Tre mesi nell’inverno australe di El Chaltén, in Patagonia, per chiamare casa una delle più piccole ed eclettiche comunità sciistiche del mondo
Testo e foto Matthew Tufts
L’ennesima buca mi aveva sballottato violentemente, con il risultato di ritrovarmi con la lingua ustionata dall’infuso di matè e di farne schizzare un po’ sulle maniche della mia giacca Gore-Tex. Ero seduto sul retro di una vecchia Toyota Hilux tra una mezza dozzina di sci e un cane che sembrava molto meno ansioso di me. La nostra crew si passava un infuso di caffeina, sgranando gli occhi fuori dai finestrini annebbiati alla ricerca delle guglie di granito color ceruleo sopra la strada innevata del Lago Del Desierto, con i Blink 182 e i Twenty One Pilots come colonna sonora.Ero abbastanza nervoso da sembrare un gringo imbranato nel mio primo giorno di sci a Sud dell’Equatore: si trova a El Chaltén, nel cuore della Patagonia Meridionale, con tre Guide IFMGA argentine con un lungo palmarès di record di arrampicata, trail-running e sci alpinismo fast & light. Di solito sono un compagno di escursione veloce ed efficiente; quella volta, invece, avevo troppa attrezzatura fotografica, poca acqua e un vocabolario spagnolo molto basico, nonostante il pesante accento locale.Per fortuna i miei compagni non facevano parte di un tribunale che doveva giudicare e mi avevano già insegnato le parole per esprimere i concetti di polvere crosta. Così non ci hanno messo molto a rimproverarmi per aver spostato la cannuccia nell’infuso di matè. La curva di apprendimento da queste parti è ripida e veloce. L’efficienza conta nelle Ande.Questo non mi ha impedito di scottarmi di nuovo la lingua, imprecare e rimettere il contenitore dell’infuso al suo posto mentre la Hilux affronta una curva a gomito in due tempi, suscitando l’ilarità dei miei compagni d’avventura. L’alba si avvicinava.Erano quasi le dieci del mattino. L’inizio di luglio è uno dei periodi più tranquilli e bui dell’anno a El Chaltén. Gli affollati mesi estivi sono un lontano ricordo e gli inverni freddi e tempestosi della Patagonia meridionale, anno dopo anno, hanno fatto da humus per un’improbabile cultura dello sci tra le guglie di granito e l’arida steppa. Una cultura forgiata dal clima spietato della regione e dalla topografia, sfidando gli standard dell’industria dello sci e plasmando gli sciatori a partire da un improvvisato gruppo di semplici locali con diverse storie di montagna alle spalle. In effetti si tratta di una community così poco conosciuta. che molti dei non sciatori di El Chaltén sanno a malapena che esiste.
L’inverno, al contrario, è troppo tranquillo in questo paese a quasi 1.400chilometri a Sud di Bariloche, una delle destinazioni sciistiche più famose dell’America Meridionale. L’assenza di turisti e lavoratori stagionali, ai quali si aggiungono molti locali che approfittano delle vacanze scolastiche, può portare la popolazione di luglio a poco più di 500 persone. Tutte le attività commerciali essenziali – un negozio di alimentari, una farmacia, alcuni ristoranti, un paio di ostelli, un solo bar e una palestra di bouldering – chiudono i battenti.Quelle poche che rimangono aperte ,lo fanno con orario ridotto.La palestra di arrampicata indoor del Centro Andino può sembrare un’eccezione alla breve lista di stabilimenti essenziali fuori stagione, ma per la gente di montagna di El Chaltén, El Muro è il punto d’incontro tra il mondo dell’arrampicata e quello dello sci. Ed è il miglior posto per trovare un compagno per partire alla scoperta delle montagne con la neve.
