Lo sci-alpinismo (rigorosamente con il trattino) di Toni Gobbi
In un libro del nipote Oliviero ricordi e aneddoti dell’organizzatore delle Settimane nazionali sci-alpinistiche di alta montagna, uno dei padri dello skialp italiano.
L’altarino dei personaggi che ci hanno ispirato nello sci lontano dalle piste è sempre piuttosto affollato. Ci sta Fridtjof Nansen, ovviamente, e altrettanto ovviamente dobbiamo fare posto a Fosco Maraini, tra i primi a portare con sé, sulle montagne himalayane, gli sci per motivi puramente ludici. Ma in prima fila non può esserci che Toni Gobbi, il quale ha reso fruibili a un pubblico decisamente più ampio i grandi raid che sembravano riservati a pochi fuoriclasse. Fosco e Toni, nati a due anni di distanza l’uno dall’altro, si sono conosciuti, non ho idea se abbiano sciato uno accanto all’altro, ma hanno salito montagne assieme e contribuito, entrambi, alla riuscita della spedizione al Gasherbrum IV, mettendo le basi per l’ascensione di Walter Bonatti e Carlo Mauri nel 1958. Ma la guida Toni Gobbi aveva già cominciato nel 1951 a organizzare haute route sciistiche con gruppi di clienti sempre più numerosi. Cominciò dalla Chamonix-Zermatt, che francesi e svizzeri avevano cominciato a percorrere fin dagli anni Venti. E nel 1933 Leon Zwingelstein ne fece un tratto fondamentale della sua fantastica cavalcata sulle Alpi con gli sci. Fu la prima delle Settimane nazionali sci-alpinistiche di alta montagna che proseguirono costantemente fino alla sua scomparsa, nel 1970. Il suo era uno scialpinismo con il trattino, sci-alpinismo, e quel trattino non è solo un vezzo: «È un vero sciatore alpinista – spiega – colui che trova il piacere della salita, la gioia della vetta, la soddisfazione della discesa. Questi sono i tre punti ed io voglio che colui il quale fa dello sci-alpinismo con me lo faccia in completezza, in tutte e tre le parti». Alla Chamonix-Zermatt seguirono decine di altri raid, alcuni raccolti da uno dei partecipanti, Luigi Zobele, in una guida edita nel 1975 da Tamari, Sci-alpinismo nelle Alpi (ancora con il trattino). E tanti altri lontani dalle Alpi, dalla Groenlandia all’Elbrus, fino al progetto del Damavand, che si sarebbe dovuto concretizzare proprio l’anno della sua morte.
La traccia di Toni è il libro che il nipote Oliviero Gobbi ha scritto assieme a Gian Luca Gasca, partendo dagli scatoloni di documenti e fotografie trovati a casa della nonna (Rizzoli, pp. 240, euro 35: sarà presentato lunedì 15 dicembre alle 21 al Circolo dei Lettori di Torino, in un incontro organizzato dalla Libreria La Montagna). Un volume che per la prima volta mette a fuoco a tutto tondo un protagonista della montagna che non ha avuto - ingiustamente - la notorietà di altri suoi coetanei, altri che hanno lasciato segni coevi sulla neve e la roccia. Toni era nato nel 1914 a Pavia ma già a otto anni con la famiglia si era trasferito a Vicenza. Ed è lì, sulle Piccole Dolomiti, che nasce e cresce il suo amore per l’arrampicata, l’alpinismo, poi lo sci. Il padre è avvocato e anche lui sembra destinato alla stessa carriera. Nel 1940 si laurea, ma c’è da fare il servizio militare e nel frattempo scoppia il secondo conflitto mondiale. Istruttore di alpinismo alla Scuola militare alpina di Aosta, finisce sulle montagne valdostane a difendere la patria in una guerra in cui non viene sparato manco un colpo (c’è anche Mario Rigoni Stern da quelle parti). Fa pratica legale ad Aosta ma prosegue anche, sempre più coinvolto, la frequentazione delle montagne, sulle Alpi occidentali e le Piccole Dolomiti. Il motivo per cui resta in Valle d’Aosta, però, non è solo alpinistico, ma sentimentale. Nel ’43 incontra Romilda Bertholier, biondissima maestra elementare a Courmayeur, se ne innamora e nel ’45 la sposa. Diventa Guida alpina nel frattempo, poi Maestro di sci. Le ascensioni sono un lavoro, un piacere e una condivisione con Romilda, capace alpinista e sciatrice (sarà tra le prime, assieme al figlio Gioachino, a scendere la parete nord del Monte Bianco con gli sci).

