I sentieri effimeri dei Thule

Abbiamo corso su un terreno vergine. A malapena, se mai, calpestato da esseri umani prima; non c’era sentiero da seguire. Dovevamo semplicemente adattarci alla geografia del luogo: un gelido mare di cobalto alla nostra destra e lingue di vecchia neve che scendono tra scarpate e cavità, lasciando solo piccole strisce di tundra. Ogni nuovo passo era la ricerca del percorso nel suo senso più vero. Andavamo a caccia di macchie di vegetazione più liscia, costeggiavamo paludi e cercavamo di saltare sopra i gelidi ruscelli del disgelo, consapevoli di essere veramente nel bel mezzo del nulla. Non avevamo una città o un villaggio come meta, non c’era nessun segno di civiltà; nessuna comunicazione con il nostro pick-up, solo un tempo e un luogo prestabiliti per l’appuntamento e la speranza che la barca a vela fosse in grado di navigare tra i fiordi ghiacciati per venire a prenderci. La sensazione di evasione era palpabile, il senso di bellezza primordiale e di lontananza insuperabile. Però anche qui, sulla selvaggia costa orientale della Groenlandia, l’impatto dell’uomo sul mondo era evidente.

Il nostro piano era semplice. Vivere su una barca a vela di 60 piedi, utilizzandola per accedere alla costa selvaggia di Ammassalik. Sbarcare la mattina, correre dai 15 ai 40 chilometri ogni giorno fino al nostro punto di raccolta e sperare che il nostro capitano, Siggi - un uomo la cui esperienza è superata solo dalle storie che racconta - fosse in grado di navigare per venire a prenderci e che i fiordi non fossero troppo pieni di iceberg. Sulla terraferma ci aspettava un incredibile paesaggio. Il nostro piccolo gruppo completamente isolato per ore, a esplorare e giocare come ospiti temporanei nella natura selvaggia. Eravamo in balia dell’equilibrio precario del meteo: i venti chiudevano le insenature con il ghiaccio; fronti caldi scioglievano ciò che restava del ghiaccio marino costiero. Avevamo programmato la nostra visita per settembre, lasciando agire un’intera stagione calda per pulire i percorsi dove avremmo corso. Visto che le nostre mete erano indefinite, abbiamo avuto letteralmente centinaia di chilometri da esplorare. Il bello di avere un piano così semplice è che il viaggio diventa molto più che una corsa nella natura. Certo, spostarci a piedi era il modo più efficace per vivere questa terra così prepotente da vicino, ci ha permesso di interagire e giocare con un nuovo terreno. In quegli otto giorni vissuti insieme c’era un valore intrinseco molto più grande della mera esplorazione, una connessione con il luogo che non avremmo potuto raggiungere in meno giorni e con modalità diverse. Usare i nostri piedi come mezzo di locomozione ci ha dato il tempo di immergerci in quello che i nostri occhi vedevano. La vista non è stata l’unico senso, abbiamo potuto accarezzare con le mani i minuscoli fili d’erba sferzati dal vento, percepire ogni minima asperità di quella roccia forgiata dagli elementi sotto la suola delle nostre scarpe.

© Kelvin Trautman

Duemila anni fa la Groenlandia era disabitata. Le popolazioni nomadi e i coloni della preistoria avevano da tempo abbandonato i suoi aspri paesaggi. Mentre scendevamo dal tender che abbiamo usato per sbarcare nei luoghi più selvaggi, l’acqua di mare densa scivolava contro lo scafo a rompere il silenzio di un giorno tranquillo. Sette di noi, inclusa la nostra guida, Inga, sono scesi a terra. Anche se ci eravamo abituati alla routine di quella vita, il semplice atto di mettere piede su un lembo di terra nuovo era sempre una sensazione unica. Lo abbiamo fatto con trepidazione, pensando a quello che devono avere provato quei primi coloni, gli antenati dell’attuale popolazione Inuit, sbarcati per cacciare e raccogliere bacche, cercando di vivere della terra e magari alla ricerca di luoghi dove fermarsi definitivamente. Un vero senso di avventura ci ha pervasi, cercando ognuno di costruire il proprio percorso. Il cielo di un blu intenso ci ha permesso di essere parte per qualche istante di quel paesaggio così effimero. Il grande volume di esperienze ha richiesto un lavoro straordinario del fisico e della mente per adattarci. Spesso c’era una crudezza brutale, nuove lacrime che il paesaggio non aveva avuto tempo di addolcire. Il ghiaione sulle ripide discese era instabile, la roccia frantumata rotolava sotto i piedi. Anche le piccole valli sono state profondamente scolpite dalla potenza dei fiumi e delle cascate. Solo i fiori selvatici rompevano quell’aridità, il loro colore delicato era una macchia decisa in quel paesaggio, ma in qualche modo in armonia con la terra che li circondava. C’era poca fauna selvatica nell’entroterra e siamo stati contenti di non aver incontrato il più pericoloso degli abitanti: Inga aveva un fucile per tenere lontano gli orsi polari, ma ce ne sono sempre di meno, disorientati e affamati per il cambiamento climatico. Più calcavamo quella terra, più ci rendevamo conto che l’impronta dell’uomo raggiunge anche gli angoli più remoti del mondo e gli effetti sono ancora più dirompenti in questa primordiale solitudine.

