Problem yok

In questi giorni in cui siamo costretti a casa abbiamo pensato di proporvi qualche articolo sui viaggi più belli pubblicati da Skialper. Per tornare presto in questi incredibili luoghi. 

Andiamo a sciare in Georgia, questo era l’obiettivo. In Georgia abbiamo passato due giorni. E non ci siamo mossi da Tbilisi. Partenza ore 9.10 del 18 marzo 2019. Una volta atterrati a Istanbul, Achille e io ci siamo subito divisi: lui si è lanciato in una corsa contro il tempo per recuperare il furgone dal meccanico prima che chiudesse, mentre io sono rimasta in aeroporto ad attendere i nostri due bagagli sportivi e quelli normali. Achille ha varcato la soglia del meccanico alle 17.58, riuscendo a prendere la chiave del nostro grande compagno a quattro ruote, mentre io l’ho raggiunto una mezzoretta dopo con tutta la nostra ingombrante attrezzatura. Il furgone risiedeva ormai tra quelle mura da un paio di mesi, durante i quali, nonostante la lunga permanenza, non gli era mai stata sistemata la quinta marcia: per cui, era ufficiale, avremmo affrontato il nostro viaggio con quattro marce, massima velocità 80 chilometri/ora.

Abbiamo passato il resto del secondo giorno di viaggio a dare una collocazione precisa a tutte le cose che ci eravamo portati dall’Italia e a quelle che avevamo immagazzinato nel furgone per via del mio trasloco da Istanbul a Milano. Infatti, oltre a sci, splitboard, racchette, caschi e vestiti, avevamo anche tre quadri, un cajon, una mappa da muro della Turchia, una canna da pesca, uno skateboard e una specie di arazzo di 3x3 metri regalato da Yusuf prima della nostra partenza. Il nostro è un California Westfalia T4 del ’93, di conseguenza qualche scompartimento per gli effetti personali c’è, ma penso che la Volkswagen non avesse mai previsto uno scenario di questo tipo, quindi spettava alla nostra immaginazione e creatività trovare un luogo per tutto. So che è difficile da credere, ma ce l’abbiamo fatta e, dopo qualche ora (quasi) tutto era scomparso dentro agli scompartimenti del furgone. Per celebrare ancora di più il nostro senso di riconoscenza nei confronti di questi salva-vita, gli scompartimenti li avevamo etichettati con dei veri e propri nomi: girasole, papavero, lavanda, ortensia, margherita, bucaneve e dente di leone. Perfino il furgone stesso era stato battezzato con un nome tutto suo: Cielo.

La distanza tra Istanbul e Tbilisi è di 1.800 chilometri e percorrendoli a 80 chilometri all’ora può risultare cospicua. Quindi seguirono giorni dedicati a macinare strada, ma, volenti o nolenti, gli stop giornalieri di contemplazione dei luoghi e di interazione con i locali, portavano a un avanzamento lento. Tempo perso o speso meglio? Non lo so, quel che so è che dopo circa cinque giorni di viaggio ci siamo domandati perché volessimo a tutti i costi arrivare in Georgia quando era evidente che fossimo destinati a essere trattenuti tra le meraviglie incontaminate del Nord-Est della Turchia. E abbiamo deciso così che la Georgia e il suo famoso Caucaso avrebbero lasciato il posto all’Anatolia e alla catena dei Ponti.

© Achille Mauri

Liberati dal senso di colpa di muoverci troppo lentamente, abbiamo apprezzato ancora di più la magia di ogni chilometro percorso. Ogni valle era diversa: la natura ha usato tutti, o perlomeno tanti, dei suoi strumenti e trucchi per creare spettacoli affascinanti. Guidando vedevo timelapsedi ere geologiche: ghiacciai che si espandevano, che si ritraevano, che creavano laghi e fiumi e si inaridivano per dare immagine a ciò che scorgiamo oggi. Vivevo lo stesso effetto di quando conto i numerosi anelli degli alberi, di quando tocco le mura di una chiesa del X secolo e di quando stringo le mani di mia nonna: l’effetto pervadente della saggezza intrinseca dell’antichità.