La Escoba de Dios, il famigerato vento dell’Ovest, sferzava le giunture della porta della palestra facendo stridere talmente tanto da scambiare quel suono per il lamento dei cani randagi della città.All’interno il vento si mischiava a una sinfonia di racchette da ping pong, grida di arrampicatori e una miscela eclettica di hip-hop, reggae funky ed elettronica.Dopo aver fatto il consueto giro di saluti con alcuni degli sciatori che avevo conosciuto in città, mi sono fermato a parlare con Tomás Roy Aguiló, alto e forte scalatore, oltre che Guida locale. Trentasei Ore dopo mi sono unito a lui e ai suoi amici e soci in affari Juan PipaRelli eRobertoIndio Treu e a un vivace pastore australiano che si chiama come me, Mateo. La comunità sciistica è piccola a El Chaltén – forse 30 persone o anche meno – ma l’atmosfera è sempre accogliente quando un forestiero arriva da queste parti a farsi frustare dai ventiinvernali. Il cielo perfetto e il vento quasi inesistente del mio primo giorno vicino al Lago del Desierto hanno cancellato tutti i preconcetti sul clima variabile e inospitale della Patagonia in inverno.La polvere scivolava via leggera e fredda come nel Kootenay, in British Columbia, e i pendii erano più ampi di quelli del Rogers Pass alla High Sierra. Abbiamo Finito la giornata con diversi giri dei ghiacciai sui fianchi del Cerro Crestón, un luogo popolare per il suo approccio facile. Ho imparato che quel facile in realtà significa un’ora di portage nella foresta, su pendenze importanti, prima di raggiungere la linea della neve e mettere sci e pelli. Proprio quando avevo iniziato a immaginare discese infinite nella powder, ecco l’uscita con pathos, che mi ha riportato nel presente più duramente di qualsiasi buca lungo la strada.Al cambio d’assetto ho passato le dita sulla soletta degli sci leggermente scheggiata mentre guardavo le nostre tracce sulla montagna. La Patagonia non finisce mai di umiliarti.
Sono dovute passare diverse settimane, molti matè e più di un paio di giri in mezzo agli squali in attesa del giusto mix di neve e meteo per fare la nostra prima escursione nel Parco NazionaleLos Glaciares, puntando alla Laguna De los Tres e al Cerro Madsen, all’ombra del massiccio del Fitz Roy. Nonostante L’accesso diretto dal paese, da dove partono i sentieri, il parco è molto poco frequentato dagli scialpinisti. La linea della neve qui è alta e richiede di entrare in profondità nell’area protetta. Lo scotto da pagare sono diverse ore in più, se non molte di più, di portage rispetto alla media delle gite di un’ora dal Lago del Desierto. Eppure il terreno è incomparabile.Nel silenzio assordante di un sentiero che in estate si trasforma in una lunga fila di escursionisti, ci siamo fermati per bere un goccio d’acqua dove la pendenza lasciava spazio a una specie di altipiano ,guardando i primi raggi del sole che salivano a illuminare la cresta dietro di noi e le torri di roccia a Ovest. Il mio sguardo è stato subito catturato da un impressionante canalone che divide le cime gemelle del Techado Negro, forse la linea più evidente della catena. Gli occhi di Raselli si sono illuminati e si è messo a sorridere, sussurrandomi che era una grande sciata con una vista spettacolare del Fitz Roy. È stato zitto per un attimo, quasi a immaginare qualcosa, e ha aggiunto che aveva fatto la prima discesa diversi anni prima. I miei occhi non devono avere celato una certa sorpresa a sentire quelle ultime parole se il suo viso si è corrucciato in un sottile ghigno e ha scrollato le spalle.«Ci sono quasi solo prime discese qui» mi ha detto con naturalezza «la maggior parte della gente, semplicemente non esce in inverno». È un controsenso per una delle capitali dell’alpinismo moderno che siano solo una manciata di sciatori ad avere messo la loro firma sulle prime discese.Le ultime stagioni hanno partorito un certo numero di linee audaci a opera di gente come Raselli, Aguiló e Julian Casanova, un freeskier e Guida di Bariloche, ma senza nessuna frenesia.Prima della fine degli anni Novanta gli sci venivano utilizzati solo per i lunghi avvicinamenti ai ghiacciai che permettono di raggiungere le pareti di roccia.Il vento ha iniziato a cambiare quando una Guida argentina con radici a Bariloche e Crested Butte, in Colorado, si è stabilita in paese nell’inverno del 1997.Max Odell è, a tutti gli effetti, il padre dello sci a El Chaltén. Local da più di 20 anni, le sue prime stagioni in Patagonia Meridionale sono sempre state al buio e in solitaria. Non esiste nulla: nessun bollettino delle valanghe, men che meno compagni di avventura. Le sue bizzarrie invernali ne hanno fatto un outsider nella comunità montana al ritmo di tante prime discese solitarie su vette che sarebbero considerate classiche in una località sciistica più rinomata.Far crescere la popolarità dello scialpinismo in un villaggio sonnolento e con avvicinamenti che non perdonano è stato un compito non facile e veloce da portare a termine, ma che Odell ha accettato con entusiasmo
