Suffer fest Ice & Palms

*suffer fest: neologismo di origine anglosassone, indica un’attività sportiva di endurance nella quale è previsto che buona parte (se non tutti) dei partecipanti siano costretti a una fatica prolungata con annessa sofferenza fisica e mentale.

Il Baden-Württemberg è uno dei principali land della Germania. La sua capitale è Stoccarda, conosciuta nel resto del mondo come la patria dell’automobile (Mercedes-Benz, Porsche, Bosch hanno sede qui, ad esempio), e l’economia dell’intera regione si basa largamente sull’industria. Confina con la Francia a Est e con la Svizzera a Sud, mentre i principali rilievi sono rappresentati dalla Foresta Nera, la catena dello Giura e le Prealpi del Lago di Costanza. Il Baden-Württemberg sembra un buon posto dove vivere, se non fosse per un piccolo dettaglio: il mare, specialmente quello caldo, è lontano, parecchio lontano. E di conseguenza, se un paio di amici si dovessero inventare di voler andare al mare in bicicletta, le cose si complicherebbero parecchio, specialmente se lungo l’itinerario ci si volesse portare dietro anche degli sci e decidere di utilizzarli nel miglior modo possibile.

I due amici sono Jochen Mesle e Max Kroneck che, oltre alla passione per lo sci scoprono di condividere anche quella per le pedalate, specialmente quelle lunghe e faticose, e per la fotografia, in particolar modo quella che ti impone di utilizzare apparecchi pesanti e scomodi. L’idea che partoriscono insieme ha le caratteristiche comuni di ogni suffer fest* che si rispetti: dev’essere lunga, fisicamente estenuante, particolarmente ricca di incognite e problematiche di varia natura, originare vesciche in vari punti del corpo e apparire insensata agli occhi delle persone normali. Et voilà, ecco il progetto Ice & Palms: Jochen e Max vogliono partire da casa loro a Dürbheim, nel Baden-Württemberg, raggiungere l’Austria e da lì attraverso i principali valichi alpini arrivare fino al lungomare di Nizza, senza mai utilizzare mezzi a motore e sciando il più possibile, filmando allo stesso tempo la loro avventura. Di tanto in tanto, poi, verranno raggiunti da amici che daranno una mano nella ripresa delle immagini.

© Max Kroneck, Jochen Mesle, Julian Rohn

I loro destrieri saranno due bici gravel, equipaggiate con portapacchi anteriori e posteriori sui quali sistemare l’attrezzatura. Sci e scarponi dietro, insieme a uno zaino con il materiale per la notte. Sacca anteriore sinistra per il pentolame e macchine foto. Sacca anteriore destra: accessori e abbigliamento da pioggia, pronti per essere tirati fuori in poco tempo. Peso totale, cinquanta chili, grossomodo: vista l’agilità, più che destrieri li si potrebbe definire dei ronzini un po’ sovrappeso. Quello della partenza, nella primavera del 2018, è un momento strano, Jochen e Max sembrano fuori posto: un po’ come quei modelli da catalogo, ritratti in ambiente ma con abbigliamento e attrezzatura perfettamente in ordine e puliti. Ci vorranno un paio di giorni per cominciare a stropicciarsi il giusto e toccare la neve dopo più di 100 chilometri di distanza percorsa. Non è poi così male, tutto sommato, poter acclimatarsi in modo soft prima di arrivare sulle montagne vere. Viaggiare con bicicletta e sci al seguito significa perdere continuamente tempo a fare e disfare i bagagli, che richiedono un ordine maniacale, in perfetta antitesi con la natura degli sciatori. Ogni pezzo dev’essere nel posto giusto per essere trovato nel momento giusto: Mark Twight diceva che in montagna ci vuole un accendino in ogni tasca, per non impazzire quando si tratta di accedere il fornello in bivacco, e in bike packing non cambia più di tanto.
Al quarto giorno sono nell’Arlberg, da lì si dirigono verso la Svizzera. Di neve qui non sembra essercene molta, ma bisognava pur trovare un compromesso per poter beneficiare dell’apertura di quasi (tutti) i valichi. Sono le classiche condizioni in cui, una volta - come dicono i vecchi -  cominciava la stagione dello scialpinismo. A St. Anton un avventore in un bar chiede loro cosa faranno quando, una volta arrivati a Nizza, non troveranno più neve da sciare. «Ci siamo portati dietro anche il costume da bagno» la risposta perentoria.

Dopo nove giorni e 500 chilometri si comincia a fare sul serio. La coppia di ciclo-sciatori si avvicina al massiccio del Bernina e dalle sacche sulle ruote spuntano fuori piccozze e corde, ingredienti necessari per il menù dei giorni a seguire: Piz Bernina e Cima di Rosso, itinerari grandiosi che strizzano l’occhiolino alle pendenze sopra i 45°. Si muovono bene, dopo le prime tappe in cui hanno patito entrambi le conseguenze di infortuni occorsi durante la stagione invernale. Strano ma vero, le centinaia di chilometri in bicicletta hanno fatto da terapia e ora si avvicinano alla metà della distanza che separa la Germania dal Mediterraneo. Dopo due settimane di viaggio arrivano al Furkapass, che collega le Alpi Lepontine a quelle Bernesi. Su questi tornanti, negli anni ’60, Sean Connery sfrecciava sulla sua Aston Martin durante le riprese di Agente 007 - Missione Goldfinger, ma quando Jochen e Max arrivano alla sbarra del fondovalle capiscono in poco tempo che per loro il valico sarà tutt’altro che velocità e adrenalina: la parte alta non è ancora stata ripulita dalla neve ed è, in poche parole, chiusa al traffico. Non rimane altra scelta che accettare la sfida e caricarsi le biciclette letteralmente sugli zaini, tirare fuori le pelli e proseguire carichi come sherpa lungo i pendii innevati, sotto una leggera nevicata che non fa altro che rincarare la dose di sofferenza. I due viandanti procedono barcollanti sotto i loro carichi monumentali e, un passo alla volta, cominciano a salire verso i 2.436 metri del passo. La discesa è una scena surreale, fatta di curve molto controllate e allo stesso tempo storte come un quadro cubista, fino a quando, esausti, possono finalmente rimettere le ruote sull’asfalto, mentre il nevischio ora tramutato in pioggia fa apprezzare ancora di più la mutevolezza del meteo primaverile.

© Max Kroneck, Jochen Mesle, Julian Rohn

Sono passati ventun giorni dalla loro partenza e con 960 chilometri nelle gambe il Vallese si apre davanti a loro. Mentre a pochi chilometri i turisti gozzovigliano nei ristoranti di Zermatt, i nostri due eroi puntano gli sci verso mete sicuramente più di nicchia. «È bello ritrovarsi completamente soli in montagna e sapere di avercela fatta con le proprie forze» commentano, salendo verso il rifugio da cui partiranno il giorno successivo. Il Bishorn lo sciano nella nebbia, non senza qualche spavento. Le valanghe si fanno sentire ma non si fanno vedere, mentre a quattromila metri, immersi nel white-out, aspettano una finestra di cielo pulito per scendere il più velocemente possibile. Sul Brunegghorn, due giorni più tardi, vengono premiati dagli dei della montagna con una discesa memorabile, in una di quelle giornate in cui lo scialpinismo primaverile si manifesta in tutta la sua bellezza. Cielo azzurro, polvere fredda e, duemila metri più sotto, il verde dei pascoli a fare da quinta. La parete Nord è una pratica che viene liquidata in una decina di curve che giustificano pienamente lo sforzo supplementare di utilizzare assi da freeride al posto di perline da scialpinismo light: entrambi, infatti, hanno deciso di portarsi dietro sci oltre i 100 millimetri al centro e scarponi a quattro ganci da freetouring. L’attenzione della coppia, ormai innamorata del Vallese, si sposta a questo punto su un altro monumento del ripido, che risponde al nome di Grand Combin de Valsorey. Lo scivolo Nord-Ovest, che culmina a 4.184 metri, viene descritto da Max come una scala di Giacobbe, facendo riferimento all’affresco di Raffaello in cui il profeta biblico sogna una scalinata da cui gli angeli possano muoversi fra la Terra e il Cielo. Lo stesso scivolo in cui, nel film La Liste, Jérémie Heitz perdeva uno sci, riuscendo incredibilmente a salvarsi la pelle dopo una caduta a 50° di pendenza. Per i due la giornata si rivela fortunatamente meno adrenalinica, anche se la stanchezza inizia a farsi sentire. Proprio quel giorno avrebbero dovuto riposare, ma passare sotto a quella rampa senza sciarla non sarebbe stata un’azione da fedeli devoti alla causa dello sci.

© Max Kroneck, Jochen Mesle, Julian Rohn

Al trentesimo giorno, nei pressi del Gran San Bernardo, iniziano a manifestarsi i primi indizi che indicano che ormai è solo questione di pochi giorni prima di potersi spaparanzare in spiaggia. Nizza 323 km, recita un cartello nei pressi del tunnel. Pochi chilometri più in là, a Donnas, delle palme appaiono a bordo statale come oasi nel deserto. Come i barbari alla fine dell’Impero Romano, i due germanici continuano a calare verso Sud a bordo dei loro ronzini meccanici, nutrendosi unicamente di pizza, pasta e carboidrati vari per onorare la cultura del turismo tedesco in Italia. Valle di Susa, poi il Monginevro: il prossimo obiettivo sarà la Barre des Écrins, il quattromila più meridionale dell’arco alpino, e sarà anche l’ultima vetta in programma prima di dirigersi verso il Col du Vars e le spiagge francesi.
Quella sulla Barre è un’altra giornata memorabile. Si filmano a vicenda all’alba, mentre si dirigono, sci ai piedi, verso la terminale della parete Nord, che per l’occasione si è presentata con il vestito dei giorni di festa. Solitamente è un muro ghiacciato e non sempre la neve la ricopre in modo sufficiente per poter essere sciata. Solitamente non vuol dire sempre, e per i due l’ultima discesa del loro viaggio può cominciare direttamente dalla croce sommitale, dalla quale si può vedere tanto il Monte Bianco quanto il Golfo di Nizza. Chi ha già sciato nelle Alpi del Sud sa bene l’emozione che si prova a vedere il Mediterraneo scintillare in lontananza, la stessa che provano Jochen e Max mentre gli attacchi fanno clack.

