Pindo, la neve prima dello sci

Tutto comincia con una riga che passa più o meno da Firenze. Un personalissimo parallelo che fa da spartiacque dei nostri interessi. Sopra, le solite Alpi, quelle fatte apposta per lo sci, e poi più su il freddo che aumenta, la neve che non manca, i paesi nordici, la Norvegia, l’Islanda, il mare sì, ma quello che se vuoi tuffarti di testa devi controllare che non sia ghiacciato. Sotto quella riga, il mare, quello vero dello stereotipo estivo, che d’inverno non ci va nessuno, e le montagne che figurati se c’è neve così a Sud. Il nostro gruppo di cavei gris ormai la pensa così: abbandonate, o quasi, per limiti d’età le velleità verticali, la nostra mente si sposta soprattutto in orizzontale. L’adrenalina della forza di gravità, delle punte dei ramponi e delle picche piantate per pochi millimetri, del filo delle lamine, della precarietà, dell’incognita dell’abisso ha lasciato il posto al gusto dell’esplorazione sulla superficie del globo. Unica costante gli sci, con annessi e connessi.

In realtà globo è un parolone esagerato, siamo in fondo estimatori della prossimità. L’algoritmo potrebbe allora essere il seguente: trovare il luogo più vicino dove lo scialpinismo sia una cosa strana, ma non senza senso. Va da sé che quella linea immaginaria è la necessaria base di partenza. Oltre alla linea, nel tempo ci siamo costruiti un rettangolone, in continua espansione e arricchimento, soprattutto nella sua parte orientale. Il lato superiore è quello che da Firenze va verso Ovest fino all’Oceano Atlantico e verso Est più o meno fino ad Armenia e Georgia. Il lato inferiore è per ora tangente all’isola di Creta, il punto più a Sud dove abbiamo sciato, sempre se si parla di luoghi strani e relativamente vicini; escluso per intenderci l’altro emisfero e le mete più esotiche. Ecco, l’esotismo è l’altra parola chiave della nostra attività degli ultimi anni. Ah, per nostra s’intende del gruppo di amici che vedete nelle fotografie in queste pagine, un nucleo storico più qualche aggregato occasionale, come Riccardo, il glaciologo che ogni tanto viene con noi (e che ha scritto per Skialper l’articolo sullo scioglimento del permafrost sul numero 123). Perché è vero che nel rettangolone di ghiacciai ne sono rimasti ben pochi, ma non si sa mai. Esotismo, dicevo, ma dobbiamo intenderci sul significato del termine. Con sign. astratto, in genere, il gusto, la ricerca e l’uso delle cose forestiere, estranee alle tradizioni locali, nelle arti e nella vita; adesione a forme artistiche esotiche, e in partic. orientali. In senso specifico, l’aspira- zione, che ebbe la massima diffusione col romanticismo e col decadentismo, verso i paesi dell’Oriente e del Sud, vagheggiati come paesi più ricchi di sensazioni, e, in minor misura, verso quelli di civiltà ancora primitiva recita il vocabolario Treccani.

© Umberto Isman

Detta in soldoni, oramai l’esotismo di un luogo si misura con la quantità di like generata da un nostro selfie in quel luogo. Come i giapponesi con i piccioni in piazza Duomo a Milano o noi con le scimmie allo stupa di Swayambhunath a Kathmandu. Un esotismo sbandierato e unilaterale, che allo stupore degli uni contrappone la commiserazione degli altri. Non è questo il genere di esotismo che ci interessa, ma quello che semplicemente ci porta a entrare in contatto con luoghi e realtà diversi dai nostri, in punta di piedi, anzi di sci. Perché sta proprio negli sci la vera componente esotica dei nostri viaggi, quella che anche a noi fa scappare qualche selfie, come le foto che vedete in queste pagine. Non cerchiamo scimmie e neanche esportiamo piccioni, ci portiamo semplicemente dietro la nostra esperienza in montagna, che ci permette di frequentare luoghi altrimenti inaccessibili d’inverno. L’esotismo non sta nel fare una cosa strana che per chi vive lì è normale, ma nell’esplorazione tout court, nello scovare quel terreno vergine per gli sci che fuori dal rettangolone, senza andare in capo al mondo, non esiste praticamente più. Il nostro contorno immaginario è anche la linea di orizzonte, il confine di Mister Google, quello oltre al quale nemmeno lui, incredibile, è in grado di scovare informazioni scialpinistiche. Probabilmente perché non ne esistono, perché quelle montagne lì probabilmente vivono una dimensione ancora pre-esplorativa, pre-alpi- nistica, certamente pre-ludica. Perché quella linea immaginaria è anche quella dello stereotipo, che a livello turistico fa per esempio della Grecia il paese del sole, del mare, delle isole, degli dei e quindi dell’Olimpo, l’unica montagna che si conosce perché la si studia a scuola.