Ritornare sulla barca ogni sera era come rientrare a casa, ci ha aiutato a metabolizzare quell’esperienza in un paesaggio così alieno. A differenza di una tenda o del dormire di rifugio in rifugio, ha creato in noi un senso di stanzialità nel flusso costante del viaggio. C’era un giusto contrasto tra i confini di quella piccola barca a vela e gli spazi infiniti che solcavamo di giorno. Anche quando la barca era ormeggiata, eravamo consapevoli che il nostro spazio minuscolo era ancorato sul bordo di un grande oceano, cullandoci dolcemente sopra all’abisso nero del mare. Abbiamo usato il tempo a bordo per rilassarci e resettarci. Abbiamo trascorso lunghe serate in cambusa a mangiare, bere e condividere storie. Un viaggio così, tutti insieme, ha un significato che va oltre la semplice compagnia. Ha voluto dire imparare dai punti di vista degli altri, arricchendo i propri pensieri ed esperienze. Sdraiato in coperta, le mani dietro la testa, mi sono trovato spesso a guardare il cielo nero. L’inverno arriva presto a Nord e l’aria fresca della notte pizzicava la pelle scoperta, in contrasto con l’intimità del mio sacco a pelo. Le luci del nord ballavano, cascate di luce fosforescente a fare lo slalom tra milioni di puntini di stelle. È stato un istante eterno, nel quale rendermi conto dell’assoluta meraviglia del mondo, senza volerlo imprigionare in un mirino, un’immersione totale nel momento, cercando di viverlo, piuttosto che catturarlo.

© Kelvin Trautman

La fotografia mi consente di visitare questi luoghi e toccarli con mano. Affronto con piacere la responsabilità di documentare quello che vedo e condividere storie. Spesso avviene tutto senza uno scopo più profondo che lasciare lavorare la mia ispirazione, ma a volte c’è un messaggio più importante da trasmettere. In Groenlandia siamo stati in grado di correre in molti più posti di quanto avremmo potuto fare anche solo pochi anni fa: il riscaldamento globale ha reso più veloce lo scioglimento della calotta glaciale. I ghiacciai si stanno ritirando dalla costa verso l’entroterra, lasciando vedere ogni anno un po’ di più di ciò che stava sotto. Nel breve termine questa potrebbe essere una buona notizia per i pochi che come noi si avventurano su queste terre a piedi, ma l’impatto sul resto del mondo è potenzialmente devastante. Le calotte glaciali della Groenlandia conservano l’otto per cento dell’acqua dolce del mondo. Quello che un tempo era in cassaforte sta rapidamente riempiendo gli oceani, cambiando il corso delle correnti e portando all’innalzamento del livello del mare. È una storia che tutti avevamo letto prima di venire qui, ma vedere con i propri occhi quello che sta succedendo e documentarlo mi ha segnato più di tante parole e numeri. Il segnale che il mondo sta cambiando e potrebbe non essere mai più lo stesso è visibile e tangibile, è soprattutto impossibile da ignorare.

La storia umana dell’isola è un flusso che si interseca con quello del clima, avanzando e ritirandosi nel corso dei secoli. Ai momenti di solitudine fanno da specchio periodi di boom demografico, con insediamenti lungo la costa, da Ovest a Sud, e infine sulla costa orientale che abbiamo esplorato. È incredibile pensare che le persone abbiano potuto vivere in questo luogo inospitale per circa sette secoli. Il popolo Thule è pieno di risorse e di spirito d’adattamento, è sopravvissuto alla piccola era glaciale, in estenuante equilibrio tra inverni rigidi e brevi estati, cacciando balene e foche. Un giorno abbiamo corso meno, Anna ed io abbiamo fatto un giro in kayak nelle acque dell’Artico, vicino alla barca. Il kayak è così radicato nella storia locale tanto da essere un vero e proprio simbolo nazionale. Facendo lo slalom tra gli iceberg condannati a morte, tutto ciò che potevamo sentire era il costante gocciolare del ghiaccio che si scioglie, interrotto dai rumori più forti e dal crepitio dei pezzi che si sgretolavano e si tuffavano nel mare, sollevando onde lunghe e minacciose verso le nostre piccole canoe. Abbiamo navigato per un po’ in questo cimitero di iceberg, ancora una volta comprendendo che l’apparente solidità di ciò che si erge come un monumento, che si tratti di un ghiacciaio, una montagna o un iceberg, è effimera.

