L’alpinismo è empatia. Una nuova modalità per esercitare dell’arte di scalare le montagne viene testimoniata da Alex Txikon, l’alpinista basco che il 6 gennaio scorso (“il migliore regalo che abbia potuto ricevere dai re Magi”) ha portato a termine la salita invernale del Manaslu (8163 m). Appena rientrato in Europa, Txikon ha descritto questa e altre sue salite nel corso di un’affollatissima serata organizzata presso il negozio di Brescia di DF Sport Specialist assieme a Ferrino, partner fondamentale dello scalatore, nel corso della quale si è potuto ascoltare per la prima volta in assoluto il racconto della prima ascensione realizzata completamente in inverno dell’ottava montagna più alta della terra.   

Txikon (classe 1981) ama la montagna e ama gli uomini. Per questo descrive il fattore umano che si delinea nel supportarsi vicendevolmente nel tentativo di realizzare difficili salite in alta quota come un elemento di valore assoluto dell’esperienza alpinistica. Le modalità che ha scelto per trascorrere i giorni e le settimane immediatamente successive al raggiungimento della vetta testimoniano questa visione: prima attraverso il suo impegno nel tentativo di riportare in basso il corpo di un alpinista deceduto, poi sostenendo i lavori di installazione di due impianti fotovoltaici al servizio di una scuola nepalese. 

Essere grandi alpinisti chiama alla responsabilità di essere anche grandi uomini, sostiene Txikon, che ha condiviso tutte le fatiche e i pericoli della spedizione che l’ha portato sulla vetta del Manaslu assieme a Pasang Nurbu Sherpa, Chhapel Sherpa, Gelu Sherpa, Maila Sherpa, Mantere Lama Sherpa e Gamje Babu Sherpa. Racconta Alex: «I nepalesi sono persone meravigliose: umili, amabili, affabili, sempre con il sorriso. Senza di loro non sarebbe possibile compiere spedizioni in Himalaya. Il lavoro di quadra è stato fondamentale anche in questa spedizione: ognuno deve remare nella stessa direzione in cui remano gli altri».


Txikon è uno degli scalatori contemporanei più preparati e vanta un curriculum alpinistico di rilievo: vie nuove in Himalaya e undici dei quattordici ottomila saliti, tra i quali la prima invernale assoluta del Nanga Parbat nel 2016 in cordata con Simone Moro e Alì Sadpara, oltre a spedizioni in Antartide, Groenlandia e altre cime di altezza compresa tra i 5000 e i 6000 metri. Ma non c’è la minima traccia di superomismo nelle sue parole, e anche questo atteggiamento ha contribuito a creare feeling con il pubblico presente: «Non mi metto mai in competizione con nessuno né devo dimostrare niente. In quello che faccio voglio solo crescere come persona, e questa è l’unica pressione che mi sento addosso. Non mi interessa essere riconosciuto, ma poter condividere e dare agli altri. La conquista reale è rappresentata dall’empatia e dalla condivisione. Il peggiore nemico di un alpinista sono il suo ego e la sua ambizione».

Cosa ti spinge ad affrontare le grande cime himalayane nella stagione più severa? 

«L’inverno mi regala maggiori soddisfazioni perché quando aumentano le difficoltà si mostra la versione più vera della montagna. La bellezza si rivela soprattutto in questa stagione».

E’ anche quella più difficile e più pericolosa… 

«L’alpinismo invernale richiede una pianificazione attenta, anche in relazione ai cambiamenti climatici che stanno investendo direttamente gli ambienti di alta quota. Ho avuto l’opportunità di confrontarmi con Reinhold Messner: alcuni decenni addietro gli inverni erano caratterizzati da condizioni severe che si manifestavano una certa regolarità. Negli ultimi anni invece c’è molta più variabilità, anche nelle precipitazioni nevose. I jet streams rappresentano un’incognita totale, e sul Manaslu abbiamo riscontrato raffiche di vento a 147 chilometri orari. La montagna non parla ma tu devi essere in grado di capire cosa vuole dirti. Ho imparato molto dal mio amico Simone Moro che in questo ambito ritengo la persona strategicamente più esperta a livello mondiale. Un piano di salita sviluppato bene ti regala da solo il 40 per cento delle possibilità di successo». 

Le novità più importanti dall’alpinismo in Himalaya nei prossimi anni arriveranno dalle salite invernali? 

«Credo che questa sia solo una delle tante strade praticabili. A ciascuno la sua. Il periodo d’oro dell’himalaysmo per me è finito, ed è stato quello compreso tra il 2004 e il 2013, che ha visto protagonisti tra gli altri Silvio Mondinelli, Mario Panzeri e Mario Merelli».

Proseguirai nel tentativo di raggiungere i tre ottomila che ti mancano? 

«No, non sono proprio interessato a salirli tuttiCi sono già almeno un centinaio di persone che hanno completato questa collezione. Non è che per me non sia importante, ma preferisco fare qualcosa di nuovo piuttosto che ripetere la salita di una vetta, magari in primavera, come componente di una grande spedizione. Se qualcuno ha questo tipo di motivazione non è assolutamente un problema per me, e non muovo critiche verso di loro. Ognuno può fare quello che vuole, ma io non sono più interessato».

Hai fissato qualche obiettivo futuro? 

«Mi piacerebbe tornare sulla parete nord del Kangchenjunga e sul Makalu in stile alpino».

La passione per le vette può svilupparsi in numerose forme oltre a quella dell’alpinismo estremo. Quali consigli daresti a chi si avvicina alla montagna per la prima volta? 

«Divertitevi e basta! È questo il mio suggerimento, andate con i vostri migliori amici, andate nella natura, scoprite voi stessi attraverso quello che vi aspetta là fuori. Fatelo solo per voi stessi, non per gli altri».

di Ruggero Bontempi