I più eruditi forse conoscono anche qualcosa del Taigeto, al centro del secondo dito del Peloponneso, il monte su cui gli spartani abbandonavano i neonati non in perfetta salute. Ma solo i pochi che ci sono stati d’inverno sanno che dalla cima si può sciare per almeno mille metri di dislivello con vista mare. È lo stesso stereotipo delle guide turistiche che fanno della Grecia un’accozzaglia di spiagge segrete, dove tutti bevono ouzo e mangiano tzatziki, e neanche una parola, o quasi, sulle montagne che coprono gran parte del territorio. Guide che, sia chiaro, non disdegniamo, soprattutto per l’infarinatura di storia, sulla quale siamo carenti e smemorati, per le indicazioni sui ristoranti, fondamentali, per le foto cartolina che non puoi non fare anche tu, spesso per le spiagge. Perché vuoi mettere la soddisfazione di salire una cima con gli sci la mattina e fare un tuffo in mare il pomeriggio? Soprattutto perché quelle spiagge in inverno sono deserte. In questo nostro peregrinare la penisola balcanica gioca un ruolo fondamentale e contiene gran parte delle bandierine del rettangolone. Bulgaria, Bosnia- Erzegovina, Montenegro, Grecia sono state teatro delle nostre esplorazioni sci ai piedi (alcune già pubblicate sulle pagine di Skialper). I Balcani ci affascinano, ci interessa la loro orografia tormentata, così come è tormentata la loro storia. Ci piace la realtà delle aree naturali, di quelle rurali, quel loro essere qualche decennio indietro rispetto alle nostre, nel bene e nel male, ma soprattutto nel bene. Balcanizzando Francesco Guccini: un mondo dove è ancora tutto da fare e dove è ancora tutto, o quasi tutto, da sbagliare. Dal punto di vista geografico la penisola balcanica è prevalentemente un’area montuosa, attraversata appunto, tra Serbia e Bulgaria, dalla catena dei Balcani, il cui nome, di origine turca, significa proprio monte. Verso Sud-Ovest numerosi altri gruppi montuosi si estendono in direzione dell’Adriatico e dello Ionio, fino all’estremità Sud del Peloponneso con la dorsale del Taigeto.

© Umberto Isman

La catena del Pindo è una delle principali e si estende dal Sud dell’Albania al Nord del Peloponneso per circa 180 chilometri. Geologicamente è una prosecuzione delle Alpi Dinariche, situate nella parte occidentale della penisola balcanica, e fa da vera e propria spina dorsale della Grecia. È proprio sulla porzione greca del Pindo che cade la nostra scelta dello scorso febbraio. In preda allo sconforto per la totale assenza di neve sul versante italiano delle Alpi, decidiamo ancora una volta di puntare al magico Sud-Est, che per quantità di neve non ci ha mai traditi. È un altro degli stereotipi da sfatare, quello che in Grecia nevichi poco. Non è così, specialmente sul Pindo, che fa da baluardo alle perturbazioni e le trasforma in copiose nevicate. Scegliamo in particolare la regione dell’Epiro, che comprende la Zagoria, il Parco Nazionale delle Gole di Vikos e il Parco Nazionale del Pindo. Raggiungiamo Konitsa, che sarà la nostra base per la prima metà del viaggio. Fa un freddo cane, il vento si infila violento tra i vicoli del paese, mentre sulle vette è bufera. L’atmosfera è strana, certamente dimessa, ma non è chiaro se sia dovuto al fuoristagione o a una crisi generalizzata, probabilmente un misto di entrambi. Molti dei locali sono chiusi e le case dall’aspetto aristocratico mostrano i segni di un passato certamente più florido. Anche la villetta che abbiamo affittato sul web non viene probabilmente abitata d’inverno da decenni. Lo capiamo rimuovendo il finto fuoco a led dal camino e provando ad accenderne uno vero: il fumo in pochi istanti si impadronisce della casa e dei nostri polmoni. In fondo è l’inizio balcanico che ci aspettavamo.

L’ufficio turistico è stranamente aperto ma logicamente deserto. Le due impiegate si girano di scatto quando ci vedono entrare: sei persone in un colpo solo, a febbraio? Ci riempiono di brochure, ci regalano anche quelle a pagamento, ma gli diamo poca soddisfazione: cerchiamo robe di neve e lì ci sono solo prati in fiore, ruscelli e mucche al pascolo. Per gentilezza prendiamo comunque tutto, lanciandoci occhiate d’intesa, come a dire: vi aspettavate i depliant dell’Alta Badia? Certamente no, e allora un piccolo depliant personalizzato proviamo a costruirlo qui, per punti.