Il Col du Vars è una formalità che viene sbrigata in fretta, aspettando l’ultimo ostacolo: il Col de la Bonnette, che con i suoi 2.715 metri è, insieme allo Stelvio, all’Iseran e all’Agnello, tra i più alti valichi asfaltati delle Alpi. Nel 2016 il Giro d’Italia era passato di qua in una tappa memorabile, la penultima: in soli 134 chilometri erano stati concentrati 4.100 metri di dislivello, con le salite al Vars, alla Bonnette e alla Lombarda per poi terminare sui tornanti che conducono al Santuario di Sant’Anna di Vinadio. Proprio qui, sul finale, Vincenzo Nibali aveva attaccato sul diretto concorrente Esteban Chaves, che si era visto sfilare la maglia rosa a meno di 24 ore dalla fine del Giro. Quel giorno, all’arrivo, i genitori di Esteban si erano resi protagonisti di una scena di sport indimenticabile, andando ad abbracciare il siciliano sul traguardo e complimentandosi con lui per la vittoria. Uno sgambetto è stato riservato anche a Max, che riesce a forare a meno di 30 km da Nizza, dopo 42 giorni e 1.800 chilometri di strade di montagna. L’arrivo sul lungomare è uno shock: dopo sei settimane in cui le uniche priorità erano state sciare, pedalare e più generalmente sopravvivere, il senso di smarrimento è totale. «Cosa faremo ora?», si chiedono i due, confusi al punto che pure scegliere dove andare a cenare rappresenta una sfida al pari della traversata del Furkapass innevato. Succede così che il capitolo finale del loro viaggio viene scritto in un ristorante messicano nel sud della Francia, un’idea assurda e apparentemente incomprensibile quanto voler partire dalla Germania per arrivare al Mediterraneo sciando e pedalando. Cosa ci insegnano Max e Jochen? Beh, di sicuro potrebbero illuminarci sulla loro gestione del tempo libero, ma è limitante dire che per intraprendere un progetto come Ice & Palms sia sufficiente trovare 40 giorni di ferie, anche perché, in un certo senso, loro in quel momento stavano lavorando, in quanto freeskier professionisti. No, Jochen e Max ci insegnano che le avventure più belle possono essere vissute anche dietro casa, che non è necessario viaggiare dall’altra parte del mondo per ritrovarsi in balia dell’incognito. E che l’incognito - o inesplorato, che fa più figo - può avere moltissime forme diverse: dalle condizioni della neve sul Grand Combin a quelle della strada sul Furkapass, fino a quelle fisiche di Max quando, nel trasferimento dalla Val d’Aosta alla Francia, si ritrova a macinare duemila metri di dislivello con 39 gradi di febbre. E ci insegnano anche in cosa consiste la creatività, ovvero su come prendendo due o più concetti e fondendoli insieme si possano creare infinite nuove idee. Tipo andare in bici e sciare, o sciare e andare al mare. Oppure, andare al mare pedalando e sciando. Insomma, ci siamo capiti. Un’ultima lezione potrebbero darcela sulla gestione della biancheria in sei settimane di ambienti umidi e freddi, ma quella è tutta un’altra storia.

Ice & Palms è un cortometraggio di 32 minuti prodotto da El Flamingo Films e diretto da Jochen Mesle, Max Kroneck, Philipp Becker e Johannes Müller. 

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 124

https://youtu.be/AzyK5qr-WC0

https://vimeo.com/elflamingo/iceandpalms


Brody Leven, globetrotter per l'ambiente

Seguo Brody Leven sui social ormai da qualche anno e la sua figura mi ha sempre incuriosito. Un po’ insta-blogger, un po’ (tanto) scialpinista d’avventura, specialista assoluto del ravanage e dei viaggi improbabili, tipo la spedizione pedal to peak alle isole Lofoten: in bicicletta, in inverno, trasportando tenda, sci e attrezzature con un piccolo rimorchio su strade tortuose e una meteo decisamente avversa. Brody condisce il tutto con un dialogo attivo tanto nel mondo virtuale quanto quello reale sulle tematiche ambientaliste perché, dopotutto, se vengono a mancare freddo e neve la vita degli sciatori si complica non poco. Scia, tanto, e comunica anche tanto, non esitando a raccontare - e raccontarsi - attraverso storie di Instagram, video e articoli sulla carta stampata. Lui si definisce adventure skier and storyteller ed effettivamente è quello che fa: al primo impatto potrebbe sembrare l’ennesimo wannabe influencer tutto chiacchiere e distintivo, ma seguendolo si capisce che sa quello che fa e in che direzione andare, soprattutto quando si tratta di andare a martellare al Congresso di Washington DC per promuovere la causa ambientalista. Insomma, a me quelli come Brody piacciono, perché sono fuori dagli schemi in senso positivo, e si impegnano davvero, a costo di giocarsi sponsorizzazioni o attirare commenti acidi degli hater sotto i propri post.

Ciao Brody. La tua figura di atleta professionista è fuori dalla norma: non sei un freeskier vero e proprio, e nemmeno un alpinista o uno storyteller nella loro accezione più pura. Sei un mix di tutte queste attività: come ti definiresti?

«La mia qualifica professionale è qualcosa che ho pensato io stesso. Credo di essere autorizzato a farlo, dal momento che ho creato la mia stessa professione. Adventure skier and storyteller: vado in giro, scio e racconto storie che spero possano aiutare i lettori, strappare un sorriso o dare la carica per una nuova sfida, perché credo che mettere alla prova le proprie capacità faccia del bene a noi stessi».

Ho letto che quando eri giovane lavoravi come DJ ed eri uno sciatore da park. Come sei diventato il Brody di oggi?

«Come molti americani, ho dovuto ripagarmi i prestiti universitari. Mi sono impegnato molto per sviluppare le mie capacità scialpinistiche durante l’università, mentre studiavo i fondamenti per avviare una mia attività commerciale, così ho deciso di combinare insieme le due cose. A differenza di altri miei colleghi, non sono stato su vere montagne fino ai diciott’anni. Ero letteralmente indietro di una vita rispetto agli altri sciatori e ho praticamente dovuto re-imparare a sciare fuori dai park, sui grandi pendii. Sapevo di voler lavorare per me stesso e viaggiare per il mondo, quindi era una carriera perfetta a cui puntare».

Sei conosciuto per i tuoi viaggi particolari e sei stato uno dei primi professionisti a organizzare un’avventura in stile pedal to peak: un ottimo modo per promuovere il turismo sostenibile, come è nata l’idea?

«Di sicuro non l’ho fatto per promuovere nulla, compresa la sostenibilità. È che mi piacciono tante cose oltre allo sci, come il viaggiare lentamente, il bike-packing, scalare e viaggiare per vedere il mondo; specialmente quando lo vedo a bassa velocità. A piedi si è troppo lenti, e in auto troppo veloci, quindi sui pedali hai l’andatura giusta. Andare in un posto come le Lofoten non può essere definito una spedizione, perché non si è così isolati e le montagne sono basse: è più giusto parlare di viaggio sciistico, ma quando si tratta solo di sciare è facile che mi annoi. Mi piace variare le attività, così la bicicletta è stato il modo per visitare una zona relativamente piccola in un paio di settimane e nel frattempo avere la possibilità di praticare scialpinismo come piace a me. Stare all’aria aperta tutto il giorno, tutti i giorni, è un ottimo modo per sentirsi integrati nella natura, e questo è un altro dei motivi per cui amo il bike-packing. Perché siamo parte della natura, ed è naturale stare là fuori».

Che problemi hai riscontrato in questo tipo di viaggi? Come gestisci il carico pesante? Che consigli daresti a chi si vuole cimentare in un’avventura come le tue?

«No, non ci sono stati problemi, anzi, è stato fantastico! Sì, ho dovuto trasportare materiali per dormire, cucinare e sciare sulla mia bici, che era davvero pesante, usando un normale rimorchio della Bob leggermente modificato. Chi volesse provarci deve solo uscire di casa e farlo! Si capisce facilmente e in poco tempo ciò di cui si ha bisogno e ciò che invece può rimanere in garage e come settare la bici. E poi, pedalando, hai un sacco di tempo per pensare alle migliorie».

Qual è stato finora il tuo viaggio più bello? E il peggiore? Ti ricordi qualche episodio particolare?

«Ovviamente è difficile sceglierne uno solo. Ma di sicuro uno dei mie preferiti è stato il viaggio stagionalmente confusonell’estate del 2013, attraverso la Patagonia con il mio amico e fotografo Adam Clark. Abbiamo affittato un van e, nel corso di un mese, abbiamo guidato da Santiago fino all’estremità meridionale del continente, scalando e sciando montagne che vedevamo direttamente dalla strada. Abbiamo caricato autostoppisti, sciato all’ombra del Fitz Roy ed è stata davvero l’avventura della vita. Mi mancano i viaggi di quel tipo».

Qual è il motivo per cui viaggi? Curiosità? Come scegli una destinazione?

«Uhm, questa è una bella domanda. Non so se si tratti di curiosità, almeno non nel senso tradizionale del termine. Sono curioso di sapere quali sono i miei limiti e cosa si provi a visitare e sciare in altri luoghi. Mi piace trovare un punto di equilibrio tra sicurezza, sfida fisica e impegno mentale, quest’ultimo probabilmente deriva anche dal fatto che sono lontano da casa. È quella che il mio amico alpinista Graham Zimmermann chiama esposizione relativa: è più facile sciare una linea ripida ed esposta sulle montagne di casa tua, dove conosci il manto nevoso, il terreno, i tuoi margini di sicurezza e come allertare i soccorsi. Viceversa, in giro per il mondo, dove non parlano la tua lingua, non hai la possibilità di essere soccorso, non sai com’è la neve, hai tempo e cibo in quantità limitate, è diverso. Mi piace inserire l’esposizione relativa come variabile nell’equazione per programmare un viaggio. Scelgo le destinazioni leggendo i report dell’American Alpine Journal, guardando immagini satellitari su Google Earth, blog su internet e voci che girano tra le mie conoscenze. Dal momento che molte delle mie discese vengono fatte in aree più conosciute per l’arrampicata, spesso cerco di informarmi su queste ultime, piuttosto che puntare direttamente a destinazioni prettamente scialpinistiche».