Le valli di Duragan e di Vezirkopru rappresentano lo scenario nitido di quel che immagino quando penso ai brontosauri pascolanti e rilassati: larghe valli a U di cui sono protagonisti freschi fiumi che rendono verdeggianti le circostanti pianure, le quali si trasformano brevemente in alte rocce. Le valli di Kolyulhisar invece sono sfilate come modelle davanti a noi, mostrando cappotti e strati di tutti i colori. È capitato più volte di fermarci in punti particolarmente panoramici a contemplare luoghi sempre così diversi e spesso non lontano c’era un pastore. Trovo che sia terapeutico osservare i pastori durante la loro quieta, quotidiana occupazione. Osservano il gregge con ancora gli occhi di Mosè e di Maometto. Se ne stanno lì su una roccia a guardare il monotono vivere di pecore che brucano su prati verdi, godendo dell’impetuoso sfondo di montagne rocciose. Qui la solitudine recluta anime ed eleva attraverso una delle occupazioni più antiche della storia dell’uomo.

In un’altra valle, quella di Camoluk, sembrava di essere in un alveare rappresentato da piccole montagnette triangolari aride, gialle, costellate di bassi cespugli verdi che interagivano tra loro, proprio come fanno le api mentre costruiscono e abitano il loro regno. A destra colline innevate, a sinistra un lago ghiacciato e in fondo un paesino dotato, ovviamente, di scenica moschea. Questo paesino si chiama Kose e, dopo aver dormito sotto flussi migratori di uccelli ai bordi del lago ghiacciato, abbiamo speso la mattinata nel bar - l’unico - del paese. Qui siamo stati serviti e riveriti a non finire. Achille ha fatto l’errore di chiedere simit varmi. Il Simit è il tipico pane dolce turco e alla fine ne ha dovuti mangiare sei… Gli uomini avevano uno sguardo molto vispo e si vedeva che capivano tutto quello che tentavamo di dire loro, nonostante la barriera linguistica; e nonostante il testosterone, la virilità e l’orgoglio dilagante in quella sala, tutti volevano una foto con noi due. Di donne neanche l’ombra. Siamo usciti da lì che sembrava avessimo passato una notte in un bar degli anni Venti durante il proibizionismo, con i vestiti impregnati di fumo. Non ci hanno fatto pagare nulla, esclamando problem yok, non c’è problema! E ci hanno salutato come se un loro figlio stesse partendo per la lontana America.

© Achille Mauri

Allontanandoci da Kose ho fatto una riflessione: che cosa rende duro il cuore degli uomini? Che cosa c’è nel mondo di tutti i giorni, delle grandi città, che ci impedisce di essere come loro? La genuina felicità per le cose semplici, il voler recare gioia nella vita del prossimo si traducono nella spontanea ospitalità. Il valore dell’esistenza è la ragion d’essere dell’ospitalità: tu sei ben accetto in casa mia perché esisti. È così antico come valore innato dell’uomo, ma poi qualcosa deve essere andato storto, perché Xenia è la dea dell’ospitalità, la Xenophobia è il male del mondo, e a noi non resta che scegliere.

La meta si avvicinava: Petran, la culla dello snowboard. Per qualche strano motivo questo nome s’intercambia con Mesekoy: stesso luogo, due toponimi completamente diversi. Superata Bayburt, siamo giunti al bivio per Yoncali e di conseguenza per Petran. Abbiamo attraversato un passo che ha fatto guadagnare una medaglia al valore al nostro furgone e, arrivati a Yoncali, abbiamo ricevuto accoglienza immediata: knock knock sul vetro dl furgone ed ecco Ahmed sorriderci come a dei suoi fratelli. Si è presentato in perfetto inglese e ci ha chiesto dove pensavamo di andare dato che da lì a pochi metri la strada sarebbe terminata. Noi siamo passati dallo stupore di sentir parlare inglese a quello di non poter proseguire e aver fatto quella strada invano. Ahmed ha continuato a farci sorridere fino al momento in cui abbiamo lasciato il paese. Ci ha invitato a conoscere la sua famiglia e a pranzare tutti insieme nella casa dei suoi zii, non troppo distante dalla sua. Durante il pasto abbiamo avuto modo di consultare i fratelli di Ahmed, grazie alla sua pronta traduzione, riguardo al da farsi per raggiungere Petran. Ci sembrava una buona idea attraversare la montagna (Kirklar Daği, 3.550 m) a piedi, dal momento che la destinazione era a un tiro di schioppo dal colle. Però il maltempo non lo permetteva, le previsioni non erano promettenti e non eravamo attrezzati per un’eventuale notte lungo la strada. Di conseguenza non restava che vivere da molto vicino lo stile di vita comunitario della grande famiglia di Ahmed e usufruire dell’ospitalità mangiando tutte le delizie da loro prodotte: formaggi, miele, uova e salame. Ci tenevano molto a specificare che l’unico prodotto in tavola non di loro produzione erano le olive di Bursa, tutto era organik. In dieci, seduti per terra intorno al grande piatto d’argento da cui tutti attingevano, sotto lo sguardo di sedici occhi curiosi e rispettosi, e pronti a essere tamponati dai numerosi bimbi che giravano gattonando come trottole per la stanza, ci siamo goduti il primo lauto pasto della giornata. Problem yok.

