di scegliere il proprio sport, pianificare itinerari e la navigazione sul proprio smartphone o GPS. Acquistando la Outdoor Guide si ha diritto a un coupon per scaricare gratuitamente un pacchetto di mappe per la navigazione offline.

RIVOLUZIONE PLATE

Il plate in carbonio sembra essere il futuro anche nel mondo del trail running. Con Xenia, azienda leader nella produzione di materiali compositi, abbiamo approfondito l’argomento e i possibili sviluppi.

CORRERE E CAMMINARE BENE

Non si va a scuola di camminata e di corsa perché sono due dei gesti più naturali, però in funzione di come si corre o si cammina si consumano più o meno energie e si hanno più o meno possibilità di infortunarsi. Tutti i consigli e le informazioni degli esperti della Clinica del Running.


Da casa al Monte Bianco e ritorno

Non che sul Monte Bianco non ci fosse già stata, nel 2010 e altre due volte l’anno scorso, però Hillary Gerardi, statunitense trapiantata nella valle di Chamonix, voleva inventarsi qualcosa per dare un senso alla permanenza forzata ai piedi del Monte Bianco e alla mancanza di gare nella stagione della pandemia. Così la trail runner e ambassador Black Diamond, guardando distrattamente la cartina in rilievo che ha in cucina, non ci ha pensato su due volte: partire da casa, a Servoz, all’inizio della valle di Chamonix, e salire dritta fino al Monte Bianco, per poi tornare a sedersi sulla sdraio nel giardino nella stessa giornata. Non la linea più logica, non la più bella, ma quella più diretta da casa alla vetta e ritorno. Partenza alle 2 di notte, arrivo in vetta alle 11,15 e rientro per godersi il panorama e riposarsi sulla chise-long. Ne è nato un simpatico cortometraggio, Home Summit Home, tutto da guardare, magari iniziando a pensare alla propria avventura dietro casa.

https://youtu.be/YyVYzuvu-f0


Patagonia per le comunità energetiche

Patagonia, il noto marchio di abbigliamento e accessori per l’outdoor, non è la prima volta che sostiene iniziative e cause ambientali anche non direttamente collegate con il mondo dello sport e delle attività outdoor. L’ultima azione prevede un sito e il documentario We the Power per mettere in luce il crescente movimento delle comunità energetiche in tutta Europa. Le comunità energetiche sono un sistema di produzione di energia in cui gruppi di cittadini producono la propria energia rinnovabile e condividono i benefici economici all'interno della comunità locale. La campagna mira a dimostrare i vantaggi che potrebbe portare questa rivoluzione energetica, sia alle persone che al pianeta.

Attualmente sono un milione i cittadini europei coinvolti nel movimento in veste di membri, investitori o clienti delle comunità energetiche. Entro il 2050 questo numero potrebbe aumentare fino a 260 milioni di cittadini e le comunità energetiche potrebbero contribuire a generare fino al 45% dell’energia dell’Unione Europea, fornendo posti di lavoro locali, bollette ridotte, un ambiente più sano e un tessuto sociale più forte.

La campagna We the Power chiede ai cittadini europei di immaginare un nuovo sistema energetico, libero dai grandi monopoliestrattivi energetici che controllano elettricità e denaro, oltre ad aggravare la crisi climatica. Al posto di questo modello obsoleto e dannoso c'è quello della produzione di energia rinnovabile locale, di proprietà della comunità, socialmente innovativo ed economicamente vantaggioso per le comunità locali.

L'obiettivo della campagna è quello di spronare i cittadini a scegliere come fornitore di energia elettrica una comunità di energia rinnovabile, a unirsi o investire in un gruppo - favorendo così la creazione di posti di lavoro, la crescita della comunità e sostenendo gli abitanti del posto che vivono in condizioni di povertà energetica - o a fondare una nuova comunità energetica. Tutte queste azioni potrebbero accelerare la crescita di questo importante movimento in tutta Europa.

Il film di 30 minuti e la campagna presentano le storie dei pionieri delle comunità energetiche come Dirk Vansintjan, fondatore e presidente della federazione europea delle cooperative di energia rinnovabile REScoop. Altri leader del movimento includono Sebastian Sladek, i cui genitori hanno fondato EWS Schönau negli anni '80, come risposta diretta ai potenziali pericoli nucleari derivanti dal disastro di Chernobyl. Nel film vengono presentati anche Agamemnon Otero, MBE, direttore e fondatore di Repowering London ed Energy Garden – che ha introdotto nel movimento il concetto di resilienza della comunità e di buy-in – e Nuri Palmada, membro del consiglio della comunità energetica spagnola Som Energia.

