La voce si assottiglia e si rompe, quasi volesse farsi piccola per lasciar spazio all’ennesimo ricordo. Le memorie di 45 anni trascorsi tutti quassù, senza mai lasciare un’estate sguarnita, fanno a pugni per essere raccontate. Ma, di tanto in tanto, il cuore prevale. E Fulgido il montanaro si commuove. A 2.854 metri d’altitudine c’è chi fatica a camminare qualche ora. Lui ci ha trascorso una vita. Il Ca’ d’Asti, rifugio alpino più antico d’Italia immortalato dalle cronache sin dal Trecento, oggi non sarebbe nulla senza le sue mani callose. Forse non ci sarebbe proprio più. Quel che dal 1977 Fulgido vi ha messo dentro, di materiali, di lavoro, di equipaggiamento, e di cuore, è tanto. È tutto quel che c’è. Trecento quintali almeno di carichi, trasportati tutti con il motore delle gambe, dice lui: qualcuno ha moltiplicato anni, salite e pesi e poi gli ha fatto il conto. Un numero teorico, certo. Ma alla fine, a guardarsi intorno, mica poi tanto. E dire che a 12 anni Fulgido Tabone, annata 1948, muratore e factotum di professione, pensava che da queste parti non sarebbe mai più tornato. Il Rocciamelone, che butta l’occhio sul Ca’ d’Asti da 700 metri più su, 3.538 sul livello del mare, gli era parso qualcosa da dimenticare, dopo quella prima salita poco memorabile vissuta dopo aver raggiunto la base in Vespa. E invece qualcosa era scattato. Ci sarebbe voluto tempo per capirlo, ma qualcosa era pronto a cambiargli la vita. Solo quest’anno sono 41. In totale, alla data del suo settantatreesimo compleanno, il 10 settembre, erano 1.220. Fulgido Tabone oggi non è solo il rifugista storico che dà un’anima al Ca’ d’Asti del CAI Susa: è anche l’uomo del Rocciamelone. 

La persona che ha salito la cima dei torinesi, dedicata alla Madonna, più volte rispetto a chiunque altro al mondo. Dopo l’ormai lontana ascesa da dodicenne, Fulgido ha incrociato di nuovo queste strade nel 1976, quando sul giornale diocesano La Valsusa comparve un annuncio per la ricerca di volontari desiderosi di dare una mano nella sistemazione del vecchio rifugio e del bivacco in vetta. «Quel giorno mi sono presentato in punta, e ho visto che c’erano alcuni ragazzi, insieme al cappellano militare Laterza. Passammo insieme tutta la giornata: alla sera mi chiese di rimanere ancora, e di tornare in settimana» ricorda lui. Quel qualcosa destinato a cambiargli la vita era ormai scoccato. Da quell’anno, il legame con questi monti non si è più dissolto. «La sistemazione del rifugio è stata un lavoro lungo e faticoso, durato più di dieci anni e con tantissime persone che hanno dato un contributo – racconta Fulgido – Nessuno avrebbe scommesso una lira sulla rinascita di quel rudere, e invece guardate qui. Ma nel tempo ho capito che se avessi lasciato, forse tutto si sarebbe perso. E così ho deciso di legarmi sempre più a questo posto». Risultato: oggi qui tutto parla di lui. Non solo le stanze del rifugio, arrivato a contare 80 posti che il Covid ha purtroppo ridotto a una ventina, ma anche la cappella di Santa Maria e il bivacco sotto la vetta: «A tutto questo tengo come fosse casa mia» confida, evitando con modestia di puntualizzare che l’impegno gli è valso il Cavalierato e il premio Penna al merito dagli alpini della Valsusa. 