La famiglia più stretta di Ahmed, la mamma e il papà, non erano presenti, li abbiamo conosciuti più tardi. Ahmed si era laureato da un anno in letteratura all’Università di Bursa: aveva un’ottima proprietà di linguaggio e ci ha impressionato molto quanto fosse legato alla sua terra e quanto le fosse grato. Dopo il pranzo con i parenti, Ahmed ha reclutato Achille per aiutarlo nelle mansioni della stalla, mentre io sono stata parcheggiata a casa, in compagnia della mamma, una forza della natura che ha cresciuto quattro meravigliosi figli e che ha sacrificato molto della sua vita pur di farli studiare in scuole eccellenti, proprio come quella di Bursa. Durante la mia permanenza a Istanbul, ho avuto modo di entrare in contatto con molta musica turca e tra le mie canzoni preferite c’è Tatli Dillim di Selda Bagcan. Questa donna ha iniziato a cantarla ad alta voce, tenendomi tra le forti braccia, proprio come se fossi sua figlia, e ha iniziato a ballare per la cucina come una ragazzina, lanciando il velo sul divano e facendomi capire che poteva perché eravamo noi due sole. Erano anni che non la sentiva ed evidentemente ci doveva essere molto legata.

© Achille Mauri

Poi abbiamo raggiunto i ragazzi e ho trovato Achille in un momento nirvanico, mentre scattava foto ad Ahmed in un fienile molto speciale. Infine siamo andati in un’altra stalla dove sono stati aperti i cancelli dei piccoli vitelli che con voracità sono corsi ognuno dalla propria mamma per ciucciare il latte. Uno di loro era rimasto dentro, non riusciva ad alzarsi. Problem yok, la mamma di Ahmed lo ha aiutato dolcemente ad alzarsi e lo ha condotto dalla sua genitrice. Il vitello era nato il giorno stesso e, dato il mio entusiasmo per quella creaturina così innocente, hanno deciso di darle il mio nome. Quindi oggi, a Yoncali, in provincia di Erzurum, Turchia, c’è una mucca di nome Elena.

