Andrea è ligure, di Genova, classe 1970. Il belin che usa a volte come intercalare non lascia dubbi. L’ho conosciuto intorno al 2005-2006, in una diquelle discese/scambio interculturale che organizzava Federico Negri cavalcando la rinata onda emotiva dello sci ripido di quegli anni. E sia chiaro: detesto chiamarlo sci-ripido, ma serve a capire. Mi disse che quel sabato avremmo incontrato Andrea Schenone, personaggio di cui avevo appreso sulla bibbia di Igor Napoli e che ricordavo distintamente per una foto che lo ritraeva tumulato sotto una pila di coperte in un bivacco la sera antecedente la prima discesa della parete Sud del Monviso, diventata poi una classica di questo tipo di sci. Ma allora erano altri tempi e forse si stava meglio. Federico mi parlò di Andrea come di uno sciatore eccezionale, un esploratore, un solitario. Ero curioso e la conoscenza non deluse l’attesa: poche volte avevo visto sciare qualcuno così su terreno ripido. La postura, la compostezza: quell’angolo perfetto che manteneva con le ginocchia piegate e unite durante le curve senza mai scomporsi, ai tempi l’avevo solo visto su Youtube al minuto 1:31 del video della discesa del Col de La Verte di Tim Dobbins; sì, forse sono un seriale!

«Scio da sempre, a sedici anni ho scoperto lo skialp e dopo poco ho iniziato ad avventurarmi su discese sempre più impegnative. Terreno di gioco prediletto: dalle Alpi Liguri al Monviso. Un crescendo di discese a cavallo del secolo, in un periodo di pausa dai grandi exploit, specie in Italia, cosa che spesso mi consentiva di essere da solo; non come adesso che se una discesa viene recensita sui social il giorno dopo ci sono venti persone. Io e Mario (Monaco, ndr) siamo stati fortunati a vivere quegli anni. Non ho mai cercato la ribalta, mi è sempre piaciuto sciare nei massicci minori: il Monte Bianco per uno che si muoveva da solo non era l’ideale. Sono sempre stato attirato dalla bellezza delle linee. Mi ritengo molto tradizionalista, ho cercato di essere coerente con ciò in cui credevo: non mi piace il tutto e subito, la competizione e la globalizzazione che i social inevitabilmente creano. Non ho nessun account, non mandarmi messaggi Whatsapp, non ho neppure una mail. Userò quella di mia moglie per mandarti le foto. Son sincero, ho patito questo cambiamento: avvertivo forse una mancanza di rispetto verso la montagna e l’approccio in cui credevo, perciò ho rallentato la mia attività. Non smetterò mai di sciare, ma, come avevo immaginato anni fa, sto regredendo, sono tornato a fare le cose degli inizi. Penso che sianaturale per me. E poi sono un bastian contrario, per esempio ora nei canali sto usando sci da park, da rampa da un chilo e otto, ma sono solo io, mitrovo bene, non riesco a capire quelli che usano gli scietti leggeri».

Andrea in Piemonte e non solo ha sciato una miriade di linee senza mai dire praticamente nulla. Con stile radicale e silenzioso. Qualche anno fa, parlando di altro, ho scoperto che la ormai classica discesa del Bonsai al Monte Labiez, sul Gran San Bernardo, l’aveva percorsa lui sul finire degli anni ’90. Nel corso della nostra ultima telefonata, parlando di Valle dell’Orco, posto caro a entrambi, mi ha confessato di avere già sciato anche la Nord-Est della Levanna Orientale. E io che credevo di essere stato il primo… Volate basso lì fuori, facciamo poco gli splendidi, Skeno non lasciava tracce e nel dubbio scendeva su neve dura. Samurai!

Questo ritratto è stato pubblicato all’interno dell’articolo Sei personaggi sotto traccia su Skialper 128 di febbraio 2020. Info qui.