Monastero Moni Stomiou

Ci si va a piedi da Konitsa in un’oretta di cammino. D’inverno, nonostante il cartello esposto, non pagherete il biglietto per mancanza di cassiere. Troverete quasi certamente dei lavori in corso in vista dell’estate. Gli operai vi guarderanno strano, ma poi condivideranno con voi le patate lesse più buone del mondo, senza poter colloquiare se non a gesti. Scoprirete che anche i monaci ormai hanno le fognature di plastica arancione.

Ponte di Aoos

Lo si percorre per andare al monastero. Se avete un drone come il nostro, che si chiama Dario (il dronedario), fate attenzione che nella gola una raffica di vento improvvisa potrebbe spararvelo a due chilometri di distanza e riuscire a farlo tornare ha del miracolo. Forse dei monaci.

Papigo e Micro Papigo

Dal nome sembrano luoghi usciti da Topolino. In più li troverete scritti almeno in cinque modi diversi e vi capiterà di girare invano in auto per raggiungerli tutti e cinque. Una volta capito che il luogo è uno solo, finalmente vi gusterete la sua atmosfera, la vista sulle dolomitiche cime del Tymfi, gli enormi platani fuori dalle chiese medievali, le vestigia di un ricco passato che fu. E probabilmente ci dovrete tornare, perché quel giorno la pigrizia si è impadronita di voi e sul Tymfi non ci siete saliti.

Monte Bogdani

Avete letto La strada di Cormac McCarthy? Se la risposta è no, fatelo assolutamente. Oppure andate a Samarina e poi sul Bogdani. Portateci vostro figlio e vi troverete nella stessa atmosfera post-atomica, dove in un paese che una volta era un fiorente snodo commerciale, d’inverno incontrerete solo cani randagi, con meravigliosi cuccioli. E i pendii boscosi saranno così selvaggi e innevati da riportarvi a quello stesso stato primordiale del libro.

Stazione sciistica di Vasilitsa

Andateci se volete farvi un selfie mentre sciate su una pista greca (attenzione che il confine tra pista e fuoripista non è molto chiaro), se non amate la folla, se non vi dà fastidio ripetere la stessa pista, se volete provare ancora una volta il brivido del piattello sotto il sedere. Se però avete intenzione di salire con le pelli, avvisate subito gli addetti agli impianti, perché c’è il rischio che li accendano inutilmente appena vedono arrivare la vostra auto.

Monte Efharistò

Il nome è storpiato di proposito perché non vogliamo togliervi la soddisfazione di scoprirlo da soli, facendo ipotesi di salita e discesa, scovando la strada per arrivarci, inventandovi la traccia in mezzo metro di polvere, sciando tra monumentali pini loricati. Vabbè dai, si chiama Monte Gomara.

Monodendri e gole di Vikos

Non ci si scia, ma le gole sono le più profonde d’Europa e da sole meritano il viaggio. Come tutti i 46 villaggi della Zagoria e i loro ponti, in pietra, abbarbicati sulle montagne, in un territorio ancora selvaggio e difficile da attraversare.

Gente

D’inverno non se ne incontra molta, specialmente fuori dai centri più popolati. Dei luoghi che abbiamo visitato solo Metsovo, dove abbiamo fatto base nella seconda parte del viaggio, mostra segni di vitalità. Molto difficile anche incontrare altri scialpinisti, salvo qualche Guida alpina giramondo. Raccontiamo un episodio. Salendo al Monte Tsoukarela incontriamo, con i loro clienti, Oswald Santin e Hanspeter Eisendle, due mammasantissima dell’alpinismo e dello scialpinismo. Il secondo soprattutto, che personal- mente annovero nella categoria quelli che senza di loro Messner col cavolo che era Messner. Salendo notiamo una sorta di indisciplina, non la nostra che è prover- biale, ma tra le fila dei loro clienti. Probabilmente non succederebbe se fossimo sulle Alpi o su qualunque altro itinerario conosciuto e tracciato, ma qui il terreno è vergine, in tutti i sensi, ancora da esplorare. L’istinto di sperimentare ognuno la propria traccia è più forte di qualunque ordine di scuderia. D’altra parte non ci sono pericoli e un costante guinzaglio visivo lega le Guide ai clienti. Mentre Hanspeter, impassibile, continua per la sua strada: io vado dove l ’acqua va.

Obliquare

Deriva dal latino, ma è il verbo per eccellenza dello scialpinismo greco. È un’esigenza che in discesa si presenta ogni qualvolta sia necessario rientrare sull’itinerario di salita. Viene il più delle volte disattesa, complice l’entusiasmo e la sete di esplorazione. Tanto, male che vada, si ripella.

QUESTO ARTICOLO ÈSTATO PUBBLICATO SU SKIALPER 128

© Umberto Isman