La guerra dei mondi
Estratto dalla sezione climbing della Outdoor Guide 2025
Il confine tra plasticari e rocciatori è ben delineato, complice anche lo stile comp della tracciatura moderna, sempre più utilizzato nelle palestre indoor, che ha poco a che vedere con la scalata in natura. Riusciremo a superare questo gap e creare un’unica community?
Che l’arrampicata sia diventata uno sport sempre più pop è ormai evidente: non solo le palestre sono piene di arrampicatori di ogni livello, ogni giorno, sia in estate che in inverno, ma è sempre più facile trovare falesie o aree boulder eccessivamente affollate nei weekend e durante i periodi di vacanza.In alcuni luoghi, tuttavia, la scalata conserva il suo animo punk originale e stenta a farsi addomesticare.È forse questo che sta separando sempre più la scalata in-door dall’outdoor? Il confine tra plasticari e rocciatori è ormai ben delineato. Complice di questa separazione è lo stile comp della tracciatura moderna, sempre più utilizzato nelle palestre indoor, che ha ben poco a che vedere con la scalata in natura eche tende a scindere le due categorie, sia nella pratica che nella filosofia alla base della disciplina. Dall’ingresso alle Olimpia-di di Tokyo 2020 la visibilità dell’arrampicata sportiva è aumentata moltissimo: la IFSC (International Federation of Sport Climbing) ha riportato che le iscrizioni ai corsi di arrampicata sono aumentate del 45,7% a livello globale dopo questo debutto e siamo sicuri che gli insight dei prossimi anni, anche sulla base della visibilità data da Parigi 2024, registreranno una crescita ancora più esponenziale.Sappiamo bene quanto sia divertente scalare: non stupisce che abbia attratto il pubblico in massa, anche quello in cerca di un’attività sportiva per tenersi in forma e in movimento.