Dove hai trovato la neve più bella? E qual è stata la miglior destinazione per lo scialpinismo a tutto tondo, compresi l’ospitalità, le montagne, la gente?

«Quando programmi un viaggio con mesi di anticipo è difficile pensare di trovare bella neve, ed effettivamente è quello che succede. Di sicuro quella peggiore l’ho sciata sulla Cima Margherita, al confine tra Congo e Uganda. Più che neve, era un ghiacciaio scoperto. Sull’Orizaba, la terza più alta montagna del continente americano, in Messico, non c’era praticamente copertura nevosa in cima. Ho fatto delle curve decenti alle Svalbard, ma anche lì c’era neve bruttina! Uno dei miei posti preferiti invece è stato il Kazakhistan. È un Paese bellissimo, con gente ospitale e montagne enormi, difficili e remote. Vorrei tornarci».

Sui tuoi canali social parli molto di tematiche ambientali e del tuo lavoro con la community di POW (Protect Our Winters). Quando hai cominciato a essere un attivista? Qual è il tuo ruolo in POW?

«I miei parenti mi hanno cresciuto insegnandomi a prendermi cura della natura. Alle scuole elementari ho partecipato a un progetto sul riciclo della carta e, una volta entrato all’università, come rappresentante degli studenti, ho lavorato molto sulle iniziative ambientali. Quando sono diventato uno sciatore professionista ero coinvolto già da tempo in programmi di salvaguardia dell’ambiente e iniziative varie, quindi si può dire che l’attivismo sia sempre stato una parte rilevante della mia vita e del mio modo di vivere».

Rispetto all’Europa, gli atleti americani sembrano essere molto più coinvolti nelle azioni di responsabilità sociale ed ambientale, come ad esempio nel dibattito sulle public lands o sull’esclusione di Colin Kaepernick in NFL (giocatore di football americano messo fuori squadra perché ha protestato durante l’inno nazionale). Credi che gli sportivi professionisti abbiano il dovere morale di partecipare alla vita pubblica?

«Dal momento che ognuno di noi ha il proprio senso morale, non è giusto per me dire che si tratti di un dovere in generale. Ma è come se lo fosse».

Ogni tanto vai al Congresso, a Washington, puoi dirci di più su queste attività di lobbying?

«Vado a Washington DC solo quando ho uno specifico messaggio da comunicare e sento di poter concretamente influenzare le idee e le azioni di chi mi ascolta. Ci sono stato con l’American Alpine Club e POW e un paio di altre volte. Incontrare membri del Congresso o i loro staff può essere un’esperienza frustrante, specialmente quando si tratta di persone che rifiutano di accettare i fondamenti scientifici del surriscaldamento globale. Ma quando si raccontano storie che hanno a che fare con il salire e scendere montagne di tutto il mondo, o di medaglie olimpiche come quelle vinte da alcuni atleti di POW, sembra che siano più propensi a dedicarci la loro attenzione. Ci sono degli esempi di come potenzialmente abbiamo cambiato il loro modo di vedere le cose, ma le loro decisioni sono così influenzate dalle linee guida dei partiti che preferisco investire il mio tempo nel parlare direttamente con gli elettori piuttosto che con i politici».

I viaggi aerei sono uno dei problemi principali quando si tratta di gestire la propria impronta ecologica. Come fai a vivere una vita da atleta professionista con una filosofia di basso impatto ambientale? Hai dei suggerimenti?

«Oh, io incoraggio assolutamente la gente a viaggiare. Vedere il mondo è il miglior modo per rendersi consapevoli della sua salvaguardia. L’aumento dei valori della propria impronta ecologica è compensato dai cambiamenti nel modo di vivere e agire che vengono stimolati dall’esperienza del viaggio. Essere cittadini di una società alimentata a combustili fossili non significa sostenerli e non si può frenare il progresso in nome della perfezione: vivo e lavoro nello stesso mondo degli altri ed è necessario per tutti essere consapevoli del proprio impatto sull’ambiente. Il punto è che l’impronta dei singoli individui è minima se comparata alle emissioni di gas serra delle industrie. Possiamo essere ambientalisti attivi anche vivendo normalmente nella nostra società, perché ciò di cui si ha bisogno non è un passeggero in meno su un volo aereo, ma sistemi di trasporto puliti e più corporazioni devote alla causa green. Se diciamo alla gente che sono degli ipocriti e che bisogna assolutamente vivere a impatto zero per sostenere l’ambiente, non facciamo che perdere potenziali attivisti: questo sarebbe certamente il modo per essere sconfitti definitivamente.

Personalmente, vivo in una casa che produce grazie ai pannelli solari più energia di quanta ne consumi, non utilizza gas o combustibili fossili ed è costruita con materiali riciclati. Sono ossessionato dal minimalismo, che è un ottimo modo per ridurre la propria impronta ecologica. Sono vegetariano da sempre e tengo in considerazione l’origine del cibo che mangio; non ho mai mangiato carne, che foraggia un tipo di industria veramente dannosa per l’ambiente. Mi muovo in bicicletta e per i viaggi più lunghi ho una vecchia auto che condivido con la mia ragazza e che verrà sostituita da un mezzo elettrico quando sarà tempo di un upgrade. Ma tutte queste cose, credo, sono meno di una goccia nell’oceano: lo faccio perché ho fiducia che tutto ciò possa aiutare me e gli altri a cambiare il nostro modo di vedere le cose, non perchépenso di poter frenare i cambiamenti climatici».

Hai letto le recenti dichiarazioni del presidente della Federazione Internazionale Sci Gian Franco Kasper, che ha negato l’esistenza del surriscaldamento globale? Hai firmato la petizione di POW per chiedere le sue dimissioni?

«Sì, certamente. Ne sono venuto a conoscenza tramite la newsletter di POW ed è disgustoso sapere che una figura di questo tipo rappresenti un ente così importante per il nostro settore. Gli amici mi hanno detto per anni di quanto obsoleta fosse la FIS e credo che questo episodio non faccia che confermarlo. È un’organizzazione influente e dovrebbe assolutamente agire nell’interesse degli atleti e dei fan di tutto il mondo: negare i cambiamenti climatici in atto è in antitesi con tutto ciò e per questo POW, assieme a 10.000 altri firmatari (tra cui atleti, brand e addetti ai lavori) ha chiesto le sue dimissioni. Le sue opinioni non lo rendono assolutamente idoneo alla guida della federazione».

Sei mai stato in Italia?

«Sì, ci sono stato per la prima volta quest’estate, per sei ore! Assieme al mio amico Brendan Leonard sono stato ospite di un tour organizzato da Run the Alps attraverso Francia e Svizzera, conuna comitiva di loro clienti. Abbiamo corso una versione trail della Haute Route Chamonix-Zermatt, in una decina di giorni. Un giorno, mentre assistevamo alle gare dell’UTMB, io e Brendan abbiamo preso il pullman fino a Courmayeur, mangiato un sacco di pizza e poi siamo tornati in Francia: questo è stato per ora il mio unico soggiorno in Italia. L’ho adorata. Ovviamente, essendo appassionato di ripido e canali, ho sempre voluto andare a sciare nelle Dolomiti, ma ho una regola personale che mi vieta di utilizzare gli impianti di risalita e l’idea di affrontare quelle discese muovendomi unicamente con le pelli mi intimidisce un po’, soprattutto perché chi c’è stato mi ha raccontato che sarebbe un’ambizione un po’ folle. Ma in Italia ci voglio davvero tornare, in qualsiasi periodo dell’anno. Per scalare, o sciare, o mangiare…».

Qual è l’ultimo libro che hai letto?

«Kitchen Confidential di Anthony Bourdain. Per Natale la mia fidanzata mi ha regalato un Kindle che ha riacceso la mia passione per la lettura. Mattatoio n° 5 o La crociata dei bambini, Alone on the Wall e Giorni Selvaggi sono state altre letture recenti. Ora sto leggendo How a Second Grader Beats Wall Street».

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© Joey Schusler

White out

Esiste un posto, dall’altra parte dell’Atlantico, dove la neve è diversa. Voglio dire, è pur sempre fredda e bianca come la nostra, di neve, ma è diversa. È talmente leggera che quando vedi uno sciarci dentro sembra che stia cavalcando una nuvola di fumo, per questo la chiamano cold smoke. Una neve così, sulle Alpi, non può cadere. Una neve così ha pochi uguali nel mondo, qualcuno dice che solo in Giappone si trovi di meglio, ma nel Nuovo Continente, e neanche nel Vecchio, non c’è niente di così perfetto. Magari da qualche parte la si trova ancora più leggera, ma qui lo è al punto giusto, conservando quel tocco di corposità tale da permettere agli sci di acquistare portanza e velocità.

Tutto ha origine nel Pacifico, da cui ogni inverno una ventina di perturbazioni salpano verso gli States. Salutano le spiaggie della California e poi passano sopra le montagne della Sierra Nevada, dove le nuvole che le formano perdono progressivamente umidità. Poi, in vista dei Wasatch, avviene la magia. Il Great Salk Lake è lì che le aspetta. Manco a dirlo, è un’enorme pozza di acqua di mare: profondità media quattro metri o poco più, estensione di 4.400 chilometri quadrati e una concentrazione salina di 50g/l, più degli oceani, per intenderci. Sopra queste acque le nuvole continuano ad asciugarsi e a raffreddarsi e, una volta sopra le cime del Little Cottonwood Canyon, puf!, asciano cadere fiocchi perfetti. Tecnicamente si chiamano dendriti e sono fatti esattamente come quelli che disegnerebbe un bambino, o come se li tatuarebbe uno skibum sul sedere: cristalli di ghiaccio a forma di stella, insomma, quelli che scendono ad Alta sono i Fiocchi di neve, con la f maiuscola.

