In un libro del nipote Oliviero ricordi e aneddoti dell’organizzatore delle Settimane nazionali sci-alpinistiche di alta montagna, uno dei padri dello skialp italiano.

L’altarino dei personaggi che ci hanno ispirato nello sci lontano dalle piste è sempre piuttosto affollato. Ci sta Fridtjof Nansen, ovviamente, e altrettanto ovviamente dobbiamo fare posto a Fosco Maraini, tra i primi a portare con sé, sulle montagne himalayane, gli sci per motivi puramente ludici. Ma in prima fila non può esserci che Toni Gobbi, il quale ha reso fruibili a un pubblico decisamente più ampio i grandi raid che sembravano riservati a pochi fuoriclasse. Fosco e Toni, nati a due anni di distanza l’uno dall’altro, si sono conosciuti, non ho idea se abbiano sciato uno accanto all’altro, ma hanno salito montagne assieme e contribuito, entrambi, alla riuscita della spedizione al Gasherbrum IV, mettendo le basi per l’ascensione di Walter Bonatti e Carlo Mauri nel 1958. Ma la guida Toni Gobbi aveva già cominciato nel 1951 a organizzare haute route sciistiche con gruppi di clienti sempre più numerosi. Cominciò dalla Chamonix-Zermatt, che francesi e svizzeri avevano cominciato a percorrere fin dagli anni Venti. E nel 1933 Leon Zwingelstein ne fece un tratto fondamentale della sua fantastica cavalcata sulle Alpi con gli sci. Fu la prima delle Settimane nazionali sci-alpinistiche di alta montagna che proseguirono costantemente fino alla sua scomparsa, nel 1970. Il suo era uno scialpinismo con il trattino, sci-alpinismo, e quel trattino non è solo un vezzo: «È un vero sciatore alpinista – spiega – colui che trova il piacere della salita, la gioia della vetta, la soddisfazione della discesa. Questi sono i tre punti ed io voglio che colui il quale fa dello sci-alpinismo con me lo faccia in completezza, in tutte e tre le parti». Alla Chamonix-Zermatt seguirono decine di altri raid, alcuni raccolti da uno dei partecipanti, Luigi Zobele, in una guida edita nel 1975 da Tamari, Sci-alpinismo nelle Alpi (ancora con il trattino). E tanti altri lontani dalle Alpi, dalla Groenlandia all’Elbrus, fino al progetto del Damavand, che si sarebbe dovuto concretizzare proprio l’anno della sua morte.

La traccia di Toni è il libro che il nipote Oliviero Gobbi ha scritto assieme a Gian Luca Gasca, partendo dagli scatoloni di documenti e fotografie trovati a casa della nonna (Rizzoli, pp. 240, euro 35: sarà presentato lunedì 15 dicembre alle 21 al Circolo dei Lettori di Torino, in un incontro organizzato dalla Libreria La Montagna). Un volume che per la prima volta mette a fuoco a tutto tondo un protagonista della montagna che non ha avuto – ingiustamente – la notorietà di altri suoi coetanei, altri che hanno lasciato segni coevi sulla neve e la roccia. Toni era nato nel 1914 a Pavia ma già a otto anni con la famiglia si era trasferito a Vicenza. Ed è lì, sulle Piccole Dolomiti, che nasce e cresce il suo amore per l’arrampicata, l’alpinismo, poi lo sci. Il padre è avvocato e anche lui sembra destinato alla stessa carriera. Nel 1940 si laurea, ma c’è da fare il servizio militare e nel frattempo scoppia il secondo conflitto mondiale. Istruttore di alpinismo alla Scuola militare alpina di Aosta, finisce sulle montagne valdostane a difendere la patria in una guerra in cui non viene sparato manco un colpo (c’è anche Mario Rigoni Stern da quelle parti). Fa pratica legale ad Aosta ma prosegue anche, sempre più coinvolto, la frequentazione delle montagne, sulle Alpi occidentali e le Piccole Dolomiti. Il motivo per cui resta in Valle d’Aosta, però, non è solo alpinistico, ma sentimentale. Nel ’43 incontra Romilda Bertholier, biondissima maestra elementare a Courmayeur, se ne innamora e nel ’45 la sposa. Diventa Guida alpina nel frattempo, poi Maestro di sci. Le ascensioni sono un lavoro, un piacere e una condivisione con Romilda, capace alpinista e sciatrice (sarà tra le prime, assieme al figlio Gioachino, a scendere la parete nord del Monte Bianco con gli sci).

Lasciamo alle pagine del libro il racconto della carriera di rocciatore, tra cui l’apertura della formidabile via – cui aspirava l’intera comunità alpinistica – al Grand Pilier d’Angle, assieme a Walter Bonatti, per concentrarci invece sulla sua traccia nella neve. L’approccio allo sci – allo scialpinismo, ovvio – era allo stesso tempo tradizionale e innovativo. Se all’epoca si guardava agli attrezzi come a un ausilio per la salita, mentre in discesa ogni santo aiutava, Gobbi chiedeva al suo cliente «una buona padronanza tecnica (…): deve cioè essere ben impostato  nella posizione di discesa in linea diretta e diagonale, saper usare con padronanza dérapage e saper curvare con tranquillità e scioltezza a stem-Christiania (non bastano dunque le curve a  spazzaneve!)». Così scrive nei suoi appunti destinati a essere stampati sui fascicoli in cui, anno dopo anno, presentava le sue Settimane. E ancora: «Occorre soprattutto che egli sia sicuro di curvare là dove ha deciso di curvare e là dove bisogna curvare e che egli sappia perciò, in nome della massima sicurezza, seguire fedelmente il tracciato del proprio capo-gruppo». Non era solo un retaggio della propria educazione militare ma, come ricorda un suo cliente che gli si affidò alla fine degli anni Sessanta, Leonardo Lenti, «la traccia sia in salita sia in discesa era un compito rigorosamente suo, e tutti dovevano seguirlo senza indugio sia in salita sia in discesa. Questo sia per questioni di sicurezza, sia per non turbare l’estetica del pendio vergine. Quando si arrivava in fondo, Gobbi riguardava il pendio su cui si era sciato ed era palesemente soddisfatto della bella traccia, ben fatta».

Toni Gobbi se ne andò, ad appena cinquantacinque anni, travolto da una valanga sul Sassopiatto, assieme a tre clienti di un gruppo che partecipava alla Haute Route dei Monti Pallidi. «Il gran capo ha pagato di persona – scrisse Giorgio Bocca in un accorato articolo su Il Giorno – L’ultima lezione alpinistica di Toni Gobbi, il prudente, è implicita nella sua morte: chiunque tu sia, per bravo che tu sia, ricordati che in alta montagna la morte può venire anche per te».


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