Il film è stato diretto da David Garrett Byars, il pluripremiato regista del documentario Patagonia Public Trust, che è stato visto 2,5 milioni di volte dal lancio nel settembre 2020.

Per saperne di più sulla campagna We the Power di Patagonia visita il sito Patagonia.


Arthur Conan Doyle, un passo alpino sugli ski

È incredibile come certe persone possano essere visionarie, ahead of their time, in anticipo sui tempi, come direbbero oltre oceano. Lo è stato sicuramente Arthur Conan Doyle. In un articolo pubblicato su The Strand Magazine (VIII, July-December 1894, pp. 657-661), che pubblichiamo a seguire, con divertente humour british, 126 anni fa, l’autore del più famoso detective di tutti i tempi, Sherlock Holmes, aveva già intuito le formidabili potenzialità di due assi di legno, ma soprattutto il potere che hanno sull’anima e sul nostro benessere. Arthur Conan Doyle aveva scoperto lo sci durante una lunga e forzata vacanza in Svizzera dove la moglie Louise era in cura per la tubercolosi.

 

Non v’è nulla di particolarmente insidioso nell’aspetto di un paio di ski. Si tratta di due lingue di legno d’olmo lunghe otto piedi e larghe quattro pollici, munite di coda quadrata, punta all’insù e legacci al centro per assicurare i piedi. A guardarli, nessuno immaginerebbe le possibilità che nascondono. Ma vi basterà calzarli, rivolgere un sorriso agli amici per controllare che vi guardino, e subito dopo cadrete di testa in un cumulo di neve e scalcerete come dannati fino a rimettervi in posizione più o meno stabile, per poi ricadere rovinosamente su quello stesso cumulo, con il risultato di offrire agli amici un divertimento di cui non vi sareste mai creduti capaci.

Questo succede agli inizi. È normale in quella fase mettere in conto guai, i quali non tardano ad arrivare. Man mano che si va avanti, però, la faccenda si fa più irritante. Gli ski sono gli oggetti più capricciosi della terra. Un giorno fila tutto liscio. Un altro, pur essendo immutate le condizioni di clima e neve, va tutto storto. Ed è quando meno ve lo aspettate che gli imprevisti sono in agguato. Ve ne state in cima a un pendio e disponete il corpo a una rapida discesa, ma gli ski s’incollano al terreno facendovi capitombolare di testa. Oppure vi trovate lungo un plateau che sembra piatto come una tavola da biliardo, quando all’improvviso, senza né cause né segnali, essi schizzano in avanti lasciandovi a terra a guardare il cielo. Su un uomo che dia segni di eccessivo amor proprio, un assaggio di scarpe da neve norvegesi potrebbe avere un ottimo effetto morale.

Quando vi preparate a cadere, state pur certi che non accadrà mai. Ritenetevi spacciati quando vi sentite affatto sicuri. Arrivate a un pendio di ghiaccio vivo, con un’inclinazione di settantacinque gradi, e lo salite a zigzag conficcando le lamine degli ski, sapendo che se una zanzara vi si posasse addosso sareste finiti. Ma non succede nulla e arrivate in cima sani e salvi. Vi fermate in piano a congratularvi con il vostro compagno e avete solo il tempo di dire «Che veduta meravigliosa!» prima di ruzzolare di schiena e ritrovarvi con gli ski incrociati attorno al collo. O ancora, vi capiterà di compiere una lunga escursione senza infortuni, dopodiché, tornando lungo la pista, vi fermerete ad annunciare il vostro successo a un gruppo di persone sulla terrazza di un albergo. Basterà un nonnulla, e d’un tratto quelle persone si troveranno a rivolgere i complimenti alla spatole dei vostri ski. Se non avete la bocca piena di neve, per trovare un qualche conforto non vi resterà che snocciolare i nomi di un po’ di paesini svizzeri. Ragatz potrebbe fare al caso vostro ed evitare uno scandalo.

Ma tutto ciò appartiene alle prime fasi dell’uso degli ski. Dovrete pattinare in piano, muovervi su per i pendii a zigzag o alla maniera di un granchio, scivolare senza perdere l’equilibrio e soprattutto curvare con agilità. Al primo tentativo di curvare, gli amici penseranno che fate i buffoni. Il grande volteggio in aria sugli ski ha un aspetto fra i più insoliti, come una sfrenata danza tribale. Eppure quel repentino scodinzolo è veramente la più necessaria delle manovre, perché solo così è possibile curvare sul fianco della montagna senza scivolare. Mai porgere i talloni al pendio: è questa la sola maniera per farlo.