Alcuni viaggi uno se li programma, o magari se li coccola come sogni nel cassetto per anni, anzi, per autunni interi, che è la stagione in cui la scimmia della neve inizia a risvegliarsi dal letargo estivo. Ad Alta invece ci sono finito quasi per caso, vittima di una serie di fortunati eventi. Ne avevo già sentito parlare, attraverso il web e i video di sciatori che arrivano proprio da qui: gente come Johnny e Angel Collinson (Jim, il padre, lavora da queste parti come snowpatroller), o Pep Fujas, giusto per nominarne un paio. Ma non mi era mai passato per la mente di venirci a sciare. Comunque, meno di un mese dopo aver preso il biglietto, mi sono ritrovato nella hall degli arrivi dell’aeroporto di Salt Lake City, in cerca della persona che mi avrebbe dovuto dare un passaggio su per il Little Cottonwood Canyon. Si è presentata nel modo più yankee possibile, a bordo di un suv dalle dimensioni tali da far impallidire un gruppo di attivisti ambientali. In pochi minuti ci siamo lasciati la città alle spalle, addentrandoci nella vallata in cui un secolo e mezzo fa arrivarono i primi minatori alla ricerca di argento.

Il primo impatto non è dei migliori, anzi. La maggior parte di questa cittadina di 300 abitanti è composta da edifici in cemento con le linee squadrate, i classici ecomostri che andavano di moda nelle stagioni sciistiche degli anni ’70. Qua e là qualche cottage si staglia orgoglioso, ma nulla lascia pensare che qui la media annuale di sciatori tocchi il mezzo milione. Il perché è presto spiegato: da quando ho caricato le borse in auto all’aeroporto a quando le ho depositate all’entrata del lodge sono passati a malapena tre quarti d’ora, questa vicinanza fa sì che il mezzo milione di frequentatori annui sia composto per lo più da sciatori che vengono qui in giornata da Salt Lake City, che può vantare più di una decina di comprensori a meno di un’ora di viaggio.

© Federico Ravassard

La prima notte non dormo benissimo, il cuore non ne vuole sapere di rallentare. Nonostante i boschi di conifere, infatti, Alta si trova a 2.700 metri, una quota dove solitamente gli impianti sulle Alpi finiscono, mica cominciano. Non nevica da una settimana, così il mattino seguente lo si dedica alla scoperta delle piste battute, i groomers. Già dalle prime curve capisco che qui c’è qualcosa che non va, anzi, che va fin troppo bene: la bassissima umidità evita infatti che la neve geli di notte anche dopo il passaggio dei gatti, niente a che vedere con i lastroni che si trovano da noi al mattino. Dopo un’accurata indagine di mercato, compiuta in coda alla seggiovia, noto che la maggior parte degli sciatori utilizza aste da 90-100 millimetri al centro: il manto, sempre morbido, rende inutili attrezzi più cattivi e quello che da noi viene ancora considerato uno sci da freeride, qui diventa un all-mountain. Si può dire che la concezione stessa dello sciare sia differente. Non si fanno distinzioni tra mazinga e freerider, o tra pista e fuoripista. I gestori stessi considerano come aree sciabili tutto ciò che rientra all’interno del resort, compresi boschi e i tratti tra una pista e l’altra. Questo vuol dire che l’intero comprensorio viene quotidianamente controllato e messo in sicurezza da un esercito di patroller, una situazione ben diversa dagli standard europei, dove, essenzialmente, al di là delle reti di bordo pista sono fatti tuoi. Non esiste l’idea che uno vada a sciare solo dentro o solo fuori. Ci si fa un giro a tirare pieghe in pista e il giro dopo, tutti insieme, ci si butta in un canalone, bonificato nei giorni precedenti dai patroller. Non esiste il freeride e non esiste neanche il carving. Esiste solamente l’andare a sciare, in una visione della pratica più globale della nostra, costruita a compartimenti stagni in base a come ti vesti e a quali sci utilizzi.

Tantissimi scendono sotto le seggiovie, su pendii ormai tritati e coperti di gobbe. Da noi il ‘sottoseggiovia’ è un terreno per pochi, in genere sventurati che, dimenandosi tra un dosso marmoreo e l’altro, vagano in cerca del bastoncino caduto. Qui non è così. Come detto prima, la neve non gela, ergo, i mogul sono sciabili e, giuro che è vero, è anche divertente farlo. Bisogna solo fidarsi a prendere velocità, con la spatole che affondano in curva assorbendo i colpi. Più vai veloce e più galleggi, come nelle whoops del motocross, anche se poi al fondo ci arrivi con le cosce che bruciano chiedendo pietà. Un pomeriggio puntiamo a un must di Alta: la Main Chutedel Mt. Baldy, un ripido canalone che si raggiunge con una breve camminata, sci in spalla, dall’arrivo della seggiovia Sugarloaf. Dalla cima la vista sul Little Cottonwood Canyon è spettacolare, per quanto sia impossibile non notare la cappa di smog su Salt Lake City, in inverno onnipresente a causa della morfologia della zona.

Con me, insieme ad altri, ci sono Marcus (Caston) e Connery (Lundin), due local con i quali scierò anche nei prossimi giorni. Marcus è, in una sola parola, impressionante: ha gareggiato per anni in discesa e super-g, importando poi la tecnica garaiola nel freeride. Il suo stile è un mix di agilità e potenza, scia esattamente come scierebbe uno slalomista di Coppa con un paio di fat nei piedi. Connery, invece, arriva dal freestyle, che gli ha dato un imprinting di fluidità e scioltezza. Uno alla volta entriamo nel canale, segnato dai numerosi passaggi, più per non intralciarci a vicenda che per ragioni di reale sicurezza. È strano da dire, ma qui nessuno scia fuoripista con il kit antivalanga. Questo perché i patroller bonificano continuamente tutti i pendii, segnalando con cancelli e pali quali pendii sono già stati messi in sicurezza e quali, invece, sono ancora da far brillare. Marcus molla gli sci dritti, assorbendo i colpi tenendo il baricentro bassissimo e sfruttando le gobbe per impostare le curve saltate. Dall’uscita del canale fino all’entrata in pista non tira neanche più le curve, prendendo subito velocità. Io rimango lì, in mezzo al pendio, a fissarlo con la bocca spalancata. Non avevo mai visto qualcuno sciare in questo modo, così composto e dinamico allo stesso tempo. Mentre torniamo al lodge il cielo comincia a coprirsi. Oh già, stanno arrivando le magiche nuvole dal Pacifico e i prossimi giorni saranno fenomenali. Dall’ufficio dei patroller cominciano a diramarsi i bollettini meteo, mentre i primi fiocchi iniziano a scendere, dando origine in pochi minuti a una copiosa nevicata. Il mattino dopo la sveglia è condita dai botti dei cannoni. Dico cannoni, e non gasex, perché negli States, dove è consentito usare esplosivi, per il controllo delle valanghe effettivamente usano proprio quelli. Obici perfettamente funzionanti, ottenuti in prestito dalla US Army. Ad Alta ce ne sono sei, posizionati sulle vette più panoramiche; per bonificare i pendii più nascosti, invece, si ricorre a un altro metodo ancora più pratico, lanciando granate a mano direttamente dalle creste. È tutto così americano che non mi stupirei di sentire anche il rombo delle pale di un elicottero Apache.

© Federico Ravassard

Ho appuntamento con Julian Carr, un personaggio fuori dalle righe e fuori di testa. Freeskier professionista, attivista ambientale, imprenditore, runner… uno che sa come ammazzare il tempo, in poche parole. Capelli lunghi sotto le spalle, tratti orientali, una calma zen, è letteralmente cresciuto qui, figlio di un jazzista di Salt Lake City. Sugli sci è conosciuto per l’altezza dei suoi drop, che gli hanno fruttato due Guinness World Record, tra cui quello per il più alto front-flip: 210 piedi, circa 70 metri. Circa due tiri di corda, o un palazzo di venti piani. Facendo il mortale in avanti. Quando non è occupato a fare trick da videogioco, Julian manda avanti il suo marchio di abbigliamento streetwear, Discrete Clothing, organizza un circuito di gare di trail proprio qui in zona, la Cirque Series, e tiene discorsi sul surriscaldamento climatico per POW (Protect Our Winters), l’ente no-profit fondato dallo snowboarder Jeremy Jones. A essere sincero, non mi stupirei se nei tempi morti si occupasse anche di fisica quantistica e letteratura bulgara.
Prendiamo la prima seggiovia, chiacchierando del più e del meno. Io faccio il vago, cercando di sopravvivere. Non mi sono tolto lo zaino e in America, sulle seggiovie, non ci sono le sbarre di sicurezza. Mentre lo ascolto con un sorriso tiratissimo, Julian mi racconta delle sue attività per POW, di quanto tutto ciò sia diventato ancora più importante dopo la vittoria di Trump. Lo Utah è uno stato in cui un florido movimento attivista e un innegabile patrimonio naturale devono fare i conti con una maggioranza repubblicana e conservatrice, in un braccio di ferro il cui premio in palio sono ettari di foreste, montagne e deserti. Poche settimane dopo il mio viaggio, la notizia che ha scosso gli animi è stata quella dell’abbandono dell’Outdoor Retail Show (l’equivalente del nostro Ispo) della sua sede a Salt Lake City in segno di protesta e di coerenza nei confronti di uno Stato che non si impegna nella salvaguardia ambientale.

La prima run della giornata per me è anche la prima che faccio nella cold smoke. Realizzo nel giro di poche curve che quello che si dice di questa neve è tutto vero. È leggera, unica. Gli sci scorrono veloci nonostante si affondi fin quasi al bacino. Da noi, oltre un certo spessore, non c’è fat che tenga. Se è troppa è troppa, non puoi fare altro che tirare giù dritto. Qui invece no, sei il passeggero di te stesso mentre giochi a variare l’ampiezza delle curve, modulando la velocità in modo imbarazzantemente facile. Anche dove è già stata tracciata, la neve ti copre comunque la faccia a ogni dosso, sciare in questi boschi è la cosa più goduriosa di questo mondo. Seguo Julian per tutta la mattinata, dopo un paio di giri ci avviamo in direzione dei secret spot di Alta. C’è da camminare un attimo, ma ne vale la pena. Scendiamo nell’anfiteatro chiamato Wolverine Circus, dove sono state girate numerosissime sequenze di skimovie. Di fronte a noi, dall’altra parte della valle, si trova uno dei kicker naturali più famosi al mondo, il Chad’s Gap. Quaranta metri di aria sotto i piedi che ti sparano tra due colline originatesi da depositi minerari, resi famosi da Candide Thovex e, soprattutto, da Tanner Hall, che in un tentativo andato male si spezzò entrambe le caviglie. Per ore non facciamo altro che sciare e scattare fotografie. In una pausa caffè (ops, meglio chiamarlo brodone. Qui sotto il mezzo litro è già un espresso) parliamo di POW e di come, in fondo, degli sportivi siano i più adatti a diffondere il messaggio che se non si fa qualcosa subito, di neve non ce ne sarà mica più tanta in futuro. Come altri skier locali, Julian si reca spesso nelle scuole a tenere seminari agli studenti: per un adolescente sentirsi un sermone sull’effetto serra recitato da un capellone in jeans e trucker hat dev’essere decisamente più cool che ascoltare un professore.