Nei primi anni Duemila aveva già qualche seguace e nel corso della successiva dozzina di anni è nata una piccola ed eclettica comunità di sciatori che ha disegnato con regolarità, stagione dopo stagione, i propri otto sulle radure più dolci intorno al Lago del Desierto. Però se chiedi a uno scialpinista di El Chaltén chi ha portato lo sci da queste parti, non ce ne sarà uno che non ti farà il nome di Odell.Ancora oggi Odell probabilmente accumula il maggior numero di giorni di sci all’anno a El Chaltén: una manciata di escursioni guidate e un numero significativamente maggiore di uscite per il puro piacere, spesso accompagnato dai figli:Pedro, 16 anni, e Tomás, 14 anni. I ragazzi hanno imparato a sciare a El Chaltén, scivolando giù per la collina in paese dove ora hanno costruito un hotel, oppure nei boschi sotto la Valle del Mosquito risalendo con la manovia che Odell ha costruito più di dieci anni fa.Rimane il fatto che lo sci a El Chaltén non è un’attività così immediata e naturale, nel migliore dei casi. Se le statistiche sulle precipitazioni nevose annuali nel villaggio non sono affidabili, è comunque sempre più raro che una nevicata significativa sopra i tetti delle case e soprattutto che la neve rimanga al suolo per un po’ di tempo. I pendii più bassi e boscosi non sono quasi mai innevati, limitando di fatto lo sci alla quota, e il cambiamento climatico è evidente nella ritirata dei ghiacciai Torre e Piedras Blancas.«Eravamo abituati ad avere sempre questa quantità in città almeno una volta all’anno e durava due o tre settimane»mi ha detto Odell, tenendo le mani a un piede e mezzo di distanza. «Ho notato che ogni anno devi camminare più lontano e salire più in alto per raggiungere la neve».Un fenomeno pericoloso per l’equilibrio già precario della piccola comunità sciistica locale. Di solito le grandi discese in quota e i circhi glaciali corrugati da crepacci e ricchi di accumuli da vento e cornici sono il terreno degli scialpinisti esperti, mentre i principianti rimangono in basso, ma la mancanza di neve al sotto della linea del bosco spinge tutti gli sciatori sempre più in alto, rendendo il gioco pericoloso. Eppure quello che sembra un punto di non ritorno è già un atout. Al di là delle linee sorprendenti e del potenziale infinito in chiave scialpinistica, è la comunità che rende unico lo scià El Chaltén. «Non c’è nessun posto come qui» mi ha detto Odell mentre caricavamo gli sci e preparava lo zaino sul suo van sulle rive del Río Eléctrico. «La maggior parte di queste persone ha imparato a sciare qui, nel backcountry. L’altro giorno sono uscito con Chiaro, il mio ultimo discepolo. Se posso insegnare a ognuno di loro a sciare, allora avrò sempre più compagni per le mie escursioni».L’iniziazione di Chiro allo scialpinismo è stata simile a quella di molti altri sciatori di El Chaltén: alpinisti senza esperienza di sci, desiderosi di trovare uno sbocco invernale, che hanno seguito le orme di Odell. La formula ha fatto nascere una comunità di sciatori locali da un assortimento di scalatori, alpinisti ed escursionisti. Per molti di noi l’idea di addentrarsi nella natura selvaggia per sciare una parete ripida senza una più che buona tecnica sciistica sembra una pazzia.Ma ciò che rende possibile l’evoluzione sciistica di El Chaltén è una tecnica plasmata da quella stessa montagna spietata. «Gli scialpinisti locali hanno una conoscenza diversa della montagna perché sono stati sulle pareti» mi ha detto Santi Guzman un pomeriggio. Guzman è il proprietario di Fresco, l’unico bar in città che è aperto durante i mesi invernali.È anche un ambassador di DPS e Outdoor Research, oltre che allenatore della squadra nazionale argentina di freeski. E probabilmente quello che più si avvicina al concetto di celebrità dello sci a El Chaltén. «Sanno come usare una corda, un’imbracatura – continua – sanno come tirarsi fuori dai pericoli, sono in forma, tutte queste abilità ne fanno dei validi scialpinisti nella montagna aperta, più di quanto mi sia trovato a mio agio io, sciatore da località sciistica, alle mie prime esperienze nella wilderness».