Fatto sta che, disponendo di perseveranza e di un mese libero nel quale superare tutte le prime difficoltà, si giungerà a credere che gli ski aprono un orizzonte di sport che è, a mio avviso, unico. Non riscuote ancora apprezzamento, ma sono convinto che un giorno centinaia di inglesi verranno in Svizzera per la stagione dello ski, in marzo e aprile. Credo di potermi dichiarare il primo, a eccezione dei due svizzeri di cui vi parlerò, ad aver compiuto traversate in montagna sulle scarpe da neve (seppure su distanza piuttosto modesta), ma senz’altro non sarò l’ultimo, anzi mi seguiranno migliaia di persone.

Il fatto è che in inverno scalare una normale vetta e compiere la traversata di valichi alpini è più facile che in estate, a patto che il tempo resti sul bello. In estate dovrete sia salire che scendere, e le due fasi sono egualmente faticose. In inverno la fatica è ridotta a metà, poiché buona parte della discesa è una semplice pattinata. È molto più semplice salire zigzagando con gli ski sopra una neve passabilmente compatta, anziché scarpinare su per i massi sotto un cocente sole estivo. Inoltre la temperatura invernale è più propizia all’esercizio, poiché nulla è tanto delizioso quanto l’aria tonificante e pura delle montagne, purché, naturalmente, s’indossino gli occhiali per proteggersi dal brillio della neve.

Il nostro programma era di andare da Davos ad Arosa attraversando il Passo della Furka, a oltre novemila piedi di altezza. In linea d’aria il tragitto non supera le dodici-quattordici miglia, ma in inverno è stato compiuto soltanto una volta, quando, lo scorso anno, i due fratelli Branger lo percorsero sugli ski. Erano loro i miei compagni nella spedizione che descriverò di seguito, i più fidati cui un novizio potesse sperare di accompagnarsi. Sono entrambi uomini di notevole resistenza, capaci di non soccombere neanche a una lunga esposizione al mio tedesco.

Svegli già prima delle quattro, alle quattro e mezzo eravamo in cammino per il paesino di Frauenkirch, dove avremmo attaccato l’ascensione. Una grande luna pallida splendeva nel cielo violetto, punteggiato di quelle stelle che è possibile ammirare soltanto ai Tropici o sulle cime più alte delle Alpi. Alle cinque e un quarto deviammo dalla strada per scarpinare sulla salita, dove si alternavano distese ancora coperte d’erba e chiazze di neve. Gli ski li portavamo in spalla, gli scarponi da ski attorno al collo, poiché si progrediva spediti sulla neve dura, là dove il sole aveva picchiato durante il giorno. Qui e là, in corrispondenza di una conca, affondavamo fino alla cintola in un manto soffice, ma nel complesso la marcia procedeva facilmente, e finché la pista attraversò un’abetaia fu impossibile calzare gli ski. Attorno alle sei e mezzo, dopo una lunga e continua sfacchinata, uscimmo dai boschi e poco dopo passammo davanti a una malga di legno, l’ultimo segno di presenza umana che avremmo visto fino ad Arosa.

Poiché sui pendii la neve era ancora abbastanza dura da offrire un buon appiglio ai nostri piedi, proseguimmo veloci sopra ondulati campi di neve che tendevano generalmente a salire. Più o meno alle sette e mezzo il sole rischiarò i picchi alle nostre spalle e il bagliore su quella grande distesa immacolata si fece accecante. Scendemmo per un lungo tratto e poi, giunti al corrispondente versante esposto a settentrione, trovammo la neve soffice come polvere e così alta che il bastone non toccava il fondo. Fu lì che calzammo le scarpe da neve e zigzagammo su per il lungo e candido fianco della montagna, per poi fermarci in cima a riposare. Sono oggetti utili gli ski, poiché, vedendo che la neve era ancora abbastanza dura da reggerci, li convertimmo in un comodissimo sedile, dal quale ammiravamo la vista di un completo circo di montagne, i cui nomi il lettore sarà contento di sapere che ho completamente dimenticato.

