Un gelido sole fa capolino dietro i profili delle montagne mentre mi appresto ad andare al lavoro. Il turno del mattino in ospedale inizia prossimo all’alba e, a seconda della stagione, l’Appennino mi saluta in maniera diversa. Il grigio tetro e monotono del nosocomio è sovrastato in lontananza da un lungo profilo che conosco a memoria e che migliora questa squallida, seppur necessaria, geometria, donandole un aspetto inaspettatamente maestoso. L’occhio stropicciato punta immediatamente verso il gruppo del Cusna, un gigante sdraiato sulla pianura, che appare fiero in direzione sud-ovest quando, imbiancato dalla neve, sposta l’immaginazione a certe forme himalayane. Subito dopo è impossibile non notare il cono simil-vulcanico del Cimone che fa capolino dietro le colline. La più alta cima dell’Appennino settentrionale rimane però ben celata dalle sinuose gobbe che la attorniano, concedendosi solo in piccola parte allo sguardo attento. Verso sud-est, dalla nera boscaglia di media quota, sbucano Spigolino, Cupolino e Corno alle Scale. Quest’ultimo mi riporta in Cordillera Blanca, con le sue caratteristiche cime affilate e solcate dai canali quasi fossero campi arati verticali. Il viaggio fantastico tra le montagne di casa e quelle del mondo si conclude all’angolo opposto dell’orizzonte dove, senza preavviso, emergono altre due evidenti vette imbiancate, dalla mole incredibilmente poderosa nonostante la loro modesta dimensione effettiva. 

Quasi sconosciuto tra i non addetti ai lavori, il gruppo Alpe di Succiso – Monte Casarola riconduce il fantomatico pellegrinaggio sulle Alpi. Eccezion fatta per la quota, potrebbe benissimo essere inserito in un quadretto svizzero. Parecchie altre amate cime di casa non si vedono, ma questo assaggio basta per sapere che il momento finalmente è arrivato. L’attrezzatura da sci sempre pronta in macchina mi aspetta fremendo a fine turno. Una tempesta ormonale carica di fiocchi nevosi percuote il mio soma assonnato, e già pregusto le curve pomeridiane. Oggi come non mai il freddo dell’inverno è uno stato di liberazione. Riappropriarsi finalmente delle sensazioni naturali, troppo a lungo celate sotto maschere e tute a scafandro, in un asettico annullamento della persona e dei desideri. Lo sciappenninismo, lungi dall’essere una disciplina per palati raffinati, richiede il coraggio e la pazienza di andare a verificare di persona e la dovuta predisposizione ad accettare le sorprese, positive o negative che siano. Chi è abituato alle Alpi potrebbe facilmente storcere il naso. Sullo spartiacque tosco-emiliano le cime vere e proprie caratterizzano solo l’ultima parte della salita. Per giungere alla testata delle valli bisogna traversare molti chilometri di ondulati colli solcati da strade spesso malconce nella loro tortuosità. In questa fascia di territorio la neve cade in maniera sporadica e molto spesso scompare ancor prima di accumularsi. Negli anni alcune bucoliche realtà sciistiche locali con dotazione di manovie o skilift sono progressivamente scomparse. Raggiunti i borghi più alti, la strada finisce e appare la linea di crinale sovrastante. Inutile dire che per chi risiede in queste zone l’Appennino bianco racchiude qualcosa di estatico, specie ora che il regalo della neve è tutt’altro che scontato. 

© Giovanni Danieli

Escludendo i maggiori comprensori di piste che tentano ostinatamente di resistere alla sempre più evidente fine della loro gloria, in alto Appennino si spicca un balzo fuori dal tempo. Sia in senso storico che in senso geografico. Lo stato di desolazione che si respira, in particolare durante la stagione fredda, in molti dei paesini a ridosso delle montagne, è compensato dalla cocciutaggine dei pochi che scelgono di abitarvi. Gente in salita, simile in tutto il mondo, che non ha paura della fatica e del silenzio. Soprattutto per quelli come me che frequentano i monti lontano dai weekend, è abitudine prepararsi alla gita ascoltando solo i propri movimenti, immersi nella spettrale atmosfera delle ultime case, ben sigillate in attesa di climi più caldi. I suoni si propagano nitidi e l’attacco dello scarpone sembra quasi rimbombare a ridosso dell’abetina piegata dal peso della neve. 