Nel tardo pomeriggio le nuvole si aprono, lasciando Julian libero di farmi da cicerone su quelle che sono le gite scialpinistiche di Alta. La più succosa è proprio di fronte a noi, il Mt. Superior: mille metri esatti di pendio la cui entrata è caratterizzata da un’enorme cornice, così grossa che per oltrepassarla bisogna letteralmente scavarci un tunnel da parte a parte. Poco più in là ci sono le discese di Cardiff Bowl e Toledo, più tranquille, solitamente usate come allenamento. I loro nomi derivano dalle vecchie miniere d’argento dismesse che si trovano alla base. Il mattino seguente avrei di nuovo un gancio con Julian, ma verso le 8 del mattino un messaggio cambia i piani. «Too much snow, the canyon is closed. See you tomorrow!»Proprio così, la nevicata, ricominciata con americana ingordigia nella notte, ha costretto i Ranger a chiudere la strada di Little Cottonwood e a mettere in azione i cannoni nella parte basse della valle. Facendo colazione i vetri del lodge vibrano per lo spostamento d’aria provocato dallo scoppio dei colpi di bonifica, mentre un cameriere mi racconta ghignando di quella volta in cui un colpo ha mancato il bersaglio, regalando un bello spavento a una famiglia di Snowbird. Solo, mi avvio verso la partenza della Wildcat (una seggiovia) aspettando che succeda qualcosa. Incontro Bob, il cuoco del lodge. Anche lui è senza compagni, ma non sembra curarsene. Nevica tantissimo e il resort è per noi e pochi altri.«If you’re not skiing everyday you’re living in the wrong place» mi dice in coda facendo l’occhiolino. Ieri sera, comunque, si stava sciogliendo i muscoli con un intruglio a base di tequila, miele e te caldo. Un paio di run dopo faccio pausa caffè, nevica come Dio comanda e ci sono -10 gradi. Hanno riaperto la strada, ma è già mezzogiorno e oggi salgono solo gli infognati, quelli a cui un paio d’ore possono essere sufficienti a mettersi l’anima in pace. Un gruppo di ragazzini vestiti da skateboard si infila nell’atrio del Rustler e si cambia lì, in mezzo ai fiocchi di neve portati dagli spifferi d’aria. Età media 14 anni, qualcuno arriva ai 16, che è poi quello che ha guidato fino a qui stamattina.

Con una certa delusione nel cuore constato che sono l’unico a non chiudere backflip. Mi guardo intorno e quello che vedo, tra una run e l’altra, è che il livello medio ad Alta è pazzesco. Sciano tutti benissimo, anche i vecchietti sotto la seggiovia vanno giù fluidi e sorridenti. E chi va forte, va forte davvero. Chi in Italia può reputarsi un discreto sciatore, qui non va oltre la media, che è una cosa bellissima perché fa capire veramente cosa vuol dire essere bravi a parole o sulla neve. In giro di poser ce ne sono pochi. C’è talmente tanta foga nel voler tracciare le metrate di polvere che di tempo per pavoneggiarsi all’arrivo della seggiovia non ce n’è mica tanto, ce n’è solo per accumulare più metri di dislivello possibile. Nel pomeriggio incontro Marcus. Immaginando che avrebbero chiuso la strada del Little Cottonwood, si è svegliato alle cinque per salire ad Alta prima che scattasse il blocco. Il tempo è leggermente migliorato e nel pomeriggio saliamo per qualche foto. Mi confida strizzando l’occhiolino che ha preso degli sci più stretti per affondare ancora di più. La luce è surreale, i fiocchi sono talmente leggeri che svolazzano nell’aria come polvere nei campi secchi. Marcus scia veloce, a ogni curva deforma all’eccesso i suoi sci da 95 millimetri per poter uscire dal manto. A un certo punto il meccanismo si inceppa e le spatole vanno giù, facendolo affondare fino al primo strato di neve compatta. Ergo, solo la testa spunta fuori.

L'ultimo giorno ad Alta è quasi surreale. Nevica di nuovo da 48 ore consecutive e fuori dalla finestra di camera mia il mondo è diventato una sfera di fiocchi grossi e bianchi, come quelle palle di vetro pacchianissime che vendono nei mercatini di Natale. Di sciare, purtroppo, non se ne parla. È scattata l'interlodge closure, l'ultima volta era stata tre anni fa. Significa divieto tassativo di uscire dagli alberghi e dalle abitazioni perché le bonifiche verranno fatte a ridosso dei centri abitati. Il personale del lodge ci raduna nella hall, mentre i vetri delle finestre vibrano di continuo a causa dei colpi di cannone. L'atmosfera è resa ancora più surreale da un cameriere che serve gin tonic da una caraffa nonostante siano le 10 del mattino. Qualcuno mi chiede del Rigopiano, siamo a ridosso dei giorni della grande nevicata in Abruzzo e la situazione è ironicamente molto simile. Dico ironicamente, perché tutto quello che non ha funzionato di là, di qua invece fa parte di un meccanismo ben rodato. I mezzi spazzaneve girano frenetici cercando di liberare almeno una corsia per far sì che pochi shuttle autorizzati possano portare a Salt Lake City chi non può perdere il volo, me compreso. Fuori dalla finestra si vedono dei puntini neri scendere veloci: sono i patroller che, finito il turno, si godono un comprensorio intero chiuso per troppa neve. In pratica, il sogno di qualsiasi amante della puffia, di quella neve così leggera e così polverosa che qui ad Alta trova la sua espressione più pura.

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© Federico Ravassard

Valle dell’Orco Outdoor Destination

Se state cercando una località fighetta dove andare a bere uno spritz a fine giornata, mi spiace, siete finiti sull’articolo sbagliato. Se vi piacciono le falesie plaisir con gradi farlocchi, di nuovo, mi spiace, ma andate da un’altra parte. Se vi piace il trail da passerella, dove si va a correre su sentieri balcone sfoggiando l’ultimo completo di Kilian… inutile dirlo, ma qui contano solo le gambe, quando si tratta di attraversare valloni deserti sul filo dei 3.000 metri. La Valle dell’Orco è un posto per quelli a cui piace trovare lungo in parete con le gambe che tremano mentre le mani cercano il friend giusto da piazzare; per quelli che agli apericena sul lungolago vestiti da boulderisti preferiscono i rifugi in quota o le piole dove non bisogna temere l’aglio nelle acciughe al verde; per quelli che si scaldano a leggere i libri di storia dell’alpinismo, perché una parte di essa ha trovato su queste pareti il suo palcoscenico; per quelli per cui andare a correre significa ravanare in una pietraia. Insomma, la Valle dell’Orco chiede ed elargisce sincerità. Ho cominciato a frequentare il lato piemontese del Parco Nazionale del Gran Paradiso qualche anno fa, scegliendo la Royal Ultra Skymarathon come mia prima gara di skyrunning (una decisione non troppo oculata, a posteriori). Poi è arrivata l’arrampicata e le prime vie in stile trad, quel modo un po’ matto e un po’ radical chic di scalare senza utilizzare protezioni fisse (spit), ma ricorrendo all’uso di sistemi rimovibili come friend e nut, che su queste pareti granitiche ha il suo naturale terreno d’elezione. Assieme ad altre valli piemontesi è stata una dei teatri dove l’alpinismo italiano ha vissuto la rivoluzione del Nuovo Mattino negli anni ’70, l’equivalente piemontese degli arrampicatori hippie che in Yosemite sostenevano l’arrampicata libera, tanto nello stile in parete quanto in quello di vita: scala pulito, non piantare chiodi, non stressarti e magari fumati una canna. Con un distacco totale dalla visione eroica della montagna di allora, quelli del Nuovo Mattino erano solo ragazzi che volevano divertirsi, non figure militaresche alla conquista dell’Alpe. Un po’ come nel freeride adesso, no? Poco alla volta mi sono innamorato di questa selvaggia valle poco conosciuta dal turismo di massa della montagna, che pare esercitare un misterioso fascino sui suoi frequentatori sin, tanto che non di rado capita di trovare freaks che per venire qua macinano ore e ore di statali e autostrade a bordo di furgoni scassati, come i due ragazzi venuti dalla Romania che ho incontrato a inizio mese alla parete del Dado.