La neve si ammorbidiva rapidamente sotto i raggi solari, così che senza le scarpe la progressione sarebbe stata impossibile. Ci inerpicavamo sul ripido fianco di una valle e la bocca del Passo della Furka ci stava grossomodo di fronte. La neve lassù si posava a un’angolazione di cinquanta-sessanta gradi e poiché quello scosceso pendio lungo il quale scarpinavamo precipitava in un baratro, scivolare poteva essere rischioso. I miei compagni più esperti mi lasciarono camminare più a monte per quel mezzo miglio circa che durò il pericolo, ma presto sbucammo su una salita più leggera, dov’era possibile cadere senza gravi conseguenze. E allora sì che cominciammo veramente a usare le nostre scarpe da neve. Fino a quel punto avevamo camminato alla stessa velocità di un paio di scarponi, però su un terreno dove gli scarponi non sarebbero passati. Ma adesso assaporavamo un piacere che gli scarponi non potranno mai regalare. Per un terzo di miglio pennellammo curve che solcavano delicatamente la neve, schizzando fino a valle senza muovere i piedi. In quel grande deserto inviolato, dove campi di neve facevano da cornice alla nostra vista su tutti i lati e dove non si scorgevano tracce di vita che non fossero le impronte di camoscio o di volpe, fu glorioso sfrecciare in quel modo agevole. Un breve zigzag ai piedi della china ci condusse, alle nove e mezzo, alla bocca del passo, e vedemmo i piccoli alberghi giocattolo di Arosa, laggiù in fondo tra le abetaie, migliaia di piedi sotto di noi.

Avevamo ancora grossomodo mezzo miglio, che percorremmo trascinandoci dietro i bastoni. Mi pareva che la parte difficile del viaggio fosse finita e che dovessimo soltanto stare in equilibrio sugli ski e farci portare a destinazione. Eppure fu lì che arrivarono i guai. La discesa si fece sempre più ripida, fino a precipitare in quello che per un soffio non era un burrone bell’e buono. Ma è appunto in ragione di quel soffio, là dove sia coperto di neve soffice, che è possibile sfruttare in un altro modo le meravigliose lingue di legno. I fratelli Branger concordavano sul fatto che il tratto era troppo difficile perché tentassimo di attraversarlo con gli ski. Quanto a me, mi pareva che la sola opzione possibile fosse un paracadute, ma mi limitai a fare quello che facevano i miei compagni. Si tolsero gli ski, li allacciarono l’uno all’altro con i legacci e li capovolsero per ottenere una slitta alquanto rudimentale. Ci sedemmo sopra, conficcando i talloni nella neve e premendo forte i bastoni dietro di noi, e cominciammo a scendere lungo lo scosceso versante del passo. Penso che i miei compagni giunsero a pentirsene, visto che arrivati al fondo erano bianchi come la moglie di Lot. Ma ero alle prese con guai così impellenti da non avere tempo per curarmi di loro. Cercai di moderare la velocità dei miei balzi premendo il bastone, il che ebbe l’effetto di far ruotare di lato la slitta, facendomi sbandare giù per la discesa. Fu così che ficcai i talloni nella neve e venni catapultato all’indietro, dopodiché in un lampo i miei ski, legati assieme, schizzarono come una freccia da un arco, oltrepassarono i Branger con un sibilo e svanirono sulla china dirimpetto, lasciando il proprietario carponi nella neve fonda. Sui campi più alti, dove i cumuli di neve vanno dai venti ai trenta piedi, poteva essere un incidente sgradevole, ma nel mio caso la ripidità era un vantaggio, perché lì la neve non si accumulava in grandi quantità. Scesi il tratto che mi restava alla mia maniera.

A detta del mio sarto, l’Harris Tweed non si logora mai. È una pura teoria, che non reggerebbe a un esperimento scientifico dotato di tutti i crismi. Brandelli della sua merce si trovano esposti, infatti, dal Passo della Furka ad Arosa, e per il resto di quel giorno fui particolarmente felice di camminare rasente ai muri.

Tuttavia, se non si conta che uno dei Branger si era slogato la caviglia nel corso della discesa, andò tutto bene e arrivammo ad Arosa alle undici e mezzo, dopo un viaggio di sette ore spaccate. Gli abitanti di Arosa, sapendo del nostro arrivo, avevano messo in conto che prima dell’una non ci saremmo fatti vivi, e così uscirono per assistere alla discesa del ripido passo più o meno quando noi finivamo un lauto pranzo al Seehof. Non starò qui a rimproverarli per un divertimento innocente, ma vi dirò che fui felice di sapere che il mio piccolo spettacolo fosse finito prima che loro si riunissero muniti di binocolo. Senza un pubblico, ce la si cava ottimamente durante un nuovo esperimento sugli ski.

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