Era ormai buio e, dopo abbracci sentiti e consapevoli, siamo partiti. Abbiamo dormito nei pressi di Ispir e alla mattina ci siamo svegliati sepolti dalla neve: per fortuna eravamo scesi! Se fossimo rimasti lassù a Yoncali, opzione presa in considerazione, saremmo stati sicuramente bloccati dall’abbondante nevicata. Abbiamo proseguito verso Petran sulla strada innevata, che poi prendeva quota senza pietà. Eravamo ben disposti a salire con le pelli agli sci, ma il furgone ha superato le nostre aspettative a ogni curva e la salita si è trasformata quasi in un gioco, fino a quando abbiamo dovuto parcheggiare Cielo in un ampio tornante nel bel mezzo del bosco. Secondo le nostre stime dovevamo essere a poco meno della metà della strada per Petran e l’altra metà non rimaneva che farla con le pelli. Mentre Achille le montava ai rispettivi sci e splitboard, io ho preparato una rapida pasta al sugo rosso e, dopo averla divorata in pochi minuti, eravamo pronti a partire. Non abbiamo fatto in tempo a mettere gli sci ai piedi che è arrivato un pick-up di 20 anni fa, ma molto solido. L’uomo alla guida ha abbassato il finestrino e, senza dire nulla se non problem yok, ci ha fatto cenno di salire. Eravamo titubanti: avremmo preferito farla a piedi, ma avevamo solo due o tre ore di luce, non sapevamo quanto più lunga del previsto sarebbe stata la strada e quanto sarebbe peggiorato il tempo. Così, pronti per una pellata, abbiamo accettato il suo invito: io davanti con l’uomo e Achille sul retro aperto, un po’ sconsolato ma divertito. In tutta onestà: per fortuna che siamo saliti su quel pick-up perché la strada era ben più lunga del previsto e poco dopo la partenza, usciti dal bosco, niente era più visibile. Abbiamo capito di essere arrivati a Petran solo davanti alla porta di casa di quell’uomo. In macchina avevo provato a fare un po’ di conversazione, riscuotendo poco successo: il guidatore era molto riservato, aveva occhi saggi e vissuti e fumava molto. Si chiamava Emre, e per prima cosa ci ha portato a conoscere la moglie Fatma che è spuntata fuori dalla piccola porta di una stalla con un gran sorriso. Ci hanno invitato a rimanere a casa loro per la notte. L’ingresso era una stanzetta dove si dovevano lasciare le scarpe, da lì, attraverso una porta, si accedeva al salotto/cucina. Nonostante levarsi le scarpe sia parte integrante della tradizione turca, in quella casa c’era un discreto terrorismo poiché Fatima aveva una certa fissazione e per lei e suo marito c’era uno specifico paio di ciabatte per ogni stanza. Quando Emre ci ha portato sul balcone nella parte opposta della casa, ha dovuto cambiarsi le scarpe tre volte: un paio per il salotto, un paio per la stanza del balcone e un paio per il balcone. Per lui era del tutto normale, sembrava abbastanza rassegnato a questo rito. Le ciabatte per noi giustamente non c’erano e sono bastati dieci minuti scalzi per il salotto per ritrovarmi una spessa scheggia nell’alluce. Fatima non ha esitato un secondo: si è impadronita del mio piede e chirurgicamente ha estratto il pezzettino di legno. Problem yok. Quando Emre ci ha portati sul balcone, siamo rimasti fulminati dalla vista che ci siamo trovati davanti: le nuvole si erano diradate, la luce era quella del crepuscolo e Petran si ergeva magnificamente intorno a noi. Le montagne circostanti ancora non si vedevano, ma Emre ci ha rincuorato subito dicendoci che il giorno dopo il tempo sarebbe stato bello.

La cena è stata servita da Fatima, molto simile a quella del giorno prima: la differenza era che questa volta sullo sfondo c’era una televisione, accesa. Poi siamo stati scortati nella stanza dove Fatima era andata a pregare poco prima e dove aveva preparato due bei lettini separati. Problem yok. L’indomani eravamo in piedi prima del sorgere del sole, ma già c’era luce. Finalmente il paesaggio si mostrava limpido. Le montagne innevate erano come spruzzate di polvere magica e noi ci muovevamo silenziosi tra le case di legno, il negozio di alimentari e la moschea. Siamo usciti dal paese che il sole era ancora basso. Non avevamo un itinerario definito davanti a noi, ma tanta voglia di muoverci in quell’idillio. La mattina siamo saliti e scesi per colline cariche di neve: non c’era un centimetro tracciato e avevamo a nostra completa disposizione tutto il circondario di Petran. Purtroppo però non eravamo a conoscenza dell’effettiva stratificazione della neve: quanto aveva nevicato in quell’area? Quante volte? Sapevamo che il terreno era erboso e sapevamo che, sebbene non fosse ripido, il pericolo di valanga era comunque in agguato, quindi ci siamo temuti lontani dalla minaccia e ci siamo divertiti a consumare tutti i versanti delle illibate colline, accompagnati solo da caprette e minareti.

Ci siamo allontanati da Petran, di nuovo a bordo di quel pick-up scassato, con i nostri amici e Fatima che ci salutavano commossi, augurandoci la protezione di Allah. Poi abbiamo ritrovato il nostro Cielo ed è arrivato il momento dei saluti. Tutti e tre commossi: Gule gule Emre, arrivederci. La strada per Yaylalar era impervia e anche un po’ illogica. Dalle parti di Karakamis abbiamo notato una costruzione di dimensioni enormi, il canale di scarico ausiliario della diga di Arkun, sul fiume Coruh. Eravamo di fronte a un templio ad Apollo rivisitato in chiave moderna. Era sopraelevato, dava su tutta la vallata e sul fiume stesso, costruito in massiccio cemento e nella sua bruttezza e invasività aveva qualcosa di affascinante. Abbiamo presto scoperto però che il fiume Coruh è destinato a essere prosciugato da dighe di questo genere.