© Federico Ravassard

Eppure, la storia di un amore tanto forte non può non contare anche dispiaceri. Come in ogni cosa umana, quassù, nell’aria più rarefatta, i sentimenti più nobili a volte se la vedono anche con le debolezze. E Fulgido, che per 45 anni ogni estate ha lasciato la sua Caprie per custodire questi luoghi, ripensa con la voce nuovamente rotta al 2006. «Quella volta in cui sfregiarono il volto della statua della Madonna». O alla vicenda del baffo rotto del busto di Vittorio Emanuele II, proprio in cima alla montagna. Le mani da artigiano di Fulgido ci hanno sempre messo su una toppa, ma la tristezza resta. «In tanti anni sono molte le cose cambiate in peggio. La maggior parte della gente è gentile e corretta, ma oggi faccio i conti sempre più con superficialità e maleducazione. Persone che prenotano e non si presentano, cattiveria, polemiche e discussioni per l’obbligo di mascherine: io non ho più vent’anni. E certe cose fatico ormai ad affrontarle». Anche l’ultima botta: il Comune che ha chiuso la strada fino al parcheggio La Riposa per lavori, compromettendo di fatto la chiusura di stagione, lo ha piegato. Eppure Fulgido tiene duro.
E non si spezza. «Il prossimo anno? Vedremo» lasciando intendere che comunque non saprà mai dire no a tutto questo. «Questa montagna non ha più alcun segreto per me» dice con affetto. E il ricordo va alle 1.220 ascensioni, percorse da tutte le vie possibili, dalle più semplici alle più ardite, da vicino e da lontano, senza carichi e con pesi di ogni genere, per piacere e per dovere. «Un ricordo speciale? Forse la recente salita dal canalino verso Novalesa, durante la quale abbiamo ritrovato la croce in legno che nell’800 era posta sulla cappella di vetta. O forse i due giorni e mezzo di cammino da Caselette alla cima, la volta in cui sono partito da più lontano. O ancora il recente incontro con una ragazza svizzera, che ha deciso di salire in punta con me e con la quale ho chiacchierato di tante cose della vita. Un bel momento, un incontro che mi piacerebbe rinnovare». 

Insomma, milleduecentoerotte volte, 41 solo nel 2021, tante solitarie, tante scialpinistiche, 8 Natali e 5 Capodanni in cima. Fulgido ricorda ogni momento. Ogni fatica. Ogni attimo di freddo. Ogni chilo trasportato. Ogni pericolo. «E ogni volta in cui mi sono reso conto – dice – che qui bisogna sempre sapere quel che si fa, soprattutto se alla cima si arriva con gli sci ai piedi». Lui, quel che fa ormai lo sa alla perfezione. Banale da dire. Ma ogni giorno resta una scoperta, pure in una storia tanto fedele a se stessa. «Per venire a Fulgido Tabone, meriterebbe non solo qualche frase, ma un intero volume – scrisse un giorno, anni fa, il generale Giorgio Blais sullo Scarpone Valsusino – Ha dell’incredibile quello che lui e la sua impareggiabile moglie Angiolina fanno. Non so da quanti anni Fulgido sia il gestore di Ca’ d’Asti, non meno di una trentina, forse trentacinque. Già in prima linea durante i lavori per la ricostruzione del rifugio e la sistemazione del Santuario in vetta, ne assunse la responsabilità gestionale da quando il rifugio iniziò a funzionare e da allora è sempre là in prima linea, alternando la sua presenza fra l’abitazione e normale attività a Caprie e la nostra montagna. 

Fulgido non è solo il custode del rifugio e del Santuario in vetta. Tabone è l’amorevole custode del Rocciamelone, colui che traccia e mantiene i sentieri, che fissa e controlla le corde che aiutano la salita nell’impervio ultimo tratto sotto la vetta, che va su e giù fra Ca’ d’Asti e la vetta. È lui che si è accorto che l’ultimo nubifragio di giugno e la tempesta avevano danneggiato la Croce di Ferro, facendola precipitare fra i dirupi. L’ha cercata, l’ha trovata, l’ha nuovamente installata, l’ha riportata nelle condizioni precedenti, e tutto in silenzio, senza clamori, senza attendersi un grazie, ma solo per la straordinaria coscienza di gran galantuomo e per l’amore che porta verso il nostro monte, di cui conosce pietra su pietra». Di Fulgido Tabone, in fondo, cosa serve dire di più? 

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 138 DI OTTOBRE 2021

© Federico Ravassard