Diciamocelo, la scalata fa fare fatica senza accorgersene e fa divertire un sacco senza sforzo, soprattutto se l’ambiente è quello sicuro e inclusivo delle palestre, ormai dei veri e propri parchi giochi per adulti. Soprattutto in sala boulder, ma anche nelle palestre lead (con tiri di corda), la paura frena molto meno che in ambiente outdoor, rendendo la sua pratica meno selettiva.Il gesto atletico e muscolare prevale sull’aspetto psicologico e mentale - componente fondamentale sulla roccia - che viene in parte trascurato in questo approccio più pop. Così, per l’utente medio, l’arrampicata sportiva rientra tra le scelte possibili quando a inizio anno deve scegliere tra crossfit o nuoto. Poi, che il fascino irresistibile di questa disciplina conquisti e non molli più, è un altro discorso. Il numero di tesserati FASI (Federazione Arrampicata Sportiva Italiana) in costante aumento riflette questa crescente popolarità.D’altro canto l’incremento esponenziale dei praticanti porta inevitabilmente a riflettere sull’impatto ambientale di questo sport e sul futuro dello stato di conservazione della roccia nelle falesie e nelle aree boulder, che è ormai evidente non essere un bene eterno e indistruttibile. Molti sono il luoghi in cui calcare, arenaria o granito hanno perso quasi totalmente il loro grip originario, a causa degli infiniti passaggi degli arrampicatori, compromettendo la possibilità di arrampicare. A essere irrimediabilmente unti non sono però solo siti storici, ma anche falesie e aree blocchi relativamente nuove che per qualche ragione sono entrate nel mirino della massa dei climber. La gestione del deterioramento della roccia è un problema recente, che 30 o 40 anni fa non si poneva. Ricordo quando alcuni amici, tra i primi frequentatori di Cornalba (storica falesia della bergamasca), mi raccontavano che facevano ripetute sui tiri con tanto di giubbotto con pesi, perché quello era uno dei modi per allenarsi. Penso poi a oggi, quando in un qualsiasi weekend di mezza stagione si trovano cordate che occupano tutto il giorno un tiro, già unto, facendoci infiniti giri, proprio come in palestra. Penso inoltre a come forse ci sentiamo legittimati e ispirati a seguire le orme dei proclimber che, per concludere un progetto, effettuano decine, centinaia di tentativi per portarsi a casa il successo. Chi può decidere cosa sia etico e cosa non lo sia? Chi è il responsabile o il portavoce di tale etica?Insomma, la questione è davvero complessa, soprattutto perché molti sono i climber che si avvicinano all’outdoor arrivando dalla palestra e che di tutto questo non sanno nulla. Il rispetto della roccia è un valore che viene insegnato e trasmesso di generazione in generazione, così come le buone norme di comportamento (pulire le prese, cancellare i tickmark, non lasciare rifiuti o sporcare l’ambiente). Riusciremo a superare questo gap tra rocciatori purie scalatori indoor in trasferta e creare una community unita e rispettosa?
Scarpette, calzata veloce e volumi differenziati
Basta entrare in una qualsiasi palestra di arrampicata per notare quanto la scelta del brand di scarpette si sia diversificata rispetto a qualche anno fa. Nuovi player sono entrati nel mercato con prodotti di alta qualità, riuscendo a posizionarsi allo stesso livello dei marchi storici. Tuttavia, si sta uniformando il tipo di caratteristiche ricercate dall’utente medio: alla rigidità e precisione di un tempo (le cosiddette scarpette di cemento),si preferiscono oggi comodità e morbidezza, fondamentali per adattarsi ai grossi volumi e alle prese in plastica della scalata indoor. Inoltre, un buon tallone e un efficace aggancio di punta sono ormai caratteristiche essenziali anche per gli scalatori alle prime armi.I cambiamenti non riguardano solo l’indoor: il fatto che la placca tecnica venga ormai definita old school è sintomatico della preferenza per stili di scalata più strapiombanti, dinamici e fisici. Di conseguenza, il supporto sui piccoli appoggi vie-ne spesso sacrificato a favore del-la sensibilità e del grip, con talloni pieni e punte capaci di agganciare su qualsiasi superficie. Due aspetti saltano all’occhio analizzando le attuali pro-poste sul mercato. Innanzitutto, si assiste alla graduale scomparsa dei lacci a favore di calzate più veloci, come velcro e slip-on. Questo cambiamento è dovuto in parte alle tecnologie sempre più avanzate nei sistemi di chiusura: basti pensare al classico Fast Lacing System di La Sportiva, già presente sul-le prime Solution, o a Evolv, che combina l’avvolgimento e la precisa regolazione dei lacci con la praticità del velcro. Diffusissima è anche la calzata slip-on con calzino elastico, spesso abbinata a un velcro per migliorarne la precisione, come nelle Instinct VS e VSR di Scarpa.In un contesto dimetti e togli costante come quello delle palestre, la velocità di calzata è uno dei parametri di scelta più considerati. Un altro trend sempre più evidente è la sostituzione dei modelli differenziati per uomo e donna con varianti regular fite low volume (spesso con mescole di gomma più morbide), segno che il mercato sta evolvendo verso una differenziazione anatomica piuttosto che di genere. Come scegliere la scarpetta più adatta? In base all’utilizzo che dovremo farne: palestra, boulder, falesia o via lunga?Per ognuna di queste discipline ci sono prodotti specifici di-segnati appositamente per soddisfare ogni necessità. E se voglio una scarpa per far tutto? Anche in questo caso abbiamo individuato i prodotti più versatili che possono adattarsi a ogni situazione.

Caschi, mai senza
Il casco nell’arrampicata è come la cintura di sicurezza in auto: nel 99,9% dei casi non serve, ma quando serve fa la differenza e può salvare la vita. Questo vale non solo in montagna, dove il suo utilizzo è ormai ampiamente diffuso, ma anche in falesia, sia per il rischio di caduta sassi sia per proteggerci in caso di brutte cadute. L’innovazione nei materiali e nelle tecnologie li ha resi così comodi e leggeri che vale la pena di supera-re lo scoglio iniziale e farne un’abitudine.Il crescente numero di scalatori alle prime armi è uno dei motivi per cui l’uso del casco è altamente consigliato. Tra assi-curatori inesperti, climber poco abituati ai voli e rocce di qualità non sempre eccellente, il rischio di incidenti è sempre dietro l’angolo. Ma non solo: anche gli scalatori più esperti possono trovarsi in situazioni critiche, come la rottura improvvisa di una presa apparentemente solida o una caduta mal gestita (per esempio, capovolgersi a causa della corda dietro al piede). Il mercato offre caschi per tutte le esigenze e fasce di prezzo, dagli ultra-light con calotta ridotta ai modelli con protezione completa. Qualunque sia la scelta, proteggi sempre la testa!E ricorda che un casco leggero necessita di essere maneggiato e riposto con cura, poiché più delicato.