Parco Nazionale del Gran Paradiso: dove (ri)nascono gli stambecchi

La relazione tra gli stambecchi e il Parco stesso è talmente forte che si può tranquillamente affermare che senza uno dei due, neanche l’altro esisterebbe. Questo perché nel 1856 venne istituita la Riserva Reale di Caccia del Gran Paradiso, per concedere ai Savoia l’esclusività delle attività venatorie sugli stambecchi, che all’epoca si credeva che fossero estinti su tutto l’arco alpino, ad eccezione di una piccola colonia sul versante valdostano. I Savoia proibirono ai valligiani la loro caccia, riservandola per se stessi, ma allo stesso tempo favorirono il ripristino della popolazione, poiché dal loro mirino si salvavano gli esemplari femmina e i cuccioli. Le resistenze iniziali furono vinte con la promessa di Re Vittorio Emanuele II di «far trottare i quattrini sui sentieri del Gran Paradiso» ed effettivamente i benefici furono immediati: vennero fatte opere di riqualificazione dei centri abitati di fondo valle, costruiti ponti e - soprattutto - creata una rete di mulattiere che si estendono tutt’oggi per oltre 300 chilometri, dalla canavesana Noasca alla valdostana Champorcher. Si tratta di vie di collegamento uniche nel loro genere, costruite con fondi lastricati e muri di sostegno, per permettere ai Reali e al loro seguito di guardiacaccia e battitori di spostarsi facilmente a cavallo… e agli skyrunner di correre ad alta quota, visto che il tracciato della Royal Ultra Skymarathon ne ricalca in gran parte il tracciato originale. Nel 1922 Vittorio Emanuele III istituì il Parco Nazionale vero e proprio, il primo in Italia, a cui tutto l’arco alpino deve qualcosa: il ripristino della popolazione degli stambecchi. Tutti quelli che vivono ancora oggi sulle Alpi sono arrivati infatti da qui, unico luogo dove è cominciata la loro salvaguardia, la cui popolazione si attesta a più di 2.700 unità, che condividono il domicilio con oltre 7.000 camosci. Rispetto a quello dei cugini valdostani, il lato canavesano è giudicato a torto più sfigato, complice anche una mentalità diversa in passato che ne ha frenato l’espansione turistica. Se sia meglio o peggio, è soggettivo. Quello che è sicuro è che il versante sud del Parco offre una wilderness e un isolamento rari nelle Alpi.

© Federico Ravassard

Stefano, il papà della Royal

Più di 50 chilometri dal lago di Teleccio a Ceresole, conditi da cinque valichi (di cui due sopra i i 3.000 metri) su un percorso che, a differenza di altre sky, è tutt’altro che forzato, dal momento che si utilizza la rete delle strade reali di caccia dei Savoia. Per saperne di più sulla Royal Ultra Skymarathon ho incontrato il creatore di tutto ciò, rimanendo affascinato da una persona tanto eclettica quanto esplosiva. Tanto per cominciare, la sede dell’organizzazione è al primo piano di un edificio che ospita anche la pasticceria dei genitori, che in passato poteva fregiarsi del titolo di fornitrice della casa Reale. Stefano Roletto, nella vita, fa il fisico del suono, un mestiere che non pensavo neanche potesse esistere, e credo che soffra di iperattività o qualcosa di simile. Legato da sempre al territorio del Canavese, ha creato da zero l’idea dell’anfiteatro della collina morenica di Rivoli, ma anche il Morenic Trail e un’altra miriade di progetti sull’identità del territorio canavesano. Se dovesse capitarvi di iniziare una discussione con lui, mettetevi comodi: può intrattenervi per ore parlandovi del Gran Paradiso, della genesi della gara e del rapporto che tutto ciò ha con il Duca degli Abruzzi, una figura che Stefano stima così tanto che alla partenza della Royal, sulla diga, nel luglio del 2016, è stata chiamata a suonare la fanfara della Marina Militare. Tanto per spendere due parole in breve su Luigi Amedeo di Savoia-Aosta: tentò, in anticipo clamoroso sui tempi, la salita al K2; fu un alpinista e uomo di mare di incredibile valore, con spedizioni sul Ruwenzori, al Polo Nord e due prime ascese sulle Grandes Jorasses; fondò un villaggio in Somalia e, un caso più unico che raro per quei tempi, intraprese una relazione con una principessa locale. Mentre lo intervisto, a una settimana dall’evento, Stefano è costretto più volte a rispondere al telefono, che suona ininterrottamente: da quando Marino Giacometti ha dato l’ok per l’ammissione nel massimo circuito, la febbre da Royal è letteralmente esplosa. Quest’anno sono arrivati skyrunner da 30 Paesi diversi e in Orco la popolazione era più calda che mai. Basti pensare che le balise sono state piantate solo a ridosso della domenica di gara, essendo diventate oggetto di culto tra i valligiani entusiasti che le hanno appese ovunque come ornamento. A detta sua, i tifosi più esagitati sono quelli di Noasca, spesso vista come una località di serie B rispetto a Ceresole, anche se alla fine molte iniziative all’interno del Parco arrivano proprio da qui, complice una pro-loco attivissima. Lo saluto dopo essermi trattenuto con piacere più del dovuto, dopo essere finiti - va là che strano - a parlare di sci e di Stairway from Heaven, l’impressionante linea di Federico Negri (da lui affrontata a vista e in solitaria!) che permette, nelle annate più nevose, di inanellare curve lungo la parete sud del Gran Paradiso, la stessa visibile da Torino.

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Andrea, local del Piantonetto

Il Vallone del Piantonetto è una piccola gemma nascosta della Valle dell’Orco. Vi si accede attraverso la tortuosa strada che da Locana porta fino alla Diga di Telessio e all’omonimo lago. Sopra l’acqua azzurra vigila, qualche centinaio di metri più in alto, il Rifugio Pontese, luogo di partenza ideale per le scorribande primaverili ed estive di scialpinisti e arrampicatori. Da qui parte anche la Royal, con il primo chilometro corso a perdifiato lungo la diga e la salita concitata che, dopo il passaggio davanti al Rifugio, porta al Colle dei Becchi, primo cancello orario della gara. Il gancio ce l’ho con Andrea Michelotti, un super local della zona, visto che abita proprio nella parte inferiore del vallone, a San Lorenzo. Andrea è uno dei volontari della Royal e, soprattutto, anche del Soccorso Alpino locale: la sera prima del nostro appuntamento era al lavoro proprio qui, per dare una mano a degli arrampicatori rimasti feriti sul Becco della Tribolazione, una delle pareti simbolo del Piantonetto assieme al Becco di Valsoera. Due imponenti guglie, santuari del granito piemontese, che presentano itinerari di stampo classico come la Malvassora o la Mellano-Perego fino alle grandi difficoltà, come Sturm und Drang, liberata solo l’anno scorso dalla torinese Federica Mingolla. Per arrampicare qui sono necessarie la voglia di ingaggiarsi e di camminare, visto che due o tre ore di avvicinamento sono la regola, ma l’ambiente (e la roccia!) ricompensano più che adeguatamente della fatica fatta. Iniziamo a salire lungo il sentiero, con il tetto giallo del Pontese sopra le nostre teste. Il giorno della gara questo tratto viene percorso in modalità ‘corri o muori’, perché è facile che si creino intasamenti. Si tira poi per un attimo il fiato proprio davanti al rifugio, dove il sentiero spiana giusto il tempo di dare modo di godersi il tifo a suon di pentole e campanacci dei gestori Mara e Nicola, due figure di assoluto riferimento quando si tratta di mettere le gambe sotto il tavolo. Tra un tornante e l’altro c’è il tempo di fare due chiacchiere. Andrea mi racconta che ha cominciato a correre proprio per la Roc, la versione ridotta della Royal: nessun altro dei pochi giovani del Piantonetto (gli Under30, qui, si contano sulle dita delle mani o poco più) aveva mai indossato il pettorale della corsa di casa, così il duro lavoro andava pur fatto da qualcuno. L’affetto che Andrea prova per questi luoghi trasuda sinceramente dalle sue parole: qui passava le sue estati da piccolo, ospite della casa dei nonni, e una volta adulto ha scelto di trasferirsi, soffocato dallo stress della pianura, in un periodo in cui molti suoi coetanei dell’alta valle fanno l’opposto. Parliamo di mamma Iren, la società proprietaria delle dighe di tutta la Valle, che offrendo posti di lavori a moltissimi valligiani ha di fatto frenato il turismo: con un lavoro sicuro nell’idroelettrico, ben pochi infatti hanno osato investire in altri settori. Parliamo anche della sua famiglia, di come la vita qui sia cambiata negli ultimi anni. Probabilmente la nonna aveva un allenamento pari a quello degli skyrunner: durante la guerra partiva a piedi dal Piantonetto carica del riso canavesano verso la francese Val d’Isère, passando dalla Galisia e dal rifugio Prariond, per poi fare ritorno con il sale, introvabile da queste parti. Ci fermiamo a fare qualche foto al Piano delle Muande, l’archetipo della Valle Orco. Un torrente, prati che nessuno calpesta mai, la nebbia che va e che viene e tantissima roccia. Se dovessero ambientare un film qui, probabilmente non sarebbe uno di quelli per bambini, tutt’altro. Al ritorno ci fermiamo al Pontese, per molti di noi una seconda casa. Incontro Stefano e Christian, con cui scopro di avere parecchi amici in comune. Uno è Guida, l’altro, invece, ha dato corda al piccolo sogno di sviluppare l’arrampicata a Positano, spinto dall’euforia di Adriano Trombetta, creando un piccolo angolo di paradiso con le sembianze di un agriturismo ribattezzato La Selva. Per Christian è la prima volta da queste parti, per lui ormai abituato al caldo calcare della Campagna il risveglio muscolare di qualche ora prima, al Caporal, è stato piuttosto brusco, ma non credo che gli sia dispiaciuto. Esce fuori a fumare e si guarda in giro, puntando gli occhi verso i Becchi. Toh, penso, un altro rapito dal fascino della Valle dell’Orco. Sono cose che succedono.