Lasciamo alle pagine del libro il racconto della carriera di rocciatore, tra cui l’apertura della formidabile via – cui aspirava l’intera comunità alpinistica – al Grand Pilier d’Angle, assieme a Walter Bonatti, per concentrarci invece sulla sua traccia nella neve. L’approccio allo sci – allo scialpinismo, ovvio – era allo stesso tempo tradizionale e innovativo. Se all’epoca si guardava agli attrezzi come a un ausilio per la salita, mentre in discesa ogni santo aiutava, Gobbi chiedeva al suo cliente «una buona padronanza tecnica (…): deve cioè essere ben impostato nella posizione di discesa in linea diretta e diagonale, saper usare con padronanza dérapage e saper curvare con tranquillità e scioltezza a stem-Christiania (non bastano dunque le curve a spazzaneve!)». Così scrive nei suoi appunti destinati a essere stampati sui fascicoli in cui, anno dopo anno, presentava le sue Settimane. E ancora: «Occorre soprattutto che egli sia sicuro di curvare là dove ha deciso di curvare e là dove bisogna curvare e che egli sappia perciò, in nome della massima sicurezza, seguire fedelmente il tracciato del proprio capo-gruppo». Non era solo un retaggio della propria educazione militare ma, come ricorda un suo cliente che gli si affidò alla fine degli anni Sessanta, Leonardo Lenti, «la traccia sia in salita sia in discesa era un compito rigorosamente suo, e tutti dovevano seguirlo senza indugio sia in salita sia in discesa. Questo sia per questioni di sicurezza, sia per non turbare l’estetica del pendio vergine. Quando si arrivava in fondo, Gobbi riguardava il pendio su cui si era sciato ed era palesemente soddisfatto della bella traccia, ben fatta».

Toni Gobbi se ne andò, ad appena cinquantacinque anni, travolto da una valanga sul Sassopiatto, assieme a tre clienti di un gruppo che partecipava alla Haute Route dei Monti Pallidi. «Il gran capo ha pagato di persona – scrisse Giorgio Bocca in un accorato articolo su Il Giorno – L’ultima lezione alpinistica di Toni Gobbi, il prudente, è implicita nella sua morte: chiunque tu sia, per bravo che tu sia, ricordati che in alta montagna la morte può venire anche per te».

Da Est a Ovest
In questi giorni in cui i confini della nostra esplorazione sono la cucina o il salotto e solo l'immaginazione ci può portare a varcare nuovi orizzonti, vi riproponiamo il racconto della traversata della Groenlandia sulle orme di Nansen, pubblicato su Skialper 118. Per sognarli questi nuovi orizzonti, oltre a immaginarli.
Bianco. Nessun colore ci accompagna, mentre seguiamo l’ago della bussola che ci conduce a Ovest-Nord-Ovest. Whiteout. Niente suoni, tranne il vento che per fortuna oggi soffia più leggero. Per il resto, solo il ritmo degli sci e il nostro fiato. Abbiamo lasciato il fiordo di Isortoq da qualche giorno e siamo in pieno deserto bianco. Tento di interpretare le forme della neve, quando è il mio turno a battere traccia. Creste, buchi, sculture traforate dal vento. Una zampa d’orso. Che ci fa qui, a quasi cento chilometri dalla costa? Chiamo i compagni dietro di me, a loro non sembra. Mostro le unghie che hanno grattato il ghiaccio, ma ribattono che è uno scherzo di neve, nessun pericolo di incontrarlo stamattina. Però i norvegesi, che hanno il fucile, controllano che la cartuccia sia in canna. Non è un orso? Mah. Già abbiamo incontrato, ancora in vista del mare, piume, ossicini e peli che ha vomitato sul ghiaccio, liberando lo stomaco dai resti delle prede di qualche settimana. Erano freschi, non era transitato da tempo. Via di nuovo, per la cronaca non incroceremo alcun orso fino al termine della traversata, ma quelle orme, sono sicuro, erano sue.