© Kelvin Trautman

È innegabile che la terra sia in costante trasformazione, indipendentemente dall’intervento dell’uomo. I fossili di mare in cima alle montagne e le nuove isole vulcaniche sono lì a testimoniarlo. Mentre alcuni di questi cambiamenti sono lenti in rapporto alle nostre brevi esistenze, altri sono molto più rapidi, e il risultato diretto dell’attività umana. Siamo in un ecosistema collegato da ragnatele e le azioni delle persone dall’altra parte del pianeta hanno un impatto diretto e misurabile qui. Non solo misurabili attraverso le generazioni, ma in anni. Il fiordo di ghiaccio protetto dall’UNESCO vicino a Ilulissat si è ritirato di quasi dieci chilometri tra il 2001 e il 2004. Ma questa non è solo una storia di cambiamento del paesaggio: dagli orsi polari al bue muschiato e alle foche, qui la velocità catastrofica del cambiamento climatico sta facendo una selezione naturale e gli animali lottano per accaparrarsi il cibo e adattarsi al nuovo clima. Le conseguenze del climate change sono davvero globali. Più ghiacci si sciolgono, più il livello del mare sale e minaccia terre lontane come il Bangladesh e le isole del Pacifico. Dal macro al micro e viceversa, di nuovo, il nostro tempo in Groenlandia ci ha fatto riflettere su come tutto sia collegato. Ritornando al piccolo insediamento di Kulusuk, mi è stato difficile accettare l’impatto che gli uomini stanno producendo in questo angolo del mondo appena sfiorato dalla presenza umana. La Groenlandia e le regioni polari sono il campanello d’allarme del cambiamento climatico, una verità ancora più cruda in questa natura così primordiale. L’origine umana delle trasformazioni che abbiamo visto è duramente metabolizzata dal paesaggio incontaminato nel quale ci siamo immersi. Sono tornato a casa con un sospiro di sollievo, ma anche con il peso di una tremenda responsabilità sulle spalle. Non tutti potranno visitare la Groenlandia o vivere le nostre esperienze. Né quell’esperienza rimarrà cristallizzata e identica ancora per molto tempo. Il danno è già stato fatto e ogni giorno peggiora, minuto dopo minuto. C’è un rimedio? Forse ci sono degli indizi nella nostra storia per capire come gestire il climate change. La popolazione Thule si è adattata ed è sopravvissuta, lavorando in un ambiente che cambia frequentemente. Nella nostra breve esistenza su questo pianeta, sembra che vogliamo prosperare a spese di altre specie, o di quelli nella nostra che sono meno fortunati. Fa sorridere pensare che il termine groenlandese per definire queste lande desolate sia Kalaallit Nunaat, vale a dire la Terra delle Persone. Questa isola è stata disabitata così a lungo ed è ancora così vuota, eppure mostra più di tanti luoghi i segni pesanti delle azioni degli uomini. Forse riusciremo ad adattarci a un ambiente che cambia velocemente, c’è ancora molto da salvare, così tanto da combattere. Questa storia, queste immagini, sono più di un semplice reportage di una vacanza di corsa nella natura. Sono un fermo immagine su un luogo in metamorfosi artificiale, un esempio potente del perché abbiamo bisogno di uno sforzo ancora più grande come individui, collettività e governi per cambiare i nostri comportamenti. Potrebbe essere già troppo tardi e probabilmente troveremo un modo per adeguarci se così fosse, ma c’è qualcosa di più importante che combattere per la propria casa?

© Kelvin Trautman

LA GROENLANDIA È LA PIÙ GRANDE ISOLA AL MONDO

Circa l’80% della sua superficie è coperta da ghiacci, quella non occupata dalle nevi eterne è grande quanto la Svezia.

Il Northeast Greenland National Park è grande circa cento volte lo Yellowstone National Park.

L’Artico si sta scaldando a un ritmo due volte più veloce del resto del mondo con la Groenlandia sud-occidentale che ha visto il maggiore aumento delle temperature, di circa 3 °C negli ultimi sette anni.

Dopo la regione antartica, la Groenlandia è la seconda più grande zona ghiacciata. Il ghiaccio è vecchio fino a 100.000 anni, profondo fino a due miglia e rappresenta circa l’8% delle riserve di acqua dolce terrestri. Se si sciogliesse completamente, il livello degli oceani potrebbe salire fino a oltre sette metri.

La parola Tinu, che significa dietro, è utilizzata dagli abitanti della Groenlandia per descrivere la regione orientale, una delle più selvagge sulla faccia della Terra: i 2.700 chilometri di costa ospitano il più grande parco nazionale del mondo e tre baie con soli 5.000 abitanti.

Si pensa che gli Inuit (Eskimesi) siano arrivati nella parte nord-occidentale della Groenlandia dal Nord America tra il 2.500 a.c. e l’inizio del secondo millennio d.c., usando le isole dell’Artico Canadese come tappe intermedie.

Della spedizione in Groenlandia hanno fatto parte le trail runner Anna Frost, Stefanie Bleich e Kimberley Jacobs, insieme a Steve Chrapchynski, I glaciologi Tómas Jóhannesson e Pálína Héðinsdóttir, lo skipper Sigurður Jónsson, oltre al fotografo Kelvin Trautman.

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