La quota modesta permette allo sciatore affamato di approcciare le salite anche a pomeriggio inoltrato. Il momento in cui il sole tramonta per lasciare spazio al buio ovattato dell’inverno è forse il frammento più significativo nel bianco d’Appennino. Pare davvero di essere agli albori dello sci, attraversando le borgate immersi nella neve fresca. Presto mi immedesimo nel personaggio e nelle atmosfere di quel film che mio padre guardava e riguardava, catturando la mia curiosità di bambino. C’era questo sciatore formidabile nella Courmayeur di inizio Novecento, interpretato dal norvegese Morten Aass, che con una divina tecnica telemark nuotava nella neve, infilando qualsiasi pertugio nei boschi o tra le case per giungere ai vicoli del paese antico con gli sci. Questo prima di essere catapultato negli anni Ottanta con una bizzarra macchina del tempo a pedali, e disegnare altre prodigiose linee sulle Alpi come se i decenni non gli appartenessero, come se lo scivolare sulla neve trascendesse lo spazio temporale. The time machine si chiamava il film e io ho sempre sognato di emulare le gesta del mitico telemarker col cappellaccio nero. Sul nostro crinale l’ambiente perlopiù boschivo e dolce nelle sue forme consente, con le dovute accortezze, di muoversi anche se il meteo è incerto. Qui non spaventano le bufere di neve o i cieli neri ma il Libeccio. Nei valichi tra Toscana ed Emilia lo strato nevoso si consuma rapidamente, livellato da correnti spaventose che impongono frequenti e rapidi cambi di direzione anche ai più determinati. 

L’essere forzatamente confinati all’interno della regione ci ha portato a ripercorrere ancora i pendii di casa, riscoprendo lo spettacolo e l’emozione quando pensavamo di aver ormai vissuto tutto. Questa volta però non rappresentano banali metri di dislivello da accumulare in vista di più ardite salite alpine, ma sono lo scopo finale. Il trucco sta nello sciare con nuovi occhi. Per esempio riconsiderando quelle tracce naturali da troppi anni accantonate, quei canali che magari prima o poi e quei versanti sempre sfavorevoli alle buone condizioni. I giorni sciappenninistici passano in fretta da queste parti. La posizione geografica di barriera alla pianura e la relativa vicinanza al mare fanno sì che la neve si trasformi in un battito di ciglia. Per certi versi ci sono anche lati positivi, ma in buona sostanza la powder in Appennino settentrionale è merce rarissima. Ecco perché non bisogna tentennare. Guai a perdere minuti preziosi, e giù per itinerari che parevano non dover essere mai solcati. 

Chissà quando ricapiterà, forse l’anno prossimo, probabilmente tra cinque o dieci anni. Il vento modella le sue sculture sul crinale e nel cielo terso il panorama ha dell’incredibile nella sua unicità. Si vede il luccichio del mare, specchio tra le ombre frastagliate dell’arcipelago toscano e la Corsica. Poi ancora le Apuane, i Colli Euganei, le città emiliane e il Monte Baldo. Solo alla fine ecco il Monte Rosa, lontanissimo.  Ora però cala la sera e la discesa la faremo alla luce delle frontali, discretamente, per non disturbare il bosco. Faggi, abeti rossi e bianchi, immobili nella stagione lenta. Di notte la percezione è amplificata e il profumo della neve ci avvolge nell’euforia di una polvere stupenda. Lascio che il cuore si calmi, una curva e respiro, vorrei non finisse mai. Di tanto in tanto sono solo, come avevo desiderato. Poi un tunnel di alberi sommersi ci catapulta verso inclinazioni dove cala la tensione delle gambe, e improvvisamente le oscure presenze di mucche Highlander fuori dal recinto mi costringono a un cambio di passo. Perdo l’equilibrio, un tuffo e sono ricoperto di uno strato candido, tra gli sguardi insospettiti delle amiche dal lungo pelo. Non ho più la torcia frontale, smarrita in questi freschissimi metri, ma poco importa. Preferisco non raccontare agli altri di quest’entusiasmo che solo l’inverno può dare, di quanto è straordinariamente primordiale sguazzare nella neve. Tanto non mi crederebbero mai. 

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 138 DI DICEMBRE 2021

© Giovanni Danieli