© Achille Mauri

Yaylalar è un villaggio a 1.900 metri che conta più o meno 25 abitanti, nel pieno centro dei monti Kaçkar. Da lì possono partire spedizioni di tutti i tipi, anche sulla montagna più alta della zona, il Kaçkar Daği (3.937 m). C’è un centro d’accoglienza per gli sportivi che vengono alla scoperta di quelle montagne così sconosciute, gestito da una coppia che rende onore a tutte le ore del giorno alla parola accoglienza. Lui è il signor Mohammed e lei la signora Gamze. Dopo la prima colazione siamo entrati e abbiamo ricevuto qualche indicazione su dove fare una gita per quella giornata. Ci siamo avviati lungo la strada che usciva dal paese con gli sci in spalla e abbiamo risalito un ruscello per due chilometri con le pelli agli sci. Più volte, a causa delle numerose piccole valanghe che avevano bloccato il percorso, abbiamo dovuto cambiare lato del fiume, attraverso stretti ponti naturali di neve. Per me era semplice grazie agli sci nuovi che mi aveva regalato Achille, ma per lui ci sono stati momenti precari dovuti al fatto che i passaggi fossero insufficientemente larghi per la sua splitboard. Ogni metro guadagnato portava a una prospettiva differente sul paesaggio. Superata la valletta marcata dal fiume, dopo 400 metri di dislivello lungo un pendio esposto a Ovest, siamo sbucati in un anfiteatro di montagne innevate, vigorose e soprattutto ricche di discese interessanti. Eravamo soli, in una valle che per quel giorno era stata donata a noi. Eravamo lontani dalle cave, dalle città, dalle persone. La neve sotto gli sci era di qualità: aveva nevicato il giorno prima, faceva freddo e non sentivamo l’influenza del vicino Mar Nero. Queste erano le condizioni per la mattinata, ma verso le 13 tutto iniziò a cambiare. La visione del nostro itinerario era molto più completa da lì, c’erano delle tracce in un canale poco distante, proprio accanto a quello che volevamo fare noi. Ci siamo avviati verso quel canale ma, a causa della neve marcia, abbiamo dovuto salire con gli sci in spalla, a quattro mani, su per delle rocce: era meglio non dipendere dalla neve. Arrivati in cima alla salita abbiamo capito che raggiungere il canale non sarebbe stata una buona idea, così ci siamo goduti il panorama che si era aperto davanti a noi. Infatti da quella posizione potevamo vedere sia l’anfiteatro già menzionato, sia le valli che lentamente si trasformavano in pianure fino a giungere al mare. La discesa all’inizio è stata carica d’ansia a causa dell’instabilità della neve: erano necessarie lunghe e veloci linee. Poi, quando la pendenza è diminuita, abbiamo goduto molto di più dei nitidi solchi che ci lasciavamo alle spalle. Le tracce incise nella neve riportano la soddisfazione di una ricerca insita nell’uomo che è quella di marcare il territorio, sono come firme.

Quella sera abbiamo deciso la via da percorrere il giorno dopo ma, con gran dispiacere, ci siamo svegliati con un tempo da lupi e abbiamo dovuto cambiare programmi. Con le orecchie basse abbiamo guidato verso valle e percorso la strada verso Yusufeli; ormai la destinazione ultima era Tbilisi, da cui saremmo partiti con un volo il primo aprile. L’indomani abbiamo superato il confine e due giorni dopo decollavamo verso la familiare Europa, stringendo le mani l’uno dell’altra, commossi per l’accoglienza ricevuta dal giorno uno al giorno 15. In un mondo sempre più colonizzato dall’uomo e sempre più popolato ogni giorno ci si allontana sempre di più. Più siamo e più siamo fisicamente vicini, più siamo lontani. In un mondo dove sviluppo, tecnologia e innovazione hanno preso il posto di amore, solidarietà e rispetto bisogna ricordarsi invece che, a Yoncali, c’è un Ahmed che ti aspetta a braccia aperte, chiunque tu sia, e che è pronto a darti un pasto caldo. E perché lo farebbe? Perché siamo liberi ma uniti, perché per quanto ci sembra di essere al di fuori di qualsiasi catena alimentare ed ecosistema, in realtà ne siamo parte integrante e supportarci a vicenda porta armonia all’interno di questo equilibrio. A volte non ci si rende conto dell’interdipendenza del benessere: è difficile che esista il mio se non esiste il tuo, e viceversa. Il senso di ospitalità è caratteristico di ogni ecosistema perché tutti dipendono da tutti e tutti sono connessi. E se tutto è connesso allora, problem yok.

© Achille Mauri

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