Guzman è cresciuto affinando la sua tecnica sulle piste addomesticate di Bariloche, dove era sempre nella zona di comfort. Gli sciatori di El Chaltén, invece, sanno come uscire da quella zona di comfort. La stragrande maggioranza di loro non sta andando a mettersi nei guai in canali dove non è possibile sbagliare,anche se si tratta di un terreno su cui si troverebbero meglio senza sci. La maggior parte di loro è solo alla ricerca di un altro modo per affrontare le montagne.A differenza dei mesi estivi, quando gli anfiteatri del Fitz Roy e della Torre Possono sembrare colossei riservati ai gladiatori più talentuosi dell’alpinismo, la comunità sciistica qui rimane umile.«In Argentina lo sci è uno sport d’élite, è costoso» mi ha detto Laura Iriarte, un’insegnante di inglese alla scuola superiore locale. Portare la famiglia a sciare per soli due giorni nelle località vicino a Bariloche costerebbe più di un mese di stipendio. «Qui a El Chaltén Non è così, chiunque può sciare e trovare sci usati da farsi prestare per provare.È l’unico posto così in Argentina.Lo scialpinismo è gratis». Laura è cresciuta vicino a Buenos Aires, figlia di un falegname e di un’insegnante.È venuta a El Chaltén, ha sposato una Guida escursionistica, Pedro Fina, e ha imparato a sciare negli ultimi dodici anni.Ci tiene a chiarire che, a parte alcune grandi discese aperte da stranieri, come la linea di Andreas Fransson sulla Whillans al Aguja Poincenot nel 2012, ciò che differenzia la cultura invernale di El Chaltén è il pot-pourri di sciatori di tutte le classi sociali e disponibilità economiche. Non a caso più della metà di loro ha imparato senza mai mettere piede su una funivia o una seggiovia.«È una comunità super piccola, c’è davvero una bella empatia tra tutti»mi ha detto Guzman. «È più difficile imparare, ma sta succedendo. E se ora si inizia a sciare a 30 anni, ci sarà una prossima generazione quando i figli metteranno le pelli e il livello non potrà che salire».Nonostante sia riuscito a fare una gita con quasi tutti gli sciatori della zona, il meteo in Patagonia è incredibilmente variabile e ho trascorso gran parte dei miei tre mesi in paese in compagnia di molti locali che non hanno mai sciato. Alcuni proprietari di attività commerciali chiudono a malincuore il negozio in inverno. Altri Usano felicemente il flusso e riflusso del turismo per chiudere le loro porte e distinguere il lavoro dal tempo libero.Merlin Lipschitz fa la Guida a El Chaltén da più di 20 anni, inizialmente andando avanti e indietro da Bariloche prima di mettere su casa qui nel 2003. Ha iniziato a sciare a El Chaltén seriamente intorno al 2005 e ha portato i primi clienti sulla neve un lustro dopo. A distanza di altri dieci anni ha registrato un leggero aumento del turismo invernale, ma nulla a che vedere con la crescita del lavoro estivo nello stesso arco di tempo. La società di Guide Di Lipschitz può arrivare fino a 50 clienti al giorno in alta stagione, impiegando anche cinque Guide aggiuntive. In inverno Lipshitz opera da solo e lavora con al massimo 15 sciatori a stagione. «L’unica Cosa negativa della Patagonia è che l’inverno è così breve» mi ha detto una volta mentre toglieva le pelli sopra il ghiacciaio del Cerro Crestón. Nonostante la stagione corta, potrebbe probabilmente avere qualche cliente in più, però a lui va bene così.
«L’inverno è il mio periodo: i ritmi rallentano, sciamo con gli amici, facciamo asados, stiamo a casa con la famiglia.Lavoriamo duramente in estate per prenderci un po’ di tempo per noi in inverno». Dietro alle sue parole si cela quello stato di agitazione e di stress tangibile a El Chaltén quando arriva la primavera australe e i residenti si preparano per l’alta stagione. Ma è anche un momento di ottimismo perché la maggior parte della gente del posto preferisce l’intensità dell’estate, quando il business è al massimo. È la quintessenza del turismo mordi e fuggi stagionale:il modello funziona per una parte della popolazione, ma alcuni preferirebbero un po’ più di stabilità.Per decenni il Parco Nazionale Los Glaciares E le cime intorno a El Chaltén hanno attratto gli alpinisti, però prima del nuovo millennio il turismo non era ancora classificabile come di massa in un paese isolato e con pochi o nessun servizio. Tutto è cambiato nel 2000 quando a El Calafate, la grande città di 7.000 abitanti a Sud di El Chaltén, hanno inaugurato un aeroporto con voli regolari su Buenos Aires. L’anno seguente la svalutazione del Peso argentino ha fatto da detonatore per il turismo internazionale verso la Patagonia meridionale.La strada per El Chaltén è asfaltata dal 2006 e i turisti non si sono fatti attendere,t rasformandolo nella capitale mondiale del trekking nel giro di un decennio.È difficile prevedere quando e se arriverà la prossima trasformazione di El Chaltén.È la città più giovane dell’Argentina, nata ufficialmente nel 1985. Per molti aspetti è ancora nella sua adolescenza.C’è poca preoccupazione (o eccitazione)che lo sci possa esplodere in inverno nello stesso modo in cui è avvenuto per l’escursionismo nei mesi estivi. Le Guide Locali si sono impegnate per sviluppare il turismo scialpinistico, dalla promozione sui social media alla costruzione di un rifugio a basso impatto ambientale sotto il Cerro Crestón (il primo per uso specifico invernale nella Patagonia meridionale).Però è ancora un mercato di nicchia.Il boom estivo si gonfia anno dopo anno ma, in inverno, El Chaltén rimane com’è sempre stato, o quasi.