© Federico Ravassard

Con Ivan al Nivolet

Avessi dovuto scattare tutte le foto di questo reportage con un solo atleta a disposizione, probabilmente la scelta sarebbe caduta proprio su Ivan. Perennemente abbronzato, d’inverno con il segno della maschera da sci e d’estate con quello del completo da ciclista, Ivan Cesarin è una specie di macchina da guerra canavesana in versione multisport. Nella vita di tutti i giorni gestisce il suo negozio a Ciriè (manco a dirlo si chiama Grimpeur e vende attrezzatura da montagna), ma nel tempo libero arrampica, pedala e scia a livelli altissimi. Probabilmente se si dedicasse al biliardo riuscirebbe a eccellere pure lì. Ci incontriamo all’Hotel Gran Paradiso a Noasca, caffè di rito e poi su verso il lago. Lo seguirò durante l’ascesa in bici al Colle del Nivolet. A detta sua, assieme al Ventoux e all’Iseran, è sul podio delle più belle salite d’Europa. Purtroppo, mi spiega, finora è stato ignorato dal grande ciclismo perché la strada apre dopo il Giro d’Italia, mentre il Tour de France non apprezza il fatto che con il passaggio nella galleria si perderebbero venti minuti di diretta televisiva. Ci fermiamo a far foto in alcuni punti suggeriti da Ivan, che ormai queste curve le conosce a memoria. Mi confessa che l’anno scorso le avrà percorse almeno una dozzina di volte, ma vista la bellezza del paesaggio, non credo si sia mai annoiato. Oltre che dai ciclisti, Il Nivolet è meta di pellegrinaggio anche da parte degli astrofili: la protezione offerta dalle alte cime, unita alla lontananza dai centri abitati e alla quota elevata, ne fanno uno dei luoghi con meno inquinamento luminoso dell’intero arco alpino. Arrivati al cartello del passo, ci fermiamo a prendere una coca-cola al Rifugio Città di Chivasso mentre lo sguardo si perde verso il nastro di asfalto che scende giù sul versante valdostano, mai completato. Per arrivare a Pont Valsavarenche bisogna infatti scendere dalla bici e camminare qualche chilometro sui sentieri, per questo motivo a volte capita di incrociare ciclisti con le scarpe da trail legate al mezzo. C’è poi chi ama complicarsi ulteriormente la vita: Daniele Fornoni, amico di Ivan e ultra-trailer di razza, qualche volta si allena con un biathlon devastante: in bici al Nivolet, discesa su Pont, cambio d’assetto e poi su fino alla vetta del Gran Paradiso… per poi rifare tutto nel senso opposto!

© Federico Ravassard

Raffaella, la guardiaparco volante

«Ciao, ci possiamo sentire stasera? Scusa, ma sono in giro per il conteggio degli stambecchi!». Inizia così lo scambio di messaggi con Raffaella Miravalle, una delle figure più conosciute dello skyrunning canavese. Da diciannove anni questo scricciolo biondo è uno dei guardiani del Parco, e da sette il suo ufficio, se così si può chiamare, è la Casa di Caccia del Gran Piano di Noasca, a 2.222 metri. Nei giorni liberi si toglie di dosso la divisa verde e il binocolo e indossa canottiera e pantaloncini per andare a correre. E non corre piano, Raffa, tutt’altro: ha vinto cinque edizioni della Royal, più innumerevoli piazzamenti ad altre gare di prestigio, come il Kima. Fare la guardiaparco è sempre stato il sogno di Raffaella e, quasi per caso, è diventato anche lo stimolo grazie al quale ha cominciato a correre, proprio tra queste montagne: uno dei test d’ingresso era infatti una prova di marcia cronometrata, sullo stesso tracciato lungo il quale si disputa tutt’ora il KV di Ceresole. L’appuntamento, alla fine, me lo dà lungo la strada per il Nivolet, da dove poi percorreremo una parte della mulattiera reale qui perfettamente conservata (leggi: lastricata) fino al Casotto Bastalon, una passeggiata breve ma panoramica. Prima di lei, al parcheggio, arriva Jodie, la sua collega pelosa: un pastore tedesco di quattro anni, uno dei pochi ammessi all’interno del parco in virtù del perfetto addestramento. Effettivamente, a vederle andare in giro insieme, le due sembrano essere in contatto telepatico. Pioviggina e si è alzato il vento, ma la luce del sole si fa largo tra le nuvole creando un’atmosfera da Nord Europa. Parliamo del più e del meno, lasciandoci alle spalle i turisti che affollano il Nivolet nei weekend. Prima del ‘trasferimento’ al Gran Piano era questa l’area di cui si occupava Raffaella, decisamente più impegnativa dal punto di vista della sorveglianza: la strada asfaltata passa proprio nel cuore del Parco e la convivenza tra l’ambiente e i frequentatori occasionali, poco responsabili, è fatta di equilibri difficili da far rispettare. È anche da queste necessità che nasce l’idea di A piedi tra le nuvole: tutte le domeniche d’estate la strada viene chiusa all’altezza del Lago del Serrù e per raggiungere il Colle la scelta rimane tra scarpe o bicicletta. Per tutto il tempo che rimaniamo insieme Raffa non smette un attimo di sorridere e per inerzia viene da sorridere anche a me. Mi dà l’idea di una persona completamente innamorata del proprio mestiere, tanto semplice in apparenza quanto complicato nella pratica, spesso fatto di giorni passati nella solitudine e di lunghi spostamenti con zaini resi ancora più pesanti dalla sua corporatura minuta. Torniamo giù in paese e ci fermiamo a prendere un caffè. Sono in tanti a salutarla e a chiederle se è pronta per la gara: lei tituba un po’, sa che quest’anno, complice la concorrenza internazionale, sarà tutto più difficile, nonostante la perfetta conoscenza del percorso di gara, che passa proprio dall’adorato Gran Piano. Un’arma in più, però, è sicura di avercela: il tifo sfegatato degli amici che incontrerà lungo tutti i 55 chilometri.

Trail ed escursionismo

Il Parco Nazionale del Gran Paradiso offre panorami mozzafiato lungo tutti i suoi sentieri, così come una fauna talmente ricca che l’incontro con gli stambecchi è la regola, non l’eccezione. Il tracciato della Royal Ultra Skymarathon tocca pressoché tutti i punti più interessanti della Valle e offre numerosi spunti per singole escursioni giornaliere. Tra queste, alcune delle più belle e isolate sono il Colle dei Becchi dal Teleccio e il Casotto di Caccia del Gran Piano dalla frazione Balmarossa (Noasca), entrambe situate sotto la bastionata della parete sud-est del Gran Paradiso. I più avventurosi possono spingersi fino al Bivacco Ivrea, dove passare la notte, o magari fare un pensierino all’ascensione dell’unico 4.000 tutto italiano da un versante decisamente meno frequentato di quello valdostano. Dal Nivolet, invece, si può salire fino ai 3.338 metri su difficoltà a cavallo tra il trekking e l’alpinismo facile, oppure dirigersi verso il Colle della Terra e la vista sull’azzurrissimo Lago Lillet. Per chi volesse ricalcare le orme dei grandi skyrunner ma ha un’autonomia limitata c’è poi il tracciato della Roc Skyrace: il medesimo della Royal, salvo poi scendere su Ceresole all’altezza dell’Alpe Foges, per un totale di 31 km e 2.000 m D+.

Ciclismo

La salita ai 2.612 m del Colle del Nivolet è un’esperienza che tutti gli amanti delle ruote sottili dovrebbero fare, in Italia lo battono solo lo Stelvio, l’Agnello e il Gavia. Da Locana sono 40 chilometri e 2.000 metri D+, da Ceresole ‘solo’ 22 chilometri e 1.200 metri D+, con una pendenza media del 4,9% e punte del 15%. Ad inizio stagione può capitare di imbattersi in camosci e stambecchi. Se si decide di partire a valle della galleria, è consigliato munirsi di luci di segnalazione. In discesa, occhio ai rivoli d’acqua che si formano talvolta, numerosi motociclisti ne hanno già fatto le spese. È comunque sconsigliato partire prima di Locana, altrimenti al ritorno il vento contrario che sale dalla pianura darà il colpo alle gambe già tritate dalla salita, veramente interminabile. L’ascesa è consigliabile alla domenica, quando dal Lago del Serrù in su la strada è chiusa ai mezzi a motore a eccezione delle navette pubbliche. Un’altra salita da mettere in curriculum è quella infernale che da Rosone sale alla diga del Teleccio, con numeri da scalatori nati: 1.230 metri di dislivello in appena 12 chilometri, che si traducono in una pendenza media del 10%, con gli ultimi cinque chilometri di tornanti che non scendono mai sotto l’11%.

© Federico Ravassard

Arrampicare

L’arrampicata in Valle dell’Orco è quantomeno… particolare. Lo stile imposto dal granito, a base di fessure, incastri e placche può essere spiazzante per chi arriva dal mondo del calcare, così come il fatto di dover utilizzare protezioni mobili (friend e nut) visti i pochissimi itinerari attrezzati a spit. L’ideale, per i forestieri, è di acclimatarsi nelle due falesie spittate del Droide e della Pietra Filosofale, a poca distanza l’una dall’altra, e imparare i segreti dell’incastro cercando di scalare il mitico Masso Kosterlitz, sette metri a incastro di mano il cui grado (6b!) è molto, molto relativo. Ho visto amici finalisti in Coppa Italia tribolare parecchio per salirlo. Per chi fosse già pratico con lo stile trad, si può cominciare con le vie del Sergent, che offre di tutto, dalla placca, alle vie lunghe, a una miriade di monotiri di enorme bellezza. Poco più su, al fresco, si trova la falesia del Dado. E poi c’è il Caporal. Qui nacque il Nuovo Mattino e qui il mucchio selvaggio capitanato dai vari Motti, Grassi, Galante iniziò a importare in Italia l’idea di arrampicata nata su El Capitan, in Yosemite. Poco prima, a Noasca, le assolate pareti della Torre di Aimonin sono ideali per le mezze stagioni, così come quelle dello Scoglio di Mroz nel Piantonetto. Continuando verso l’alto, invece, si trovano i due simboli dell’arrampicata in quota nel Gran Paradiso: il Becco Meridionale delle Tribolazione e il Becco di Valsoera. Nel parallelo vallone di Noaschetta svetta invece l’impressionante parete del Monte Castello, con pochi e severi itinerari.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 113 di Skialper, info qui