Scarpe approach, comfort e versatilità
Precisione, comodità, camminabilità. Nell’approach c’è tutto e il trend è di proporre prodotti sempre più versatili: confortevoli e performanti nella camminata (in certi casi anche veloce), ma in grado di muovere qualche passo anche quando l’asticella della tecnicità si alza. Sembra essere questa la fetta più am-pia del mercato dell’avvicinamento, ma rimane uno spazio per proposte più tecniche che scarificano qualche punto alla voce comfort, mantenendo un’impostazione più tradizionale che punta molto sul sostegno, quando si cammina e si arrampica.

Testo Marta Carminati
Foto © Camilla Miliani
RUPE Fest, alla scoperta della sartorialità italiana
Una giornata di scalata e di community per conoscere il nuovo marchio dedicato ai climbers
Sabato 8 giugno si è svolta nella palestra Big Wall di Brugherio (MI) la prima edizione di RUPE Fest, l’evento ufficiale organizzato dal brand di abbigliamento outdoor RUPE. Si tratta di una giornata all’insegna del movimento, tra arrampicata, acroyoga, mobility e acrobatica aerea, che si conclude con la RUPE Boulder Cup e l’immancabile festa finale. Per l’occasione abbiamo intervistato brevemente Mattia Calise, uno dei fondatori del brand, per farci raccontare qualche curiosità sulla storia del progetto di Rupe.

Partiamo dalle origini: cosa è RUPE? Come nasce?
RUPE è un brand di vestiti artigianali, un progetto che vuole ridare vita all’aspetto sartoriale italiano, nel campo dell’outdoor. Il cuore di RUPE si basa proprio sul volere una propria produzione interna: siamo sì una start up, ma siamo soprattutto un laboratorio sartoriale. La scelta dell’outdoor nasce dalla passione per la montagna e l’arrampicata, condivisa da tutto il team.
Chi sono i volti le mani dietro ai coloratissimi prodotti che oggi stanno riempiendo la palestra?
I fondatori di RUPE sono tre: Chiara Telazzi, Silvia Renoldi e io. Chiara è la sarta, Silvia si occupa della selezione dei tessuti e io mi occupo del marketing. Ufficialmente, ci siamo conosciuti in Valle Orco nel 2021, e da qui ha avuto inizio questo progetto. Dal 2023 siamo riusciti ad assumere i nostri primi dipendenti, allargando il team.