Groenlandia, 14 agosto-10 settembre 2017, autunno a quelle latitudini. La traversata della più grande isola ghiacciata della Terra è un sogno fin da bambino, quando ho letto e riletto un libro sui grandi esploratori e fra tutte mi è rimasta in testa l’avventura di Fridtjof Nansen, ventisettenne di Christiania (Oslo), il suo viaggio da costa a costa del 1888, nella stessa stagione, da Est a Ovest come lo stiamo ripetendo noi. Un po’ più a sud il suo, un centinaio di chilometri in meno, ma rimane straordinaria l’impresa. Undici giorni di peregrinazioni in mezzo ai ghiacci a bordo di due scialuppe sbarcate dalla nave Jason, bivacchi sugli iceberg, la rotta contesa all’acqua gelata a colpi di ascia. Poi l’inlandsis, le barche abbandonate per proseguire con due sole grosse slitte del peso di oltre cento chili ognuna e allora un mese di odissea per raggiungere Godthåb, l’attuale Nuuk, capitale dell’isola. La fame. E finito il ghiaccio, ancora acqua da attraversare su una barca costruita con pezzi di slitta e, raggiunta una colonia danese, l’intero inverno in attesa di una nave per rientrare in Norvegia. Per loro una marcia verso l’ignoto, in un’immensità glaciale che gli inuit dicevano abitata da mostri. Per noi la ripetizione di un itinerario duro per le condizioni atmosferiche, faticoso e lungo, ma in fondo quando hai dubbi basta accendere il gps e trovi la traccia verso Kangerlussuaq (ma abbiamo proceduto sempre con la bussola).
E però se alla sera, rintanato tra le piume, rileggi le pagine del suo libro - un bestseller per la borghesia appassionata di montagna a cavallo del secolo, tradotto in ogni lingua europea salvo in italiano, quello che fece scoprire in tutti i Paesi alpini lo sport dello sci - ritrovi le stesse emozioni, i paesaggi, le difficoltà di un territorio che nonostante i mutamenti climatici è rimasto sostanzialmente uguale ad allora. Anzi lo scorso autunno, a causa di un’anomalia termica registrata solo in Groenlandia, le temperature erano crollate più ancora che ai tempi di Nansen: notti a -35° e una media diurna tra gli 0° e i -10°. I venti catabatici, che si rinforzano a Ovest sulle pianure canadesi e dall’Islanda sull’oceano Atlantico a Est, ci hanno frullatoper l’intero viaggio, in continuo contrasto, tanto da avere, dal mattino alla sera, bufera da ogni direzione.
Non è cominciata a metà agosto, la nostra traversata. È partita qualche anno fa con il tentativo di convincere gli amici delle precedenti spedizioni in giro per il mondo, poi una settimana sugli sci in Finnmark, nord della Norvegia, in febbraio per testare materiali e noi stessi nel grande freddo. In un inverno particolarmente mite, abbiamo cercato l'angolo d’Europa più gelido in quella stagione ed è risultato lassù. È finita con il congelamento di tre dita per Giorgio Daidola, fortunatamente temporaneo. Non ho idea se la visione delle falangi gonfie e annerite abbia convinto gli altri a sfilarsi, ma così è stato. È rimasto Matteo Guadagnini, scialpinista di lungo corso, e sono cominciati gli allenamenti seri, tabelle da maratona, montagna e soprattutto quella che Borge Ousland, il grande esploratore polare, chiama «la nobile arte del trascinare pneumatici», per abituarsi al traino delle slitte. A metà 2016 è toccato a me arrendermi, fermato da un elettrocardiogramma sotto sforzo del dottor Massimo Massarini. Matteo è partito lo stesso, affidandosi all’organizzazione di Ousland, io ho dovuto rimandare all’anno seguente. Ce l’abbiamo fatta entrambi, pur con spedizioni diverse, Matteo ci ha pure scritto un piacevole racconto pubblicato da Fusta editore, Groenlandia sulle orme di Nansen.