C’era una volta il west

Monaco di Baviera, Ispo 2018. Ormai da qualche anno, se vai all’Ispo, vedi freeride ovunque. Non c’è marchio, non c’è padiglione in cui almeno una delle foto utilizzate negli stand non ritragga uno sciatore immerso nella polvere con un completo colorato addosso. Qua e là product manager impacciati che parlano di rocker e sci larghi a clienti che li ascoltano annuendo, ignorando il fatto che fino a ieri per loro lo sciatore di riferimento era Alberto Tomba, mica Shane McConkey. I più ribelli, al massimo, tifavano Bode Miller. Nei comprensori la scena non cambia molto: appena nevica spuntano sciatori che in settimana si fanno la barba ogni mattina prima di andare in ufficio e che nel weekend, da un paio di stagioni, girano a bordo pista con le braghe larghe e i twin tip rubati ai figli ululando steep and deep, ma alla fine le tracce che lasciano sono le stesse serpentine che si facevano già negli ’80. Tutti che fanno i freerider, ma pochi in fondo accetterebbero di esserlo per davvero. A tanti, invece, del destino del freeride frega poco o niente, il suo spirito può essere sacrificato in nome di qualche like sui social. SCKREEECH. Freniamo tutti un attimo, per favore. Consumatori, brand, addetti ai lavori, anche noi giornali. Intendo proprio tutti. Che se si continua così il freeride muore per davvero. Abbiamo perso la bussola, ci siamo dimenticati quali sono le cose che contano quando si va a sciare. Abbiamo cominciato a preoccuparci più degli abbinamenti tra gusci e pantaloni piuttosto che di come arrivare a quel pendio rimasto vergine dopo l’ultima nevicata. O a imparare a memoria le geometrie degli sci che usciranno fra cinque anni, scordandoci che quelli dell’anno scorso vanno ancora benissimo e un paio nuovo costa almeno quanto lo skipass stagionale di una qualunque località. Tranquilli, ci sono anche io tra di voi, ci si fa compagnia nello smarrimento causato dalle insidie del marketing e dall’ansia da follower su Instagram, che se alla domenica sera non si pubblica una foto di deep powder abbiamo sprecato il weekend e potevamo anche starcene a casa. A fine febbraio ho deciso di curarmi. La meta del mio rehab era una valle nell’Ovest, dove il freeride esiste da più di vent’anni e non è stato inventato ieri da un marketing manager di una multinazionale, dove lo sci libero non lo si pratica, lo si vive in tutti i suoi eccessi e i sacrifici che ti richiede. Dove tra l’essere e l’apparire si sceglie lo sciare, e se la neve è bella magari al lavoro ci si va un’altra volta, pazienza se il conto in banca a fine mese piange. Così sono andato a disintossicarmi a Gressoney da Zeo e i suoi amici, alla Baitella.

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The Baitella State of Mind

La storia della Baitella è legata strettamente a quella di Zeo, che a Ondro Lommato, la frazione nella quale si trova, ci arrivò nel 1994. All’epoca frequentatore dell’ambiente dei centri sociali, il milanese Zeo si innamorò del posto e assieme agli amici cominciò poco alla volta a trasformarla in una specie di casa comune, dove trascorrere l’inverno e ospitare chi passava di qua per sciare. È impossibile tenere la conta di chi ha soggiornato nel corso degli anni, magari risvegliandosi con la testa che rimbombava dopo una serata di bisboccia. La leggenda della Baitella si è accresciuta quando il proprietario, inconsapevolmente, si è ritrovato a ricoprire anche il ruolo di localdi riferimento dei rider stranieri che venivano a filmare ski movie sul Monte Rosa, innamorandosi a loro volta della Valle del Lys. Appena dopo la porta di ingresso c’è un muro sul quale gli ospiti lasciano una dedica, seria quanto basta. In alto a destra ci sono quelle di Chris Bentchetler, di Sean e Callum Pettit (ski you later, ha scritto), quella di Eric Pollard che ha anche disegnato uno dei suoi alberi, gli stessi presenti sulle serigrafie dei Line Skis, quando era stato qui per alcune scene di After the Sky Fall. E poi ci sono quelle della troupe di DPS, che qui ha filmato il cortometraggio Reverie in condizioni nevose da antologia. Gli amici italiani, poco più in là sullo stucco bianco, gli hanno detto ciano firmandosi come Riders de noartri. La Baitella è stata per me il posto giusto da cui ricominciare la disintossicazione. Se dovessi pensare a quali sono i valori del freeride, ammesso che li si possa definire tali, beh, tanti di questi li ritrovo in Zeo. La condivisione, prima di tutto: condividere con qualcuno le proprie idee e i propri luoghi. Portare i nuovi amici nei propri secret spot, sperando che poi l’ubicazione di questi ultimi venga divulgata solo ai più meritevoli (a proposito: in questo reportage non troverete i nomi delle discese fotografate, sarebbe troppo facile leggerle su un giornale e andare a ripeterle dopo una nevicata. Mi spiace, ma i local mi hanno detto che sanno dove abita la mia famiglia…). Ma anche la consapevolezza dell’ambiente che ci circonda, l’essere consci che le Alpi non sono messe bene, e che tutti dovremmo impegnarci un pochetto per preservarle. Perlomeno per permettere ai nostri figli di provare l’ebbrezza della powder nei boschi sotto i 2.000 metri, ecco. E, soprattutto, l’essere presi bene. Che è una forma più forte dell’essere entusiasti, senza sfociare tuttavia nell’essere ossessionati. Essere presi bene significa fare l’ultima pellata partendo alle cinque del pomeriggio, per il semplice godere della luce e della neve, e non perché bisogna accumulare dislivello a tutti i costi. E poi magari, i giorni in cui fa brutto, starsene a poltrire a casa senza sentirsi in colpa, lasciando gli ossessionati a perdersi nella nebbia al posto nostro. Ho poi conosciuto l’ecosistema di Gressoney del quale Zeo fa parte: una tribùeterogenea di indigeni della Valle del Lys della quale fanno parte Maestri, Guide, aspiranti Guide, fotografi di montagna, ma anche amatori che nella vita fanno tutt’altro. Età indefinita, dai venti agli over sessanta. Se li vedi da fuori non lo diresti neanche che passano le giornate a sciare insieme: qualcuno gira con padelloni da 120 millimetri sotto il piede, altri con degli assi che avranno sì e no quindici anni e oggi andrebbero bene per le gare. Abbigliamento, idem: si va da un estremo all’altro, dal tutone alla tutina. Ad accomunarli, però, sono le scelte che hanno fatto per arrivare fin qui, tutte mirate al poter trascorrere il maggior tempo possibile in montagna, rinunciando magari ai lussi di una vita e di un lavoro normali in cambio del potersi svegliare col Monte Rosa fuori dalla finestra. Era qui che volevo arrivare: il freeride non è una pratica e nemmeno un modo di vestirsi o di sciare. Il freeride è un percorso di vita.

Weissmatten

Spesso trascurata a favore degli impianti di Gressoney La Trinité, quest’area dispone di una sola seggiovia biposto e, apparentemente. di pochi pendii accessibili dalla cima. Ma basta aver voglia di mettere le pelli anche solo per pochi minuti che si sblocca un mondo fatto di ripidi lariceti, riparati dalla folla che gira a Punta Jolanda, decisamente più frequentata. Prima regola del freeride, cercare sempre il pendio vergine, giusto?

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Il trasformista Andrea Gallo

Climber, fotografo, pioniere giornalista, sciatore-autore, videomaker della scena rap italiana: Andrea Gallo è stato ed è tutto questo. Negli anni ’80 Andrea fu uno dei più forti arrampicatori italiani, autore delle prime salite di pietre miliari del freeclimbing sparse tra Piemonte e Liguria. Basti pensare che la sua Hyaena, gradata solo8b+, fa notizia ancora adesso quando viene ripetuta. Fu poi uno dei primi a credere nel paradiso outdoor di Finale Ligure, contribuendo attivamente al suo sviluppo e aprendo il primo negozio di attrezzatura da montagna in quella che era una cittadina della riviera ligure. Poi tornò su nelle montagne di casa, a Gressoney, dove partecipò alla stesura della prima guida di freeride della zona, Polvere Rosa. Come il serpente dell’Eden, Andrea continuò a tentare il resto del mondo rompendo gli schemi. Intramontabile lo speciale Freeriderc he curò per la rivista Alp nel 1999, dove scrisse delle attività libere dagli schemi che in futuro sarebbero state catalizzatrici dello stantio mondo della montagna: in quel numero si parlava di bouldering, di skibum a Chamonix, di drytooling e, ovviamente, di Gressoney.

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Una Malfatta ben fatta

Il Vallone della Malfatta è una delle discese più conosciute che da Punta Indren scendono sul lato valsesiano del Monte Rosa. Solitamente vi si accede tramite un canale che richiede una calata, o perlomeno di essere disarrampicato. Solitamente. Con Zeo e il Camicia l’abbiamo sciato in tutto il suo splendore, accedendoci sci ai piedi e lasciando le nostre firme nello zucchero, in una giornata in cui il cielo era quello che gli americani - che hanno un neologismo cool per qualsiasi cosa - definirebbero bluebird. Discese classiche come questa in queste condizioni richiedono essenzialmente un requisito: essere lì, in settimana, dopo una nevicata e alla prima funivia… tutto il resto sono chiacchiere da bar.

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Il Circo Barnum al Lago del Labiet

Più si è, meglio è. Un giorno ci siamo ritrovati a pellare dalla diga del Labiet in undici, in una bolgia colorata con poche idee in testa ma molto chiare: trovare abbastanza pendii immacolati per tutti. In testa il solitario Camicia, che non solo voleva battere tutta la traccia da solo, ma respingeva anche chi si offriva di dare il cambio a questo intagliatore che un giorno, da solo e per sfizio, aveva pellato per 5.100 metri di dislivello. Dietro, a seguire, il carrozzone del Circo Barnum: il più giovane era il ventunenne rasta Mattia, che per l’occasione aveva un paio di Dynafit al posto dei twin-tip da park; il più, ehm, saggio era Paolo, ormai in pensione. Gente che aveva fatto il Mezzalama mischiata ad altri che in salita facevano le pause a suon di sigarette e vin brulé, mischiata ad altri ancora che le pause non le facevano proprio perché erano i giorni di Burian e la temperatura a dir poco tonica. Chiedetelo a Zeo, che si è dovuto far prestare un phon al bar per scaldare le pelli ghiacciate.

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Sciare la luce

È successo anche di partire per l’ultima pellata all’ora in cui il sole stava per scomparire, salendo con il filo dell’ombra che seguiva poco più a valle. Faceva così freddo che i cristalli di neve non si legavano l’uno all’altro, ma rimanevano lì, sospesi nell’aria a luccicare come polvere d’oro. Davanti a me a battere la traccia c’erano il Camicia e i fratelli Thedy, dietro Zeo e Mattia. Con me era rimasto Francio, che saliva con calma trascinandosi dietro scarponi da pista e sci da 124 mm al centro. Abbiamo spellato proprio mentre il sole stava calando, il primo a danzare nella luce è stato il Camicia, mentre Francio si gustava una sigaretta rollata a meno venti.

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