Quali sono le peculiarità del brand? Avete un prodotto iconico, simbolo di RUPE?
Ciò che ci contraddistingue è che non vogliamo essere solo dei rivenditori, ma vogliamo produrre da zero seguendo i nostri valori, e tra i principali c’è sicuramente la durabilità e la sostenibilità dei nostri capi. Tutto è seguito da noi, dalla progettazione alla vendita: solo così garantiamo la qualità del prodotto. Siamo ovviamente consapevoli di non essere perfetti e che avremo sempre occasione per imparare dagli errori e lavorare per migliorarci, ma per noi questa parte di gestione della produzione è il centro dell’artigianalità.
Tengo anche a precisare che non produciamo solo attraverso una linea interna, ma diamo anche lavoro ad altri piccoli laboratori del territorio, con i quali abbiamo instaurato un rapporto di fiducia: RUPE è a filiera corta, cortissima. I nostri tessuti seguono standard qualitativi e di sostenibilità molto alti. Sicuramente la nostra felpa Earthy, a triangoli colorati, è il nostro prodotto iconico, inodossata e apprezzata anche oltre il mondo climb. anche i completi donna (leggings e top) stanno diventando simbolici per RUPE.
RUPE nasce come brand artigianale che oggi si affaccia al mercato globale dell’arrampicata, un mercato complesso e discretamente saturo. Come state affrontando questo cambiamento? In che direzione state puntando? Quali sono le difficoltà riscontrate più grandi?
La difficoltà maggiore è legata al fatto che non esiste in questo mondo una dimensione “media”: o sei un singolo artigiano o sei un brand come tutti gli altri. Qui sta Questo è il problema. Siamo autofinanziati, ed è difficile giocare il gioco dei grandi brand senza averne la struttura organica e, soprattutto, la disponibilità economica: ma ciò ci ha anche permesso di creare questa grande community. Stiamo cercando di inserirci in questo difficile mondo dell’outdoor spingendo tantissimo sui nostri valori e su questa community che li ha compresi e ci sostiene continuamente.
La direzione è quella di consolidare la parte di scalata per espanderci poi sia nel mondo yoga che nel lifestyle. In realtà, è stato proprio il mondo yoga a “volerci”, spinto dalla ricerca di una realtà artigianale anche in questo ambiente, forse altrettanto saturo di proposte “tradizionali”.
È chiaro dunque che RUPE non è solo un brand, ma è anche una community: quali attività svolgete per coinvolgerla e renderla parte integrante del progetto?
Abbiamo iniziato organizzando un viaggio, la prima edizione del ritiro a Montanejos, in Spagna, ad aprile 2023, con membri dello staff e alcuni dei nostri ambassador. Ci siamo divertiti tantissimo, e abbiamo capito che questa cosa poteva piacere anche alle persone che gravitavano attorno al brand: perché non ampliarlo? Meno di un anno dopo abbiamo organizzato la seconda edizione coinvolgendo così altre persone che stavano credendo nel progetto, e ciò ha funzionato. I nostri eventi vogliono essere un momento in cui la RUPE Family possa riunirsi e allargarsi all’insegna del divertimento.


Basta guardarsi intorno durante l’evento ed è subito evidente come il brand sia riuscito nel suo intento di creare una realtà che prima di tutto è una comunità, una famiglia allargata, che condivide l’amore per lo sport e la voglia di stare insieme, valori che vengono messi prima della performance.
La mattinata è partita con il workshop di Simone Iero su mobilità e arrampicata, con una forte attenzione alla respirazione e alle sensazioni del corpo. A seguire, le lezioni di prova di acrobatica aerea su tessuti e corda con Arianna Scapinelli e Diana Giusti e i workshop di acroyoga con Filippo Granata e Chiara Vitali. Nel pomeriggio si è tenuta anche una Speed Challenge, con Luca Robbiati e Andrea Bortolotto, entrambi atleti RUPE. Alle 16.00 è poi iniziata la RUPE Boulder Cup, una competizione amatoriale con più di 30 blocchi tracciati da Martino Sala, Giacomo Camisasca, Ale Scogna e Filippo Lorena, accompagnata dal sottofondo musicale del gruppo Elefunky. Le finali, divise in categoria uomini e donne, si sono concluse con il gruppo Vogo Beat, che ci ha letteralmente accompagnati verso le premiazioni con un corteo musicale a dir poco travolgente. Sul podio della Rupe Boulder Cup troviamo hanno trionfato Davide Torroni al primo posto, seguito da Davide Lombardi e Luca Robbiati per la categoria uomini; Sara Caramella vince invece la categoria donne, seguita da Giulia Gatti e Francesca Grassi.
Dopo le premiazioni, si è dato il via alla festa ufficiale con il Dj Set di Dejan e di Miryam Magnoni.

Che dire? Il coinvolgimento dei partecipanti è stato altissimo. Oltre ad essere un marchio che promuove l’artigianato e la piccola impresa, abbiamo una spiccata dote nel saper far festa.
Il motto di RUPE è «per chi è fuori dentro»: dopo la giornata di sabato, possiamo confermare che qui tutti trovano spazio per la propria personalità e terreno fertile per la propria curiosità. Se è vero che l’arrampicata è sicuramente il filo conduttore dell’evento, è altrettanto vero che il fulcro della giornata è stato mettersi in gioco e l’aprirsi a nuove esperienze, in un ambiente dinamico, accogliente e fuori dagli schemi.
Per scoprire la collezione RUPE al completo visitate il sito www.rupeclothing.it