Ci vogliono almeno ventotto giorni per lasciare la traccia degli sci dalla costa Est alla costa Ovest. Ci si può mettere meno, ma diventa una gara contro il tempo, da impostare in maniera totalmente diversa da una spedizione alpinistica. Per sopravvivere a quella che è una delle più lunghe traversate sul ghiaccio - Antartide a parte, è ovvio - occorre trascinare almeno settanta chili di attrezzatura e cibo divisi fra due slitte. Cibo soprattutto, ché nel corso della giornata ingurgiti di tutto, per tirare avanti. Difficile correre, con un peso del genere attaccato alle spalle. Se però si affronta con spirito agonistico, è un’altra cosa. A metà giugno 2016, i norvegesi Ivar Tollefsen, Trond Hilde e Robert Caspersen hanno impiegato 6 giorni, 22 ore e venti minuti per coprire 560 km da costa a costa. Il primato precedente durava da tredici anni. Trond e Ivar c’erano già riusciti in poco più di nove giorni in autunno. In entrambi i casi non hanno utilizzato sci da fondo escursionistico come i nostri e pelli di foca, ma stretti e leggerissimi attrezzi nordici sciolinati, trainando un’unica slitta di pochi chili e stringendosi in una sola tenda. Roba da norvegesi, per i quali il tempo è buono e quindi si può andare se il vento cala appena sotto i 100 km/h. E la temperatura ideale è attorno ai meno venti. E infatti preferiscono partire a metà agosto, quando già comincia a farsi sentire il morso del gelo invernale e tradizionalmente si attraversa l’isola da Est a Ovest, mentre in primavera, dopo metà maggio, le temperature sono più alte, i venti meno impetuosi e la direzione usuale è l’inverso. C’è un vantaggio però a farla nella stagione meno favorevole: i crepacci nella prima e nell’ultima parte dell’inlandsis sono più chiusi, le seraccate meno tormentate e i canali di fusione, che in primavera assomigliano a fiumi in piena, in autunno si possono percorrere senza bagnarsi troppo, lasciando galleggiare le slitte.
Un viaggio straordinario nel tempo, prima ancora che attraverso le latitudini. Un’avventura che vale un pezzo di vita, per chi ama le solitudini glaciali. Un grazie ai miei compagni Thomas Kober, Beate e Martin Klein, Grete Karin Saetervik, Bård Helge Strand e Sindre Sivertsen.
ATTREZZATURA ARTICA
Preparare l’attrezzatura per una spedizione polare o subpolare di un mese è un lungo lavoro di scelta e di eliminazione spietata. C’è da scegliere tutto il materiale in base alle proprie necessità, ai consigli di chi già l’ha fatta, alle visite dei saloni specializzati e alle lunghe navigazioni su internet. Poi ne va lasciato a casa metà. Sarà comunque troppo per le vostre povere spalle, troppo poco per le necessità durante la traversata. Qui mi limito a indicare l’attrezzatura meno usuale rispetto alle più comuni uscite alpine.

- Sci Åsnes Nansen 190 cm
- Attacchi Rottefella Backcountry Magnum
- Pelli lunghe e corte
- Sciolina (necessaria quotidianamente per evitare gli zoccoli, altrimenti vi toccherà usare il burro o la crema solare)
- Bastoni Swix Mountain (+ almeno uno di ricambio, le rotture sono inevitabili)
- Scarpe Alfa Polar (abbondanti di almeno tre misure) con solette Woolpower in lana e alluminio
- Calze in abbondanza, di varia grammatura: ai piedi ne vanno indossate tre, a meno di non preferire i kartansk lapponi in lana cotta
- Guanti fini + guanti lavoro Ortovox Tour + moffole abbondanti in piuma e Polartec da sovrapporre a tutto
- Underwear 200 gr. Merino Ortovox o Engel in Merino e seta
- Underwear 600 gr. Woolpower in lana
- Giacca Patagonia Nano Air
- Duvet The North Face L6 Down Jacket
- Pantaloni Patagonia Powslayer Bib
- Pantaloni Patagonia Nano Puff
- Giacca Norrøna
- Berretti vari lana + balaclava + maschera neoprene + Buff + berretto in pelliccia sintetica 66° North Kaldi Arctic Hat
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 118, INFO QUI
Da Est a Ovest
Bianco. Nessun colore ci accompagna, mentre seguiamo l’ago della bussola che ci conduce a Ovest-Nord-Ovest. Whiteout. Niente suoni, tranne il vento che per fortuna oggi soffia più leggero. Per il resto, solo il ritmo degli sci e il nostro fiato. Abbiamo lasciato il fiordo di Isortoq da qualche giorno e siamo in pieno deserto bianco. Tento di interpretare le forme della neve, quando è il mio turno a battere traccia. Creste, buchi, sculture traforate dal vento. Una zampa d’orso. Che ci fa qui, a quasi cento chilometri dalla costa? Chiamo i compagni dietro di me, a loro non sembra. Mostro le unghie che hanno grattato il ghiaccio, ma ribattono che è uno scherzo di neve, nessun pericolo di incontrarlo stamattina. Però i norvegesi, che hanno il fucile, controllano che la cartuccia sia in canna. Non è un orso? Mah. Già abbiamo incontrato, ancora in vista del mare, piume, ossicini e peli che ha vomitato sul ghiaccio, liberando lo stomaco dai resti delle prede di qualche settimana. Erano freschi, non era transitato da tempo. Via di nuovo, per la cronaca non incroceremo alcun orso fino al termine della traversata, ma quelle orme, sono sicuro, erano sue.