Il tempo gioca a uno strano gioco in Patagonia. Passano giorni e poi settimane all’insegna della tempesta. Questo, tuttavia, dà alla cultura montana argentina la possibilità di fiorire, celebrando la vita all’ombra di un anfiteatro alpino, banchettando con asados sognando obiettivi futuri. Entrambi sono cotti a fuoco lento e marinati con la pazienza che solo la Patagonia può infondere. L’esperienza è innaffiata da un buon Malbec e dal fischio del vento, guarnita con un’alzata di spalle verso le opportunità mancate, deluse da tempeste furiose. L’attesa fa fermentare le finestre meteorologiche in qualcosa di ancora più dolce. Le previsioni a lungo termine sono una chimera nei Roaring Forties(i venti ruggenti oltre il 40° parallelo), ma arriva un margine di circa tre giorni in cui la fiducia nel meteo aumenta. Senza una superficie terrestre per cambiare il corsodi una tempesta o di un sistema di alta pressione che si stacca dal mare, l’arrivo della finestra giusta diventa imminente. Dopo settimane di attesa, Merlin e io eravamo finalmente accampati al De Agostini, alla base della Valle del Torre. Il nostro primo giorno in quota si era rivelato tutt’altro che perfetto, perché l’ultima inversione aveva svelato un canalone a prova di proiettile da tanto la neve era dura sotto le nostre solette. Una discesa da fare rizzare ogni singolo capello, senza margine d’errore e di caduta fino al lago ghiacciato. Forse è questo il motivo per cui così pochi sciano sulle cime più alte. Dopo una lunga e pesante camminata nel buio fino alle tende, la neve cadeva leggera mentre ci infiliamo nei sacchi a pelo umidi.Per un attimo ho colpevolmente sperato che la tempesta continuasse, che il cielo non si aprisse e che potessero spingere la cima nell’etere ambiguo di un proposito futuro.Ci siamo svegliati alle cinque: una spolverata di neve e nuvole in tutte le direzioni ci hanno spedito nei nostri sacchi a pelo un po’ più a lungo. La sveglia delle sei è arrivata veloce a svelare un cielo sereno.«È perfetto, dobbiamo andare ora» ha mormorato Merlin, sorpreso quanto me. Ci siamo dati da fare per far bollire l’acqua e spingere a forza le ghette negli scarponi congelati.Appesi alla fune tirolese nell’immobilità del mattino pre-alba, il mormorio del fiume sotto di noi sembrava zittito dal silenzio di un mare infinito di stelle nel cielo.Il Cerro Torre appariva come un miraggio nella tenue luce lunare e il nostro obiettivo, il Cerro Solo, sedeva imponente sopra le ombre della media montagna, con la colossale parete orientale dipinta di crepacci.A distanza di dieci ore, dopo aver sciato una delle linee più spettacolari della zona in perfette condizioni primaverili, Merlin e io ci siamo presi di nuovo alla fune tirolese per tornare alle tende, abbiamo mangiato tutto il cibo rimasto e iniziato la delirante marcia di rientro in paese.«In Patagonia devi essere paziente» mi aveva detto Lipschitz diverse settimane prima. «È difficile aspettare, non è per tutti. Ma una volta che provi a sciare qui, quando trovi le condizioni giuste, non c’è niente di paragonabile». È l’incertezza che ti fa desistere, ma se hai il fegato di scommettere e di stare al gioco…A El Chaltén la questione non è «com’è» o «come sarà probabilmente», ma «come può essere bello» dicono i local. Ed è un ottimo motivo per mettere il proprio destino in balia dei venti del Sud.
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