Groenlandia, 14 agosto-10 settembre 2017, autunno a quelle latitudini. La traversata della più grande isola ghiacciata della Terra è un sogno fin da bambino, quando ho letto e riletto un libro sui grandi esploratori e fra tutte mi è rimasta in testa l’avventura di Fridtjof Nansen, ventisettenne di Christiania (Oslo), il suo viaggio da costa a costa del 1888, nella stessa stagione, da Est a Ovest come lo stiamo ripetendo noi. Un po’ più a sud il suo, un centinaio di chilometri in meno, ma rimane straordinaria l’impresa. Undici giorni di peregrinazioni in mezzo ai ghiacci a bordo di due scialuppe sbarcate dalla nave Jason, bivacchi sugli iceberg, la rotta contesa all’acqua gelata a colpi di ascia. Poi l’inlandsis, le barche abbandonate per proseguire con due sole grosse slitte del peso di oltre cento chili ognuna e allora un mese di odissea per raggiungere Godthåb, l’attuale Nuuk, capitale dell’isola. La fame. E finito il ghiaccio, ancora acqua da attraversare su una barca costruita con pezzi di slitta e, raggiunta una colonia danese, l’intero inverno in attesa di una nave per rientrare in Norvegia. Per loro una marcia verso l’ignoto, in un’immensità glaciale che gli inuit dicevano abitata da mostri. Per noi la ripetizione di un itinerario duro per le condizioni atmosferiche, faticoso e lungo, ma in fondo quando hai dubbi basta accendere il gps e trovi la traccia verso Kangerlussuaq (ma abbiamo proceduto sempre con la bussola).
E però se alla sera, rintanato tra le piume, rileggi le pagine del suo libro - un bestseller per la borghesia appassionata di montagna a cavallo del secolo, tradotto in ogni lingua europea salvo in italiano, quello che fece scoprire in tutti i Paesi alpini lo sport dello sci - ritrovi le stesse emozioni, i paesaggi, le difficoltà di un territorio che nonostante i mutamenti climatici è rimasto sostanzialmente uguale ad allora. Anzi lo scorso autunno, a causa di un’anomalia termica registrata solo in Groenlandia, le temperature erano crollate più ancora che ai tempi di Nansen: notti a -35° e una media diurna tra gli 0° e i -10°. I venti catabatici, che si rinforzano a Ovest sulle pianure canadesi e dall’Islanda sull’oceano Atlantico a Est, ci hanno frullatoper l’intero viaggio, in continuo contrasto, tanto da avere, dal mattino alla sera, bufera da ogni direzione.
Non è cominciata a metà agosto, la nostra traversata. È partita qualche anno fa con il tentativo di convincere gli amici delle precedenti spedizioni in giro per il mondo, poi una settimana sugli sci in Finnmark, nord della Norvegia, in febbraio per testare materiali e noi stessi nel grande freddo. In un inverno particolarmente mite, abbiamo cercato l'angolo d’Europa più gelido in quella stagione ed è risultato lassù. È finita con il congelamento di tre dita per Giorgio Daidola, fortunatamente temporaneo. Non ho idea se la visione delle falangi gonfie e annerite abbia convinto gli altri a sfilarsi, ma così è stato. È rimasto Matteo Guadagnini, scialpinista di lungo corso, e sono cominciati gli allenamenti seri, tabelle da maratona, montagna e soprattutto quella che Borge Ousland, il grande esploratore polare, chiama «la nobile arte del trascinare pneumatici», per abituarsi al traino delle slitte. A metà 2016 è toccato a me arrendermi, fermato da un elettrocardiogramma sotto sforzo del dottor Massimo Massarini. Matteo è partito lo stesso, affidandosi all’organizzazione di Ousland, io ho dovuto rimandare all’anno seguente. Ce l’abbiamo fatta entrambi, pur con spedizioni diverse, Matteo ci ha pure scritto un piacevole racconto pubblicato da Fusta editore, Groenlandia sulle orme di Nansen.

Ci vogliono almeno ventotto giorni per lasciare la traccia degli sci dalla costa Est alla costa Ovest. Ci si può mettere meno, ma diventa una gara contro il tempo, da impostare in maniera totalmente diversa da una spedizione alpinistica. Per sopravvivere a quella che è una delle più lunghe traversate sul ghiaccio - Antartide a parte, è ovvio - occorre trascinare almeno settanta chili di attrezzatura e cibo divisi fra due slitte. Cibo soprattutto, ché nel corso della giornata ingurgiti di tutto, per tirare avanti. Difficile correre, con un peso del genere attaccato alle spalle. Se però si affronta con spirito agonistico, è un’altra cosa. A metà giugno 2016, i norvegesi Ivar Tollefsen, Trond Hilde e Robert Caspersen hanno impiegato 6 giorni, 22 ore e venti minuti per coprire 560 km da costa a costa. Il primato precedente durava da tredici anni. Trond e Ivar c’erano già riusciti in poco più di nove giorni in autunno. In entrambi i casi non hanno utilizzato sci da fondo escursionistico come i nostri e pelli di foca, ma stretti e leggerissimi attrezzi nordici sciolinati, trainando un’unica slitta di pochi chili e stringendosi in una sola tenda. Roba da norvegesi, per i quali il tempo è buono e quindi si può andare se il vento cala appena sotto i 100 km/h. E la temperatura ideale è attorno ai meno venti. E infatti preferiscono partire a metà agosto, quando già comincia a farsi sentire il morso del gelo invernale e tradizionalmente si attraversa l’isola da Est a Ovest, mentre in primavera, dopo metà maggio, le temperature sono più alte, i venti meno impetuosi e la direzione usuale è l’inverso. C’è un vantaggio però a farla nella stagione meno favorevole: i crepacci nella prima e nell’ultima parte dell’inlandsis sono più chiusi, le seraccate meno tormentate e i canali di fusione, che in primavera assomigliano a fiumi in piena, in autunno si possono percorrere senza bagnarsi troppo, lasciando galleggiare le slitte.
Un viaggio straordinario nel tempo, prima ancora che attraverso le latitudini. Un’avventura che vale un pezzo di vita, per chi ama le solitudini glaciali. Un grazie ai miei compagni Thomas Kober, Beate e Martin Klein, Grete Karin Saetervik, Bård Helge Strand e Sindre Sivertsen.
ATTREZZATURA ARTICA
Preparare l’attrezzatura per una spedizione polare o subpolare di un mese è un lungo lavoro di scelta e di eliminazione spietata. C’è da scegliere tutto il materiale in base alle proprie necessità, ai consigli di chi già l’ha fatta, alle visite dei saloni specializzati e alle lunghe navigazioni su internet. Poi ne va lasciato a casa metà. Sarà comunque troppo per le vostre povere spalle, troppo poco per le necessità durante la traversata. Qui mi limito a indicare l’attrezzatura meno usuale rispetto alle più comuni uscite alpine.

- Sci Åsnes Nansen 190 cm
- Attacchi Rottefella Backcountry Magnum
- Pelli lunghe e corte
- Sciolina (necessaria quotidianamente per evitare gli zoccoli, altrimenti vi toccherà usare il burro o la crema solare)
- Bastoni Swix Mountain (+ almeno uno di ricambio, le rotture sono inevitabili)
- Scarpe Alfa Polar (abbondanti di almeno tre misure) con solette Woolpower in lana e alluminio
- Calze in abbondanza, di varia grammatura: ai piedi ne vanno indossate tre, a meno di non preferire i kartansk lapponi in lana cotta
- Guanti fini + guanti lavoro Ortovox Tour + moffole abbondanti in piuma e Polartec da sovrapporre a tutto
- Underwear 200 gr. Merino Ortovox o Engel in Merino e seta
- Underwear 600 gr. Woolpower in lana
- Giacca Patagonia Nano Air
- Duvet The North Face L6 Down Jacket
- Pantaloni Patagonia Powslayer Bib
- Pantaloni Patagonia Nano Puff
- Giacca Norrøna
- Berretti vari lana + balaclava + maschera neoprene + Buff + berretto in pelliccia sintetica 66° North Kaldi Arctic Hat
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 118, INFO QUI



